2017 09 06
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NIGERIA - Rapito e ucciso un sacerdote nel sud della Nigeria
Un sacerdote nigeriano, p. Cyriacus Onunkwo, è stato rapito e ucciso nello Stato di Imo, nel sud della Nigeria. Secondo la polizia, nel tardo pomeriggio del 1° settembre l’auto di p. Onunkwo era stata bloccata nei pressi del Banana Junction, ad Amaifeke, da alcuni uomini armati che lo hanno rapito. Il sacerdote, che svolgeva il suo servizio a Orlu, si stava recando nel suo villaggio natale, Osina, per partecipare al funerale del padre, morto il 28 agosto.
Il corpo del sacerdote è stato rinvenuto il 2 settembre nei pressi del villaggio di Omuma. La polizia afferma che non presenta ferite di armi da fuoco o da taglio e si presume che p. Onunkwo sia stato strangolato.
“Stiamo lavorando su tutti gli indizi raccolti. Per ora, è un chiaro caso di rapimento e omicidio. Se fosse stato un semplice rapimento, i sequestratori avrebbero chiamato i familiari della vittima e avrebbero chiesto un riscatto” afferma la polizia. (L.M.) (Agenzia Fides 4/9/2017)
PAKISTAN - Adolescente cristiano non abbraccia l’islam: ucciso a scuola
Un grave caso di violenza scuote la comunità cristiana del Punjab pakistano: secondo informazioni raccolte dall’Agenzia Fides, Sharon Masih, adolescente cristiano che frequentava la scuola superiore pubblica a Burewala (nei pressi di Multan), nel Sud del Punjab, è stato ucciso dai suoi compagni di classe musulmani che lo hanno malmenato fino alla morte il 30 agosto scorso nei locali della stessa scuola. Come conferma a Fides l’avvocato cristiano Mushtaq Gill, che sta seguendo il caso, Sharon Masih, 15enne cristiano residente del villaggio Chak-461, è stato fermato e sequestrato dai compagni che, con atti di bullismo, hanno iniziato a compiere violenze sempre più pesanti, fino a colpirlo con pugni e calci. Il ragazzo è crollato a terra esanime. Trasportato all’ospedale di Burewala, ne è stato accertato il decesso.
La polizia ha registrato un caso di omicidio con indizi verso Ahmed Raza e altri studenti musulmani, consegnando il corpo ai parenti del ragazzo, affranti. Secondo le prime indagini della polizia, sembra che il ragazzo fosse vittima di bullismo, di molestie e insulti anche a causa della sua fede cristiana e che i compagni avessero tentato di far convertire Sharon all’islam. Il ragazzo ha resistito anche nell’ultimo episodio di violenza, rivelatosi fatale. Date le minacce e le violenze già subite, Sharon aveva manifestato l’intenzione di cambiare scuola.
L’episodio mette in luce la discriminazione e la violenza ai danni delle minoranze religiose non musulmane, come indù e cristiani, diffusa nella società pakistana. (Agenzia Fides 2/9/2017)
CENTRAFRICA - A Bria convivenza religiosa in pericolo a causa dei combattimenti per il controllo delle miniere
“Nonostante le numerose campagne di sensibilizzazione e gli appelli dei leader delle comunità religiose di Bria per il ritorno della pace, la ripresa dei combattimenti tra i diversi gruppi armati per il controllo della città e delle aree minerarie limitrofe ha completamente paralizzato la coesione sociale e la discreta convivenza tra le comunità cristiane e musulmane” afferma la Piattaforma delle Confessioni Religiose in Centrafrica per la pace (PCRC).
Bria si trova nella parte centro-orientale della Repubblica Centrafricana e da mesi si trova in mezzo a scontri tra milizie rivali per il suo controllo e soprattutto per quello delle circostanti miniere di oro e diamanti (vedi Fides 23/6/2017).
“Bria è diventata una città irriconoscibile” denuncia il pastore Augusto Ngbando nella nota giunta a Fides. “Le comunità che vivevano in perfetta armonia sono diventate nemiche. Ora i bambini non possono andare a scuola, gli agricoltori non possono più recarsi nei loro campi a causa degli uomini armati che vagano per la foresta. I mercati sono quasi deserti. Gli uomini armati circolano nei quartieri che sono a loro favorevoli per paura di essere attaccati da gruppi rivali in quelli ostili”.
“A seguito delle campagne di sensibilizzazione condotte da tutti i leader religiosi, la pace e l’armonia cominciavano a ritornare all’interno della popolazione, ma gli ultimi scontri hanno distrutto i nostri sforzi” riferisce il pastore, che ha lanciato un appello ai leader del PCRC (tra i quali c’è il Cardinale Dieudonné Nzapalainga, Arcivescovo di Bangui) invitandoli a recarsi nella sua città per cercare di mediare tra le parti in conflitto e di rassicurare la popolazione. (L.M.) (Agenzia Fides 30/8/2017)
Su questa situazione segnalo un articolo interessante apparso su LNBQ il 28-08-2017, di Anna Bono.
Qualche stralcio:
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Di una crisi in effetti, quella della RCA, Repubblica Centrafricana, si parla poco, ma perché molti credono che ormai sia stata risolta. In questo piccolo paese ricco di diamanti è scoppiata una guerra nel 2012 quando la minoranza islamica (15% della popolazione) si è armata creando una milizia chiamata Seleka, rafforzata da migliaia di combattenti stranieri. Nel 2013 Seleka ha preso il potere con un colpo di stato ed è iniziata la persecuzione dei cristiani, con chiese profanate, saccheggi e distruzione di edifici religiosi, massacri, stupri, torture.
Per difendersi i cristiani allora si sono organizzati in gruppi armati anti-Balaka (anti-machete), che però ben presto, oltre a proteggere le comunità cristiane minacciate, hanno iniziato una caccia ai musulmani. Alla fine del 2013 il paese era in una situazione definita dall’Onu di “pre-genocidio”, i cristiani in fuga dai territori in mano ai ribelli, i musulmani da quelli a maggioranza cristiana. I combattenti non hanno deposto le armi nemmeno quando nel 2014, su pressione internazionale, il leader Seleka Michel Djotodia ha lasciato la carica conquistata con la forza. Gli scontri sono continuati con conseguenze drammatiche mentre Seleka e anti-Balaka si frantumavano in decine di gruppi: oltre alle numerose vittime, oggi si contano più di un milione tra sfollati e rifugiati, su 4,5 milioni di abitanti.
Il 19 giugno scorso il governo centrafricano e 13 gruppi armati hanno firmato un cessate il fuoco con effetto immediato e un’intesa su varie questioni di carattere economico, politico, umanitario e sociale. L’annuncio è stato dato dalla Comunità di Sant’Egidio nella cui sede romana si sono svolti i colloqui e alla quale va il merito dell’accordo raggiunto, che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha definito “un importante passo avanti per la pace e la stabilità del paese”.
Ma in realtà il cessate il fuoco non è mai entrato in vigore. Nei due giorni successivi alla firma scontri violentissimi hanno fatto 100 morti. Da allora ogni giorno ci sono stati combattimenti, razzie, violenze. Come in passato, le milizie islamiche antigovernative, che ormai controllano più del 70% del paese, non risparmiano nessuno e gli anti-Balaka non sono da meno.
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Il motivo per cui l’accordo è sostanzialmente fallito è che i gruppi armati sono decine, quelli convenuti a Roma rappresentano se stessi e non sono neanche tutti centrafricani, il governo conta poco. “Per discutere – sostiene padre Aurelio Gazzera da decenni missionario a Bozoum, 400 chilometri a nord ovest della capitale Bangui – le parti devono essere a un livello di forza simile. Qui abbiamo i potenti, che sono i gruppi armati, e dall’altra parte delle nullità come il governo e l’Onu. Per questo la grande soddisfazione espressa dal Consiglio di sicurezza per l’accordo di Roma è fuori luogo”.
I vescovi centrafricani hanno criticato sia la scelta degli interlocutori che l’atteggiamento dei mediatori, “troppo remissivo nei confronti dei gruppi ribelli che si sono macchiati di crimini indicibili”. “Lo stato ha cessato di esistere – spiega il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo della capitale – i signori della guerra regnano con il terrore, hanno diritto di vita e di morte sulle persone” e poiché detengono il controllo di gran parte del territorio nazionale, prosperano sul commercio di armi, diamanti, legno, oro e altre risorse minerarie.
Il cardinale Nzapalainga ha più di un motivo di criticare l’accordo. A sua insaputa, un esponente politico centrafricano lo ha firmato a suo nome. Venutone a conoscenza, monsignor Nzapalainga ha ufficialmente smentito di ave mandato qualcuno a Roma né per proprio conto né per conto della Conferenza episcopale. (…)
FILIPPINE
Il 23 maggio scorso, circa 200 guerriglieri jihadisti del movimento filippino Maute, legato allo Stato Islamico, occuparono la città di Marawi, nell’isola di Mindanao, la più meridionale dell’arcipelago delle Filippine. Da mesi, la battaglia che ne è seguita non fa più notizia. Ma solo in questi giorni pare volgere al termine, dopo tre mesi e mezzo di assedio.
Circa 46 civili sono ostaggi dei terroristi, tra cui il sacerdote cattolico padre Teresito “Chito” Suganob, il Vicario Generale della prelatura di Marawi. Di loro non si sa più nulla dal giorno del loro rapimento, avvenuto il 24 maggio, durante il raid jihadista contro la cattedrale di Santa Maria. Ora, non solo lo Stato Islamico minaccia di usarli come bombe umane, ma lo stesso presidente filippino Rodrigo Duterte invita a bombardare le ultime posizioni tenute dai terroristi senza badare troppo ai danni collaterali. Fra cui gli ostaggi.
FILIPPINE - Appello del Vescovo di Marawi: “La priorità sia salvare la vita degli ostaggi”
“Viviamo ore di grande apprensione. La crisi di Marawi volge al termine. L’esercito filippino ha riconquistato gran parte della città e tra i terroristi resta un manipolo di irriducibili che continua a tenere un gruppo di ostaggi, tra i quali il vicario di Marawi, p. Teresito Soganub, e altri cattolici. Il momento è molto pericoloso perché la vita degli ostaggi in queste ore è fortemente a rischio. Tutti si chiedono: quale sarà la loro sorte? Cosa faranno i terroristi?”: è quanto racconta a Fides, visibilmente preoccupato, il Vescovo Edwin de La Pena, alla guida della Prelatura apostolica di Marawi, sull’isola di Mindanao. La città di Marawi è stata occupata dai jihadisti fedeli allo Stato Islamico ed è da oltre tre mesi assediata dall’esercito filippino.
Il Vescovo continua: “Il presidente Duterte ha affidato ai leader militari la responsabilità della strategia sul campo. Faranno le loro scelte, per Duterte è importante far terminare al più presto questa crisi che si trascina da troppo tempo. Il presidente è impaziente anche per motivi politici e teme per la sua popolarità. Ma oggi lancio un appello al presidente Duterte e ai militari: la priorità deve essere salvare le vite umane. Speriamo che ogni azione rispetti questa priorità. Le vite degli ostaggi non sono e non potranno mai essere considerate ‘danni collaterali’. Sono vite umane e le loro famiglie sono in pena. Se accadesse qualcosa di brutto, sarebbe una grande amarezza e dolore. Preghiamo per loro con tutto il cuore. Sappiamo che, nelle scorse settimane, p. Teresito avrebbe avuto la possibilità di fuggire, unendosi a un gruppo che è riuscito a farlo, ma è voluto restare per stare vicino alla sua gente”.
La tensione resta alta a Marawi: “Purtroppo non vi sono negoziati – prosegue mons. De la Pena - perché i militanti sono estremisti e nella loro ideologia di odio non hanno lasciato alcuno spazio al dialogo. Inoltre il presidente Duterte ha scelto la linea dura e non vi sono canali per possibili trattative. Anche i leader musulmani che nelle scorse settimane si sono recati a Marawi sono tornati con un nulla di fatto”.
Il Vescovo conferma a Fides che la Cattedrale cattolica di Marawi, in passato occupata e devastata da jihadisti, è stata riconquistata dai militari, ma “non ho ancora avuto il permesso di recarmi a vederla”, nota. “Faremo del nostro meglio per ricostruirla. E tutta la gente di Marawi, ora sfollata, non vede l’ora di toccare nuovamente il suolo natio. Vuole ritornare, per avviare la lenta ripresa e la ricostruzione” aggiunge.
Mons. de la Pena lancia un appello attraverso Fides: “Chiediamo a tutti i cattolici del mondo di unirsi a noi nella preghiera intensa e incessante per la vita degli ostaggi. Chiediamo al Papa di mostrarci la sua vicinanza e solidarietà. Le sue parole sarebbero un forte incoraggiamento per tutti noi. L’unica salvezza oggi per noi è confidare in Dio e affidare questa delicata situazione a ‘Maria, Aiuto dei cristiani’, Patrona e protettrice della nostra Prelatura apostolica di Marawi. Questa crisi è iniziata proprio alla vigilia della sua festa. Ora invochiamo la Vergine Maria con tutto il cuore e mettiamo nelle sue mani e sotto il suo manto le vite dei fedeli innocenti”. (PA) (Agenzia Fides 1/9/2017)
Sulla situazione della cattedrale:
Il 29 agosto le forze regolari delle Filippine hanno liberato anche la stessa cattedrale di Santa Maria. Trovandola devastata e sistematicamente profanata. Un video realizzato dai militari ha mostrato le mura della cattedrale forate dai proiettili e sul pavimento frammenti di icone e di altri simboli religiosi distrutti. È stato gravemente danneggiato anche l’altare, accanto al quale si nota una statua decapitata. Il video delle forze regolari conferma quanto mostrato dallo Stato Islamico nel loro filmato di propaganda del giugno scorso, mandato di nuovo online nell’ultima settimana di agosto dal media center del Califfato, Al Hayat. Quest’ultimo è commentato da un jihadista che parla in inglese con accento americano, a conferma della natura multinazionale dello Stato Islamico, oltre al fatto che nelle Filippine mira ad attrarre volontari jihadisti dagli Usa. Mostra la sistematica opera di profanazione della cattedrale: il crocefisso viene buttato a terra e calpestato, vengono distrutte o decapitate le statue di Gesù e di Maria, foto di Papa Francesco e Benedetto XVI sono strappate o date alle fiamme.
Benché la cattedrale sia stata liberata nei giorni scorsi, gli jihadisti hanno raggiunto il loro obiettivo propagandistico: mostrarne la profanazione, ma soprattutto lanciare da lì una sfida a tutta la Chiesa. “Dopo tutti gli sforzi che la religione della croce (il cristianesimo, ndr) ha impiegato per soggiogare l’islam, sarà lei ad essere spezzata. L’inimicizia dei crociati contro i musulmani è servita solo a rafforzare una generazione di giovani”. Mostrando la foto di Papa Francesco uno jihadista afferma che “ci vendicheremo ancora di più”, perché “Noi arriveremo a Roma, a Dio piacendo”, dice puntando il fucile sulla foto del pontefice. (brano tratto da: Marawi, gli jihadisti minacciano gli ostaggi. E il Papa di Stefano Magni 05-09-2017 LNBQ)
Medio Oriente - Leader cristiani di Terra Santa: in atto “un tentativo sistematico per indebolire la presenza cristiana in Terra Santa” da parte di Israele
Secondo i Patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme è in atto “un tentativo sistematico per minare l’integrità della Città Santa” e “per indebolire la presenza cristiana in Terra Santa”. Tale progetto - riporta l’agenzia Fides - si manifesta chiaramente nelle “recenti violazioni dello Status Quo” dei Luoghi Santi, e anche una proposta di legge, sottoscritta da una quarantina di membri del Parlamento israeliano, che “limiterebbe i diritti delle Chiese sulle nostre proprietà”. Sono questi i motivi contingenti che hanno spinto i massimi rappresentanti di tutte le Chiese e comunità cristiane di Gerusalemme a firmare insieme un documento congiunto, in cui esprimono ferma opposizione a “qualsiasi azione” messa in atto da “qualsiasi autorità o gruppo” che abbia l’effetto di violare e minare “leggi, accordi e regolamenti che hanno disciplinato la nostra vita per secoli”.
Il documento, diffuso ieri dai canali ufficiali delle Chiese, è firmato da tredici capi di Chiese e comunità cristiane presenti a Gerusalemme. La lista dei firmatari è aperta da Teophilos III, patriarca greco ortodosso di Gerusalemme, e comprende anche l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, e padre Francesco Patton, Custode di Terrasanta.
A riaccendere la preoccupazione delle Chiese cristiane intorno allo Status Quo che regola la convivenza tra comunità religiose nella Città Vecchia di Gerusalemme è stata la sentenza con cui la Corte israeliana, a inizio agosto, dopo un lungo contenzioso, ha respinto le iniziative legali con cui il Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme aveva tentato di far riconoscere come “illegali” e “non autorizzate” le acquisizioni di alcune sue proprietà da parte dell’organizzazione ebraica Ateret Cohanim, avvenute nel 2004. Un “caso” a cui si è aggiunta di recente la proposta di legge sulla gestione delle proprietà presentata alla Knesset, che i capi delle Chiese considerano politicamente orientata.
I tentativi denunciati – si legge nel documento – non riguardano una sola Chiesa, ma colpiscono tutti noi e colpiscono i cristiani e tutte le persone di buona volontà di tutto il mondo. Siamo sempre stati fedeli – scrivono i capi cristiani alla nostra missione per garantire che Gerusalemme e i Luoghi Santi siano aperti a tutti, senza distinzione o discriminazione”. I firmatari si dichiarano anche concordi nel sostenere il ricorso presentato dal Patriarcato greco ortodosso alla Corte Suprema d’Israele contro la sentenza di agosto sulla proprietà degli immobili contesi. E fanno appello ai capi cristiani e ai fedeli di tutto il mondo, e anche ai capi dei governi, affinché trovino sostegno diffuso e internazionale tutte le iniziative volte a assicurare il rispetto delle regole dello Status quo nei Luoghi Santi, come contributo concreto all’affermarsi di una “pace giusta e durevole” nell’intera regione. (G.V.) (Radio Vaticana 05/09/2017)