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2017 09 27 SUDAN- 700mila cristiani profughi di cui non parla nessuno

Fonte:
CulturaCattolica.it
TERRA SANTA - atto vandalico nella chiesa di Santo Stefano INDIA - La “legge anti-conversione” in Jharkhand: principio di violenza e polarizzazione religiosa TESTIMONIANZA IRAQ - Suora scampata all’Is: vogliamo tornare nel convento in Iraq PAKISTAN - Ad Asia Bibi la nomination per il Premio Sacharov 2017: riflettori sulla legge di blasfemia

SUDAN- 700mila cristiani profughi di cui non parla nessuno

PICCOLI PROFUGHI CRISTIANI COSTRETTI A RECITARE LE PREGHIERE ISLAMICHE PER POTER MANGIARE

«I bambini cristiani nei campi profughi sudanesi sono costretti a recitare le preghiere islamiche per ricevere il cibo». È quanto denuncia ad Aiuto alla Chiesa che Soffre una fonte in loco che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonima.

Attualmente si stima che vi siano 700mila cristiani sudsudanesi rifugiati in Sudan, la maggior parte dei quali alloggia nei campi profughi. «Sono confinati in quei luoghi – continua la fonte – perché il governo non permette loro di andare più a nord e raggiungere le città». All’interno dei campi le condizioni sono invivibili e il cibo offerto dal governo insufficiente. La quantità fornita mensilmente alle famiglie dura a malapena per due settimane, perché, secondo la fonte di ACS, gli aiuti delle Nazioni Unite vengono in larga parte trafugati e poi venduti al mercato, spesso con ancora ben visibile il logo dell’agenzia Onu che li ha donati.

Il governo impedisce alle organizzazioni umanitarie di vigilare sulla distribuzione degli aiuti e non permette alle associazioni legate alla Chiesa di offrire alcun sostegno ai rifugiati.

All’interno dei campi i rifugiati cristiani, bambini inclusi, si trovano ad affrontare non soltanto la miseria, ma anche la discriminazione e la persecuzione. «Una piaga purtroppo diffusa in tutto il Paese – afferma il direttore di ACS-Italia Alessandro Monteduro – Nel Sudan guidato dal regime islamista di Omar al Bashir, in cui vige la sharia islamica, la persecuzione anticristiana ha raggiunto livelli gravissimi». Oltre a doversi conformare ai costumi islamici – continuano i casi di donne cristiane arrestate per “abbigliamento indecente” – negli ultimi mesi i cristiani hanno dovuto sopportare anche la demolizione di alcune chiese. «E molte altre rischiano di essere abbattute – continua Monteduro – La motivazione addotta da Khartoum è violazione dei piani regolatori, ma è ben noto l’intento di al-Bashir di eliminare la presenza cristiana dal Paese».
(ACS 7 settembre 2017)

TERRA SANTA - atto vandalico nella chiesa di Santo Stefano

Mercoledì scorso alcuni vandali si sono introdotti furtivamente e hanno profanato la Chiesa di santo Stefano, attigua al monastero salesiano di Beit Gemal, a ovest di Gerusalemme. Gli autori hanno distrutto una statua della Madonna e delle vetrate che riproducevano momenti importanti della vita di Gesù. Lo riferisce l’agenzia Sir da fonti del Patriarcato latino di Gerusalemme. Mons. Giacinto Boulos Marcuzzo, vicario patriarcale per Gerusalemme e la Palestina, facendo visita alla chiesa, ha dichiarato che “non si tratta solo di un atto di vandalismo, ma anche di un’azione contro il carattere sacro dei luoghi santi e della fede del popolo. La Terra Santa è un luogo che beneficia di una fede profonda e di una grande ricchezza culturale. Dobbiamo vivere insieme nella diversità delle fedi. È assolutamente necessario accettare gli altri e accettarsi reciprocamente nella nostra diversità”.
Secondo il vicario patriarcale il fatto “si inserisce nel solco degli episodi avvenuti in passato. Può darsi che si tratti di estremisti ebraici, non lo sappiamo con certezza e al momento non si hanno riscontri. Ma la matrice è quella che si nasconde dietro gli attacchi a Tagba o in altri edifici cristiani della Terra Santa”. A metà dicembre del 2015 il cimitero del convento era stato vandalizzato e molte croci delle tombe divelte. Condannando fermamente “questo orribile attacco” il Patriarcato latino di Gerusalemme ricorda che “l’istruzione è la soluzione per insegnare il rispetto delle differenze religiose e culturali dei popoli”.
Forte condanna è arrivata anche dall’Assemblea degli ordinari cattolici di Terra Santa per bocca del suo portavoce Wadie Abunassar : “È con dispiacere e rabbia vedere noi stessi impegnati nella condanna di simili atti criminali che si sono ripetuti molte volte nei recenti anni, mentre al tempo stesso non vediamo né sicurezza né trattamento educativo da parte dello Stato contro questo fenomeno pericoloso”.
(22/09/2017 Radio Vaticana)

INDIA - La “legge anti-conversione” in Jharkhand: principio di violenza e polarizzazione religiosa
Le “leggi-anti conversione”, che di fatto sono strumenti per coartare la libertà religiosa, continuano a destare preoccupazione e polarizzare la società indiana: lo racconta all’Agenzia Fides il gesuita p. Michael Kerketta, teologo indiano e docente a Ranchi, capitale dello stato indiano di Jharkhand, nell’India settentrionale.
Il Jharkhand è diventato di recente il nono stato dell’India ad approvare e far entrare in vigore un provvedimento “contro le conversioni religiose”, quando il suo governatore, Draupadi Murmu, ha firmato il 5 settembre un disegno di legge “Freedom of Religion Bill” (che paradossalmente si intitola “Legge sulla libertà di religione”, ndr).
“Il provvedimento colpisce le comunità religiose non indù come cristiani, musulmani, sikh, e altre comunità locali. E’ nostro compito denunciare un’ingiustizia che viola la libertà di coscienza e di religione ed è contro la Costituzione. Per questo sabato 23 settembre ci riuniremo in un incontro pubblico a Ranchi, come membri di diverse comunità religiose, inclusi gli indù, per manifestare pacificamente il nostro dissenso”, informa il gesuita.
“Il governo del Jharkhand è in mano al Baratya Janata Party, il partito nazionalista indù che governa anche l’esecutivo nazionale, con il Premier Narendra Modi. I gruppi estremisti indù nello stato di Jharkhand sono forti e hanno ampio spazio nella società. Nei giorni scorsi a Ranchi cortei anticristiani e di militanti violenti hanno agitato la città. Alcuni cristiani sono in carcere per false accuse di aver promosso conversioni”, rileva p. Kerketta.
Il gesuita ricorda e sostiene la lettera aperta scritta nei giorni scorsi dal Vescovo Theodore Mascarenhas, Segretario generale della Conferenza episcopale indiana (Cbci) al Premier indiano Narendra Modi, in cui si nota la campagna di odio e ostilità verso le minoranze religiose, promossa dal Primo Ministro del Jharkhand, Raghubar Das, e dal suo esecutivo. “Se non sarà messa immediatamente sotto controllo, potrebbe portare lo stato e la sua popolazione su un sentiero di violenza e di odio”, avverte il Vescovo. La lettera ricorda che “la Chiesa cattolica si oppone con forza alle conversioni forzate. Ma allo stesso tempo essa afferma il suo diritto di predicare, praticare e diffondere la fede”. I cristiani, se pur vittime di violenza, nota la missiva, “non risponderanno con la violenza” ma continueranno a lavorare per i poveri e gli emarginati con “l’istruzione , l’assistenza medica e altre attività sociali”.
“Attualmente a Ranchi non si registra violenza sociale o religiosa, ma il clima sociale resta teso e come comunità di minoranze siamo preoccupati per le aggressioni di gruppi radicali induisti”, conclude p. Kerketta
A partire dall’anno 2000, una legislazione “anti-conversioni” è stata adottata da sei stati indiani: in Chhattisgarh nel 2000; in Tamil Nadu nel 2002 (poi abrogata nel 2004); in Gujarat nel 2003; e in Rajasthan nel 2006 (non firmata dal governatore, dunque non in vigore); in Himachal Pradesh nel 2007, Jharkhand nel 2017. In passato primi provvedimenti di tale risma furono adottati in Odisha (o Orissa) nel 1967, in Madhya Pradesh nel 1968 e Arunachal Pradesh nel 1978 (ma qui non vi sono regolamenti applicativi). Attualmente una legge anti conversione è dunque in vigore ed è esecutiva in sei stati su nove (uno l’ha abrogata, in due non è esecutiva). In Gujarat è necessario un permesso scritto prima che un individuo possa convertirsi a una nuova fede religiosa, mentre in altri casi si richiede una “notifica” alle autorità civili o alla magistratura. (PA) (Agenzia Fides 21/9/2017)

TESTIMONIANZA

IRAQ - Suora scampata all’Is: vogliamo tornare nel convento in Iraq
“Vogliamo tornare perché la nostra casa è lì, i nostri antenati sono lì, la nostra radice è lì”. Suor Silvia, religiosa irachena delle Domenicane di Santa Caterina da Siena, si interrompe. Vorrebbe piangere ma stringe i denti e abbozza un sorriso. Ricordare quel drammatico 6 agosto del 2014, quando il convento iracheno di Qaraqosh fu assaltato dai miliziani dell’Isis e quasi completamente distrutto, le fa male al cuore: “Ho mal di stomaco, sono ricordi dolorosi. In trentasei siamo fuggite senza portare via nulla, solo la paura. E’ terribile pensare alle tante persone buone uccise”.
Dolore e sofferenza provoca nella sua anima il ricordo delle consorelle, ventiquattro nel giro di poco tempo, morte di crepacuore e di paura per quei momenti terribili. “Molte sono andate a letto e la mattina dopo non si sono più svegliate. Il cuore non ha retto…”.
Ora, dopo la liberazione della città, suor Silvia vorrebbe rientrare nel suo convento, eretto nel 1883. La Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre si è offerta di darle una mano, dopo averla incontrata per tre volte nel Kurdistan iracheno proprio il giorno della cacciata dalla Piana di Ninive, con una campagna di raccolta fondi necessaria per la ricostruzione delle strutture completamente distrutte e profanate. “L’unica cosa che ci preoccupa è la sicurezza” spiega suor Silvia lanciando un appello affinché la gente del posto possa difendere lei e le sue compagne. Poi non dimentica il sacrificio dei soldati iracheni, uccisi nella battaglie contro l’esercito del male, come lo chiama suor Silvia: “Loro, musulmani, hanno dato la vita per proteggerci dagli attacchi dei miliziani. Non hanno guardato alla nostra fede, non ci hanno chiesto prima se fossimo cristiani, sciiti o sunniti ... Hanno anche salvato molti bambini e molte donne. Quei ragazzi sono stati deli eroi”.
Sul ritorno dei cristiani in Iraq il prossimo 28 settembre a Roma si terrà una conferenza internazionale che verrà aperta dal Segretario di Stato Vaticano, il card. Pietro Parolin, nella quale verrà presentato un progetto di ricostruzione nella Piana di Ninive di 13mila case distrutte dall’Isis finanziato con oltre 250 milioni di dollari.
(22/09/2017 Radio Vaticana di Federico Piana)

PAKISTAN - Ad Asia Bibi la nomination per il Premio Sacharov 2017: riflettori sulla legge di blasfemia
Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia e in carcere dal 2009, ha ricevuto la nomination per l’edizione 2017 del prestigioso “Premio Sacharov, per la libertà di pensiero”, conferito dall’Unione Europea. Il Premio è un’iniziativa del Parlamento europeo e viene assegnato a individui o gruppi distintisi per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Tra i candidati di quest’anno, oltre ad Asia Bibi, vi sono: Aura Lolita Chavez Ixcaquic, difensore dei diritti umani provenienti dal Guatemala; Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, co-presidenti del Partito democratico popolare pro-curdo (HDP) in Turchia; gruppi e individui che rappresentano l’opposizione democratica in Venezuela; Dawit Isaak, drammaturgo svedese-eritreo, arrestato nel 2001 dalle autorità eritree; Pierre Claver Mbonospa, attivista per i diritti umani in Burundi.
Peter Van Dalen, membro dello “European Conservatives and Reformists Group” (ECR) nel Parlamento Europeo, che ha proposto la candidatura di Asia Bibi, ha spiegato che “il caso di Asia è di importanza simbolica per altri che hanno soffrono per la libertà di religione o di espressione”.
“In lei si vede la situazione di tutta la comunità cristiana. Il suo caso è tragicamente indicativo dell’insicurezza di tutte le minoranze, quando si tratta del rispetto dei loro diritti umani fondamentali”, nota in un commento inviato a Fides Kaleem Dean, intellettuale e analista pakistano. “Se ottenesse il Premio Sakharov, Asia Bibi riceverebbe 50.000 euro. Eppure qui è in gioco qualcosa che vale più del denaro (pure utile a un risarcimento per il danno subito): è in gioco il riconoscimento della libertà di religione in Pakistan”, prosegue.
“Il governo – dichiara – sta mettendo la testa nella sabbia, per non sentire le grida angosciate delle comunità religiose minoritarie”. Soprattutto il suo caso tira in ballo la famigerata “legge sulla blasfemia”: “Le accuse di blasfemia sono uno strumento di quella che è diventata l’oppressione statale contro le minoranze. I governanti dovrebbero avere il coraggio e la visione di riformare la legge sulla blasfemia”, conclude Dean.
“Il primo ministro pakistano Shahid Khaqan Abbasi, partecipando in questi giorni alla 72ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha vigliaccamente rifiutato di parlare della legge di blasfemia in Pakistan, dicendo solo che il Parlamento pachistano e l’organo responsabile della modifica delle leggi”, rileva a Fides Nasir Saeed, direttore dell’Ong CLAAS “Centre for Legal Aid, Assistance and Settlement”, impegnata per la difesa delle minoranze religiose in Pakistan. “Da anni – prosegue Saeed – tale questione è tabù e anche il Primo Ministro del Pakistan ha paura di fare commenti. Il ruolo di Primo Ministro è anche quello di garantire che le leggi non siano abusate, ma purtroppo queste legge sulla blasfemia viene regolarmente sfruttata come strumento di vendetta per perseguire persone innocenti. Negli ultimi anni l’abuso della legge sulla blasfemia è aumentato. Ora è considerato un modo semplice, veloce e poco costoso per risolvere controversie private e punire i propri avversari”.
“La legge sulla blasfemia – conclude Saeed – non è conforme agli standard internazionali per i diritti umani. E il suo abuso genera ulteriori violazioni del diritto internazionale. Il governo del Pakistan non affronta una questione così importante, sebbene sia questione di vita o di morte”.
Il direttore di CLAAS ricorda che esistono rapporti su un gran numero di casi di blasfemia basati su false accuse e sull’assenza di indagini giudiziarie: “Per questo invitiamo il Primo Ministro Abbasi a mettere la questione sull’agenda del suo governo e a portarla in Parlamento”, conclude. (PA) (Agenzia Fides 26/9/2017)

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