2017 04 26 Egitto – Siria – Pakistan – Venezuela
- Autore:

EGITTO - Attacco terrorista presso il Monastero greco ortodosso di Santa Caterina SIRIA - Quattro anni dal rapimento dei due Metropoliti di Aleppo. I loro Patriarchi: non contiamo affatto sull’Occidente PAKISTAN – “Uccidete Asia Bibi” L’appello degli imam radicali VENEZUELA - Un altro morto per mancanza di medicine: è un sacerdote di 35 anni; per i Vescovi “la protesta civile e pacifica non è un crimine, è un diritto!”
EGITTO - Attacco terrorista presso il Monastero greco ortodosso di Santa Caterina
Il posto di blocco posto sulla strada che porta al Monastero egiziano greco-ortodosso di Santa Caterina, nella penisola del Sinai, è stato attaccato nella serata di martedì 18 aprile da un commando terrorista. L’assalto, rivendicato da sedicenti jihadisti affiliati all’auto-proclamato Stato Islamico (Daesh), ha provocato la morte di un sottufficiale di polizia e il ferimento di almeno quattro poliziotti. Gli agenti che presidiavano il posto di blocco hanno a loro volta ferito alcuni degli attentatori, costringendo il commando alla fuga. I monaci residenti nel Monastero, che dista alcuni chilometri dal posto di blocco, hanno comunicato di aver sentito solo il rumore degli spari, confermando che gli assalitori sono stati respinti dalle forze di polizia e l’assalto non ha provocato danni per la comunità monastica.
Il Monastero di Santa Caterina, alle pendici del monte Sinai, ospita attualmente una ventina di monaci greco-ortodossi sottoposti all’autorità di un Arcivescovo/abate, e gode di uno statuto di autocefalia. E’ considerato il più antico Monastero cristiano ancora attivo, e nel 2002 è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco per la sua architettura bizantina, la sua preziosa collezione di icone e la raccolta di manoscritti antichi.
Durante lo scorso mese di febbraio, nel Sinai del Nord, sigle jihadiste hanno rivendicato anche sette omicidi mirati contro appartenenti alle comunità cristiane copte locali. La serie di omicidi mirati aveva provocato l’esodo dalla regione di centinaia di famiglie copte. (vedi Fides 27/2/2017). (Agenzia Fides 19/4/2017).
SIRIA- Quattro anni dal rapimento dei due Metropoliti di Aleppo. I loro Patriarchi: non contiamo affatto sull’Occidente
“Cristo è risorto, e il destino dei nostri fratelli arcivescovi Boulos e Yohanna è ancora oscuro”. La Pasqua è caduta quest’anno molto vicina al quarto anniversario della loro sparizione, “e questo è forse il tempo più appropriato per alzare ancora una volta la nostra voce, e far giungere alle orecchie dei nostri fedeli e di tutto il mondo la voce del dolore della Chiesa di Antiochia, e la voce di tutti gli afflitti di questo Oriente”. Con queste parole, contenute in un messaggio congiunto, due Patriarchi di Antiochia, il greco ortodosso Yohanna X e il siro ortodosso Mar Ignatios Aphrem II, richiamano tutti a far memoria dei due Metropoliti di Aleppo - il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yazigi – rapiti il 22 aprile del 2013, nel quarto anniversario della loro scomparsa.
I due Vescovi metropoliti di Aleppo furono rapiti nell’area compresa tra la metropoli siriana e il confine con la Turchia. L’auto su cui viaggiavano i due vescovi fu bloccata dal gruppo dei rapitori e l’autista fu freddato con colpo alla testa, dopo un suo tentativo di fuga. Si trattava di Fathallah, un cattolico di rito latino, padre di tre figli.
Da allora, nessun gruppo ha rivendicato il sequestro. Intorno al caso sono state fatte filtrare a più riprese indiscrezioni e annunci di novità che poi si sono rivelati poco fondati. Sei mesi dopo il sequestro (vedi Fides 30/10/2013), il generale Abbas Ibrahim, capo della Sicurezza Generale libanese, si era spinto a rivelare che il luogo in cui erano detenuti i due Vescovi rapiti era stato individuato, e erano iniziati “contatti indiretti” con i sequestratori per ottenerne la liberazione. Rivelazioni a cui poi non sono seguiti riscontri concreti.
Nel messaggio dei due Patriarchi – uno dei quali. Il greco ortodosso Yohanna, è fratello di Boulos Yazigi - la vicenda dei due vescovi rapiti, insieme a tutte le altre sofferenze dei popoli mediorientali, vengono guardate alla luce dell’annuncio pasquale della Resurrezione: “I cristiani della Chiesa di Antiochia” si legge nel messaggio congiunto, pervenuto all’Agenzia Fides “sono sempre chiamati a ricordare che il cammino della Resurrezione è iniziato con la croce, e si è compiuto con la luce della tomba vuota. Noi che seguiamo Cristo, non temiamo morte e avversità, ma preghiamo nella nostra debolezza, come pregò lo stesso Gesù Cristo nostro Signore, che passi questo calice della sofferenza”.
Il messaggio dei due Patriarchi esprime anche, con toni veementi, la volontà e desiderio dei cristiani d’Oriente di continuare a vivere nelle terre del loro radicamento millenario: “il potere di questo mondo” rimarcano i due Patriarchi “non ci farà uscire dalla nostra terra, perché siamo figli della croce e della risurrezione. Siamo stati dispersi durante tutta la storia, e siamo ancora dispersi anche oggi, ma ciascuno di noi è chiamato a ricordare che la terra di Cristo non sarà svuotata dei suoi prediletti, e di quelli che sono stati chiamati a seguirlo già duemila anni fa. E se il sequestro dei due arcivescovi e dei sacerdoti mira a sfidare la nostra presenza di cristiani orientali, e a sradicarla da questa terra, la nostra risposta è chiara: sono passati quattro anni dal loro rapimento, sono sei anni che dura questa crisi, e noi stiamo qui, accanto alle tombe dei nostri padri e alla loro terra consacrata. Siamo profondamente radicati nel grembo di questo Oriente”.
I due Patriarchi, nel loro messaggio, colgono anche l’occasione di esprimere considerazioni critiche nei confronti delle linee politiche e geopolitiche seguite sugli scenari mediorientali dalle potenze occidentali: “Non abbiamo bisogno di simpatie per noi o di denunce rivolte contro altri” scrivono Mar Ignatius Aphrem e Yohanna nel loro messaggio “ma di una sincera e condivisa volontà di promuovere la pace nella nostra terra. (…). Non lasciamo i nostri problemi nelle mani del cosiddetto mondo civilizzato, che ci ha assillato con le sue chiacchiere sulle democrazie e le riforme, mentre la nostra gente è priva del pane e di tutti i mezzi di sopravvivenza. C’è una guerra, imposta a tutti noi come siriani, con conseguenze che pesano su di noi anche come libanesi. C’è un prezzo che paghiamo noi in tutto il Medio Oriente a causa delle guerre e di tutte le operazioni e i giochi fatti sulla nostra terra... Oggi diciamo ‘basta!’ davanti a coloro che finanziano i terroristi, e poi fingono di non conoscerli, vengono qui a combatterli o meglio, con il pretesto dichiarato di combatterli”. (Agenzia Fides (22/4/2017).
“Uccidete Asia Bibi” L’appello degli imam radicali
di Stefano Magni 19-04-2017 LNBQ
Uccidete Asia Bibi. Non usano mezzi termini gli imam pakistani che ieri hanno pubblicamente chiesto la condanna a morte di Asia Bibi, la donna cristiana accusata di blasfemia senza prove e rinchiusa nel braccio della morte da 7 anni, ancora in attesa di una sentenza definitiva.
La dichiarazione del muftì Muhammad Haneef Qureshi e di altri imam radicali giunge all’indomani del linciaggio dello studente Mashal Khan, assassinato perché accusato di eresia.
La dinamica è quella tipica innescata dalla “legge nera” sulla blasfemia: anche chi non viene formalmente condannato a morte e giustiziato da un boia di Stato, viene spesso linciato dai compagni di cella o dai vicini di quartiere. Così erano finiti, giusto per fare un esempio, Shama e Shahzad Masih nel novembre del 2014, sequestrati, torturati e bruciati vivi per il sospetto che Shama avesse bruciato una copia del Corano.
La legge nera prevede la pena capitale per chiunque sia reo di bestemmia contro il Profeta, il Corano e i suoi contenuti. Le sentenze capitali sono numerose e frequenti, inclusi i tre cristiani condannati a morte lo scorso luglio, anche qui con prove che non sarebbero valide in un qualunque tribunale occidentale. La possibilità stessa di dimostrare la blasfemia è pressoché inesistente e cela ostilità pre-esistenti, la volontà di sbarazzarsi di vicini scomodi, vendette personali, lotte fra gruppi e comunità rivali. L’effetto discriminatorio è una costante: cristiani, ahmadi, sciiti sono le vittime designate. Ci si basa sul sospetto, su dicerie, su prove deboli della cui autenticità è lecito dubitare.
Come dimostra il caso di Mashal Khan: l’accusa si basava sulla semplice voce, diffusa nelle aule universitarie, circa alcuni suoi commenti su Facebook. “Promuovevano la fede ahmadi”, dunque era un musulmano eretico secondo i suoi accusatori. Non si è neppure atteso il processo. Alla Wali Khan University di Mardan, dove Mashal Khan e il suo collega Abdullah, primo oggetto dei sospetti e delle dicerie di blasfemia, sono stati circondati da un gruppo di studenti radicali, i “protettori del Corano”, che hanno intimato loro di recitare alcuni versetti del testo sacro dell’islam. Al rifiuto dei giovani è immediatamente partito il linciaggio. Abdullah è sopravvissuto, anche se gravemente ferito. Mashal è morto. I “protettori del Corano” hanno continuato a prenderlo a calci e pugni anche dopo la sua morte. Il linciaggio avveniva il 13 aprile. Tre giorni dopo il muftì Muhammad Haneef Qureshi ha enunciato in televisione la sua autorevole interpretazione di quanto accaduto: “Se i peccatori venissero dichiarati blasfemi dai tribunali, senza che vengano concesse loro proroghe nella pena, gli studenti non agirebbero in quella maniera. Le persone hanno perso fiducia nello Stato, a causa della noncuranza delle istituzioni e del loro silenzio criminale. Incidenti come quello della Wali Khan University continueranno fino a quando verrà offeso il loro sentimento religioso”.
L’imam (e non è il solo) ha chiesto esplicitamente che venga impiccata Asia Bibi, senza ulteriori “proroghe”. La presunta “colpa” della donna cristiana, anche in questo caso, si basa sulla mera testimonianza orale di sue ex colleghe di lavoro musulmane. Non c’è alcuna possibilità di provare il reato di blasfemia nei suoi confronti. Una sentenza definitiva avrebbe dovuto essere spiccata lo scorso ottobre, ma la Corte Suprema ha rinviato l’udienza a data da destinarsi dopo il misterioso ritiro di uno dei suoi giudici. Il problema è che anche le più alte cariche dello Stato e della magistratura tremano di fronte alla violenza che può essere scatenata dagli imam e dalla piazza contro i “blasfemi” e tutti coloro che sono accusati di proteggerli. Per Asia Bibi sono già morti il governatore del Punjab Salman Taseer e il ministro per le minoranze Shahbaz Bhatti. Dopo appelli come quelli di ieri, la sorte di questa giovane e coraggiosa donna pakistana è segnata. Anche in caso di assoluzione, sia lei che i giudici dovranno trovare rifugio e protezione, in patria o all’estero.
VENEZUELA - Un altro morto per mancanza di medicine: è un sacerdote di 35 anni
Il Sabato santo, 15 aprile, verso le 10 del mattino, secondo le informazioni inviate a Fides da Mérida (Venezuela), è morto padre José Luis Arismendi, 35 anni, per mancanza di medicine. Per due giorni il sacerdote ha atteso i medicinali adatti a trattare una presunta meningite, presso l’Ospedale Universitario de Los Andes (HULA), ma non sono arrivati in tempo. Padre Arismendi si era sentito male già la Domenica delle Palme, 9 aprile, e il mercoledì santo è stato ricoverato all’HULA. I familiari del sacerdote, nato nella città di Tucaní, capitale del comune Caracciolo Parra e Olmedo dello stato di Mérida, hanno cercato inutilmente le medicine nella zona, fondamentalmente si trattava di antibiotici.
Purtroppo anche l’intervento del Card. Baltazar Porras, Arcivescovo di Mérida, che era riuscito ad avere le medicine da Caracas, è stato inutile perché l’invio dalla capitale venezuelana non è arrivato in tempo. Padre José Luis Arismendi era sacerdote da solo due anni e lavorava presso la diocesi di Cabimas, nello stato di Zulia.
L’opinione pubblica in Venezuela, che si esprime sempre di più attraverso le reti sociali, ha commentato che “è morto ancora un altro venezuelano per mancanza di medicine”. Il paese continua a vivere una grave situazione per la mancanza di alimenti e di medicinali. Ieri Human Rights Watch, nel suo rapporto sull’impatto dei numerosi venezuelani che si spostano verso la frontiera con il Brasile, ha esortato i paesi latinoamericani ad intervenire presso il governo del presidente Maduro per risolvere questa profonda crisi.
“Prima o poi il Brasile e altri paesi della regione dovranno fare pressione sul governo del Venezuela perché smetta di negare la crisi e prenda misure per risolverla” ha detto il direttore per le Americhe della Human Rights Watch, José Miguel Vivanco, secondo una nota di agenzia.
(Agenzia Fides, 19/04/2017)
VENEZUELA - Tre morti e milioni di manifestanti; per i Vescovi “la protesta civile e pacifica non è un crimine, è un diritto!”
“La protesta civile e pacifica non è un crimine. E’ un diritto! Il suo controllo non può essere una repressione eccessiva” afferma il comunicato della Conferenza Episcopale del Venezuela pubblicato ieri, quando nella capitale e in diverse città del paese si svolgevano numerose manifestazioni dove, purtroppo, almeno tre persone sono rimaste uccise. Secondo le agenzie di stampa internazionali si tratta di un 17enne morto a Caracas, una donna di 23 anni uccisa a San Cristobal e, nell’ovest del Paese, di una guardia nazionale.
Il documento dei Vescovi, pervenuto a Fides, alza la voce per ribadire: “La democrazia è caratterizzata, soprattutto, dal rispetto e dalla protezione dei diritti dei cittadini. Quando lo Stato (o il governo) li ignora oppure non li rispetta, cessa di essere uno Stato democratico, perde legittimità, perché la sua funzione è quella di difendere tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro ideologia politica. Ci sono altri fattori che negano la democrazia, come la concentrazione dei poteri pubblici nelle mani di un unico potere. Questa è la situazione attuale in Venezuela”.
I Vescovi dichiarano la posizione della Chiesa: “Difendere i diritti fondamentali, la vita, la libertà, la salute ... e altri diritti dei cittadini, è un dovere di ogni essere umano. E’ anche un diritto e un dovere della Chiesa e di tutti i credenti, perché i diritti umani e civili non appartengono esclusivamente alla sfera socio-politico, ma anche religioso”.
“La Conferenza Episcopale Venezuelana - conclude il comunicato - invita tutti i cittadini, credenti in Cristo e gli uomini e le donne di buona volontà, ad agire secondo coscienza, secondo i principi democratici e le leggi del paese, così come ad esercitare il diritto di protestare e di manifestare pubblicamente nel rispetto delle persone e dei beni e in modo responsabile e pacifico”.
Ieri, secondo l’opposizione, sei milioni di persone hanno manifestato in tutto il paese, 2 milioni e mezzo solo a Caracas. La polizia è intervenuta con i gas lacrimogeni per disperdere la folla e si sono registrati violenti scontri.
(CE) (Agenzia Fides, 20/04/2017)