Condividi:

2017 02 15 MALI - Rapita una suora colombiana IRAQ - Famiglie cristiane fanno ritorno a Mosul SIRIA Resti alta l’attenzione sul dramma di Aleppo CONGO RD - “Violenze inimmaginabili contro i civili” denuncia il Vescovo di Luiza FOIBE - i martiri cattolici

Fonte:
CulturaCattolica.it

AFRICA/MALI - Rapita una suora colombiana

Una suora colombiana della congregazione delle Suore Francescane di Maria Immacolata è stata rapita il 7 febbraio, a Koutiala, nel sud del Mali. “Non sappiamo chi siano i rapitori. Intorno alle 21 un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nella parrocchia di Karangasso a Koutiala, sequestrando la suora e fuggendo con l’autovettura della parrocchia. (L.M.)
(Agenzia Fides 8/2/2017)

AFRICA/MALI - Esercito e popolazione mobilitati per suor Cecilia; i rapitori si sono definiti jihadisti ma forse è un depistaggio
“Il governo ha mobilitato le forze armate per rastrellare la zona dove suor Cecilia è stata rapita. La popolazione stessa si è mobilitata per dare una mano nelle ricerche” dice don Edmond Dembele, Segretario generale della Conferenza Episcopale del Mali, che riferisce all’Agenzia Fides sugli ultimi sviluppi del rapimento di suor Cecilia Narváez Argoti, la religiosa di nazionalità colombiana della Congregazione delle Suore Francescane di Maria Immacolata, sequestrata a Karangasso nel sud del Mali, la sera del 7 febbraio.
Si ipotizza che i rapitori siano fuggiti in Burkina Faso. “Karangasso in effetti non è molto lontano dalla frontiera con il Burkina Faso” spiega don Dembele. “Una delle ipotesi è che i rapitori sono andati in Burkina con l’ostaggio. Ma c’è pure l’ipotesi che si tratti di un depistaggio. I rapitori si sarebbero recati verso la frontiera per dirigersi poi in una zona boscosa, in territorio maliano, dove avrebbero trovato rifugio. In quest’area forestale, al confine con la Costa d’Avorio, due anni fa era stata segnalata la presenza di un gruppo jihadista. Per il momento quindi non vi è alcuna conferma che suor Cecilia sia stata portata in Burkina Faso” dice il sacerdote, che conferma: “al momento del rapimento gli uomini che hanno prelevato la suora hanno dichiarato di essere jihadisti”.
“Anche in questo caso si possono fare due ipotesi: che si tratti effettivamente di jihadisti oppure di banditi che si sono fatti passare per tali per depistare le indagini” dice don Dembele. Quest’ultima ipotesi è rafforzata dal fatto che, oltre al denaro e al veicolo delle suore, i rapitori hanno pure razziato computer e altro materiale informatico.
Il rapimento di Suor Cecilia ha suscitato forte emozione in Colombia. Alcuni media colombiani hanno contatto la redazione dell’Agenzia Fides per ottenere informazioni sulla sorte della religiosa. “Speriamo che con gli sforzi di tutti si possa arrivare presto alla liberazione di suor Cecilia” conclude don Dembele. (L.M.) (Agenzia Fides 9/2/2017)

IRAQ - Famiglie cristiane fanno ritorno a Mosul
Nei quartieri orientali di Mosul, da poco sottratti dall'esercito iracheno alle mlizie dell'auto-proclamato Stato islalmico (Daesh) cominciano a fare ritorno le prime famiglie cristiane. Secondo quanto riportato dal sito ankawa.com, sono almeno tre le famiglie armene che già hanno fatto ritorno alle proprie case, in aree urbane appena sottratte ai jihadisti e nonostante la situazione di generale insicurezza che continua a pesare su tutta la città. Nei giorni scorsi, le zone cittadine sottratte al controllo dei jihadisti erano state teatro anche di attentati suicidi, che avevano provocato almeno 9 morti tra i civili.
I jihadisti di Daesh avevano conquistato Mosul il 9 giugno 2014. Nelle settimane successive, tutti i cristiani presenti in città avevano abbandonato le proprie case – molte delle quali subito espropriate dai jihadisti -, cercando rifugio come profughi dapprima nei villaggi della Piana di Ninive o a Kirkuk, e poi soprattutto a Erbil e nei villaggi del Kurdistan iracheno. Gli ultimi 10 cristiani anziani, rastrellati dai villaggi della Piana di Ninive e trasferiti a Mosul nella seconda metà del 2014, erano stati espulsi dai miliziani jihadisti il 7 gennaio 2015, dopo che avevano rifiutato di rinnegare la propria fede. il gruppo di anziani – alcuni dei quali con gravi problemi di salute – era stato accolto a Kirkuk, dopo aver passato due giorni al freddo nella “terra di nessuno” tra i villaggi occupati dalle milizie dello Stato Islamico e l'area sotto controllo dei Peshmerga curdi. (GV) (Agenzia Fides 13/2/2017).

SIRIA - AIUTO alla CHIESA che SOFFRE (ACS): “Resti alta l’attenzione sul dramma di Aleppo”
“Ad Aleppo circa 2.000 famiglie cristiane hanno urgente bisogno di cibo, acqua potabile, gasolio per riscaldamento, indumenti e medicinali. Anche se la fase più cruenta del conflitto si è conclusa non dobbiamo dimenticare le sue tristi conseguenze, che purtroppo permarranno per un tempo non certo breve.”.
Alessandro Monteduro, Direttore di ACS-Italia, spiega così l’iniziativa assunta dalla Fondazione, che sta proponendo alla comunità italiana uno specifico progetto per la martoriata città siriana. “Grazie ai nostri benefattori dal 2011 al 2016 nella sola Aleppo siamo riusciti a finanziare progetti per 2.458.731 euro, ma si tratta di una goccia nel mare delle attuali necessità.”.
Nel luglio 2012 i cristiani aleppini erano circa 120.000, oggi si stima siano 35.000. Sono stati presi di mira in particolare i quartieri cristiani Azizie e Sulaymaniyeh. Dobbiamo curare le famiglie rimaste, e creare le condizioni per il ritorno di quanti loro malgrado si sono allontanati.”.
Nella città attualmente operano diversi religiosi, e fra questi vi è Suor Maria Guadalupe de Rodrigo, missionaria argentina dell’Istituto del Verbo Incarnato (IVE). “Ieri Suor Guadalupe mi ha inviato un video-appello che stiamo diffondendo, e che sta attirando l’attenzione di molti – prosegue Monteduro -. Ci auguriamo che non cali l’attenzione pubblica sul dramma di una nazione, e in particolare di una città, in cui troppi innocenti hanno perso la vita o il futuro.”.
(ZENIT Posted by Redazione on 10 February, 2017)

CONGO RD - “Violenze inimmaginabili contro i civili” denuncia il Vescovo di Luiza
“Sono state commesse violenze eccezionali e atrocità inimmaginabili nei confronti di tranquilli cittadini” afferma in un comunicato inviato all’Agenzia Fides da Sua Ecc. Félicien Mwanama Galumbulula, Vescovo di Luiza nella provincia del Kasai Centrale nella Repubblica Democratica del Congo, dove da giorni si affrontano i militari e i miliziani del defunto capo tribale Kamwina Nsapu.
“Negli scontri tra miliziani e militari mi hanno detto che vi sono stati dei morti, soprattutto a Ngwema e Mubinza” afferma Mons. Galumbulula che ha interrotto il viaggio che stava effettuando con una delegazione di Vescovi in Europa per tornare subito nella sua diocesi. “Il bilancio esatto è difficile da stabilire al momento. Ma sono state commesse violenze eccezionali e atrocità inimmaginabili nei confronti di tranquilli cittadini. La popolazione è in preda alla psicosi al punto che è impensabile al momento organizzare le esequie delle vittime”.
“Le parrocchie di Mubinza, Ngwema, Lubi, Kamponde, Mikele sono sconvolte” prosegue il Vescovo. “Alcune sono state abbandonate ed altre saccheggiate”. Le più toccate dalle violenze sono Ngwema e Mubinza, i cui preti “hanno dovuto camminare giorno e notte per trovare rifugio in un’altra zona”.
L’11 febbraio l’ONU ha espresso “inquietudine” per le violenze nel Kasai centrale che, a suo dire, avrebbero provocato negli ultimi giorni almeno 50 morti nella sola provincia di Tshimbulu. (L.M.) (Agenzia Fides 13/2/2017)

FOIBE: APPROFONDIMENTO SUL GIORNO DEL RICORDO 10 febbraio

Foibe, i martiri cattolici della persecuzione titina
di Marco Guerra LNBQ 11-02-2017

La pulizia etnica contro gli italiani della Venezia-Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, perpetrata dalle milizie comuniste titine e il conseguente esodo delle ex provincie italiane (Pola, Fiume e Zara) annesse dalla Jugoslavia, sono ormai conosciute come la tragedia delle foibe, ricordata da una legge dello Stato del 2004 che ha istituito Il Giorno del ricordo per rinnovare la memoria e omaggiare le vittime dei massacri avventi tra il 1943 e il 1948 nelle terre del cosiddetto ‘confine orientale’.
Per circa 60 anni questa pagina di storia patria è stata strappata dai libri e dai circuiti della storiografia ufficiale. Per non infangare il mito delle resistenza e dei partigiani liberatori quegli eventi furono letti, nella migliore delle ipotesi, in un’ottica giustificazionista che prese per buona la vulgata delle vendette contro i fascisti oppressori.

Ovviamente non servirono accurate ricerche per far emergere la verità, ovvero che a finire nelle cavità carsiche della bellissima penisola istriana non furono solo soldati repubblichini ma tanti, migliaia, cittadini comuni italiani, e fra questi furono presi di mira soprattutto coloro che avrebbero potuto rappresentare un ostacolo alla slavizzazione di quelle terre: funzionari e dipendenti pubblici, finanzieri, guardie di frontiera, studenti e insegnati. Compresi alcuni antifascisti dichiarati che erano contrari all’annessione alla Jugoslavia comunista.

Ma oltre alle scuole, alle prefetture, ai tribunali e alle caserme, c’era un altro elemento che qualificava l’italianità dell’Istria e della Dalmazia, e questo era la presenza bimillenaria della Chiesa cattolica locale con il suo popolo devoto.

L’identità religiosa delle genti istrovenete era fra l’altro già di per sé per niente tollerata dai nuovi padroni della Jugoslavia che si rifacevano a quell’ideologia marxista che fece dell’ateismo uno dei fondamenti dello Stato. Fatto sta che infoibamenti, fucilazioni e massacri di ogni genere colpirono almeno 50 membri del clero. I nomi più ricordati sono don Francesco Bonifacio e don Miro Bulesic, oggi beati, uccisi entrambi in “odium fidei”.

Padre Bonifacio è stato beatificato nel 2008 come “martire delle foibe”. Aveva solo 34 anni quando fu ucciso nel settembre 1946 in Istria. Il giovane sacerdote venne fermato mentre rientrava da solo in parrocchia da tre attivisti titini. Lo denudarono, gli spaccarono la testa con una pietra e gli tagliarono la gola. Il cadavere non fu mai ritrovato perché probabilmente gettato in una foiba. Beato Francesco Bonifacio fu eliminato perché giudicato pericoloso per la sua capacità di dialogare con i giovani.

Brutale anche la morte di Beato Miroslav Bulesic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino, fu trucidato il 24 agosto del 1947 dopo aver cresimato 237 ragazzi nella chiesa di Lanischie, sempre in Istria. Alla fine della liturgia don Miroslav e monsignor Jacob Ukmar furono assaliti dai militanti comunisti che volevano impedire l’amministrazione delle cresime. Le milizie croate fecero irruzione nella canonica sgozzarono don Miroslav e picchiarono monsignor Ukmar.

Nel 1947 fu minacciato persino il vescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin, figura rimasta nel cuore di tutti gli esuli giuliano-dalmati, che a Capodistria (città che all’epoca ricadeva nella cosiddetta zona B contesa tra Roma e Belgrado) venne assaltato da una folla inferocita davanti allo sguardo indifferente delle guardie del Popolo. Ma non ci sono state solo le violenze fisiche, molte le croci divelte e le chieste sfregiate. La furia si rivolse soprattutto verso i cimiteri, furono profanate tombe e distrutte piccole cappelle, perché i nomi di quei morti ricordavano le radici di quella terra. Per questo motivo le spoglie dell’eroe nazionale della prima guerra mondiale, Nazario Sauro, furono traslate da Pola al Lido di Venezia

La ricercatrice romana e figlia di esuli Roberta Fidanza spiega alla Nuova BUSSOLA QUOTIDIANA che il clero fu perseguitato perché visto come un protettore degli italiani: “Furono poche le esecuzioni mirate di sacerdoti, la maggior parte dei preti uccisi fu coinvolta in rastrellamenti contro le popolazioni del luogo”.

“Per i fedeli gli anni più difficili arrivano dopo il 1948, quando l’Istria passò definitivamente sotto la Jugoslavia di Tito”, sottolinea Fidanza, “per tutti gli anni ’50 fu proibita la professione in pubblico della religione cristiana, agli italiani che decisero di restare fu proibito persino di farsi il segno della croce in strada, un’anziana esule mi ha raccontato che durante il turno in fabbrica le fu strappata la croce che portava al collo”.

La ricercatrice racconta inoltre dell’obbligo della messa in croato: “Fu un vero shock, infatti molti membri del clero preferirono lasciare quelle terre e seguire il destino degli altri esuli”. “Uno di questi fu Fra Giulio Rella – aggiunge Fidanza – figura di riferimento per i ragazzi e bambini che vissero il dramma dell’esodo, animò la comunità giuliana che si stabilì a Roma e promosse un gemellaggio con gli esuli ospitati a Trieste”.

“Sicuramente – conclude Fidanza – gli esuli avevano un sentimento religioso molto forte, nei villaggi di fortuna dove furono ospitati furono subito celebrate delle messe e costruite cappelle, questa devozione ha consentito loro di superare delle prove terribili”.

Vai a "Cristiani perseguitati. Memoria e preghiera"