2016 06 01 NIGERIA - In atto tentativo di eliminare i cristiani SIRIA - La UE conferma le sanzioni. L'Arcivescovo Marayati: soffrirà il popolo, non chi comanda. E c'è chi non vuole che la guerra finisca EGITTO - condanna per attacco estremista ai copti di
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Lo ha affermato Sua Ecc. Mons. Joseph Bagobiri, Vescovo di Kafanchan, nella sua relazione intitolata “L’impatto della violenza persistente sulla Chiesa nel nord della Nigeria”, illustrata in una conferenza tenuta presso il quartier generale delle Nazioni Unite a New York.
Le comunità più colpite dalla violenze della setta islamista Boko Haram sono quelle degli Stati settentrionali di Adamawa, Borno, Kano e Yobe. Le comunità cristiane costretta alla fuga si sono ricollocate negli Stati a maggioranza cristiana della cosiddetta “cintura di mezzo” (Middle Belt): Plateau, Nassarawa, Benue, Taraba e la parte meridionale di Kaduna.
Negli ultimi mesi però queste aree sono colpite dalle violenze dei pastori Fulani (vedi Fides 2/5/2016). “ Le comunità cristiane negli Stati a maggioranza cristiana della Middle Belt sono quelle più colpite dagli attacchi e dalle invasioni dei pastori musulmani Fulani. Questa è una palese invasione straniera di terre ancestrali dei cristiani e di altri comunità minoritarie” ha affermato Mons. Bagobiri nella sua relazione pervenuta a Fides. “In queste aree, i pastori Fulani terrorizzano incessantemente diverse comunità, cancellandone alcune, e in posti come Agatu nello Stato di Benue e Gwantu e Manchok in quello di Kaduna, questi attacchi hanno assunto il carattere del genocidio, con 150-300 persone uccise in una notte” ha sottolineato.
Mons. Bagobiri ha rivolto un appello alla comunità internazionale perché eserciti pressioni sulle autorità nigeriane perché garantiscano la libertà di culto ai cristiani e alle altre minoranze nel nord della Nigeria, e facciano fronte all’emergenza umanitaria delle popolazioni sfollate.
(Agenzia Fides 30/5/2016)
SIRIA - La UE conferma le sanzioni.
L'Arcivescovo Marayati: soffrirà il popolo, non chi comanda.
E c'è chi non vuole che la guerra finisca
La proroga di un anno delle sanzioni contro la Siria di Assad, disposta il 27 maggio dal Consiglio dell'Unione Europea (UE), rappresenta l'ennesima espressione “di una politica incomprensibile, che ci sconcerta. Perchè le sanzioni fanno male al popolo, ai civili, alla povera gente. Non certo al governo e nemmeno ai gruppi armati, che come si vede sono ben riforniti di tutte le risorse, e usano armi sempre più sofisticate”.
Così l'Arcivescovo Boutros Marayati, alla guida dell'arcieparchia armena cattolica di Aleppo, commenta la decisione presa ieri dall'Unione Europea di prorogare fino al primo giugno 2017 le sanzioni imposte a una nazione dilaniata da cinque anni di conflitto.
Nelle scorse settimane, anche l'Arcivescovo Boutros aveva sottoscritto l'appello/petizione lanciato sulla piattaforma change.org con cui numerosi Vescovi, religiosi e consacrati cattolici, appartenenti a diverse Chiese sui iuris, chiedevano all'Unione Europea di porre fine alla “iniquità delle sanzioni alla Siria” (vedi Fides 17/5/2016).
“Sappiamo bene che nessuno ci dà retta. Così la gente continua a soffrire.
Anche ieri - racconta all'Agenzia Fides mons. Marayati - è stata bombardata la nostra casa di anziani armeni. E' morta una lavoratrice che si prendeva cura di loro, e abbiamo dovuto portar via 45 anziani, che adesso vivono in una sala sotterranea della parrocchia armena ortodossa.
La situazione sta peggiorando. Dai quartieri in mano ai ribelli arrivano colpi d'artiglieria lanciati con armi più devastanti, che fanno più male dei colpi di mortaio di prima.
Ad Aleppo la tregua non regge. Si moltiplicano gli attacchi da una parte e dall'altra. E noi siamo sotto il fuoco dei gruppi jihadisti”.
Vista dalla frontiera di Aleppo, anche la decisione europea conferma le intuizioni da tempo avvertite da molti Vescovi e pastori della regione: “Se la guerra continua - ripete a Fides l'Arcivescovo Boutros Marayati - vuol dire che qualcuno non vuole che la guerra finisca.
In Europa cresce l'ossessione per i profughi e si sperimentano nuove politiche di respingimento.
Ma si dimentica che nessuno andrebbe via dalla Siria, se non ci fosse la guerra e anche le sanzioni che contribuiscono a affamare la gente.
La Siria è sempre stata un Paese che i profughi li accoglieva. Se le armi tacessero, e se le sanzioni fossero tolte, nessuno di qui penserebbe a scappare per andare a vivere sotto la neve.
Ma è evidente che qualcuno non vuole che questa guerra finisca.
Chiediamo la preghiera di tutti, affinchè arrivi la pace, come una grazia del Signore”.
(Agenzia Fides 28/5/2016).
SIRIA - Vescovo di Latakia: neanche qui siamo al sicuro
"Mai in quest’area si erano verificati attacchi simili. Ed ora temo che molti cristiani rifugiatisi qui vorranno lasciare il paese". Così mons. Antoine Chbeir, vescovo maronita di Latakia in Siria, commenta ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) i recenti attentati compiuti il 23 maggio dall'Isis in due città della sua diocesi: Tartus e Jableh. Il drammatico bilancio è di oltre 200 morti e più di 650 feriti, in un’area ritenuta tra le più sicure del Paese.
Rischio esodo in questa zona che era considerata sicura per i cristiani
"La nostra regione è controllata dal governo ed è stata quasi del tutto risparmiata da questi cinque anni di guerra. Ora che neanche qui si sentono protetti, altri cristiani se ne andranno". Dal 2011 ad oggi sono infatti numerose le famiglie cristiane siriane che hanno deciso di trasferirsi in questa zona costiera per non abbandonare il Paese.
La situazione è drammatica
"Stiamo cercando di aiutare il più possibile i feriti e i familiari delle vittime, ma le necessità superano le nostre possibilità. La situazione è davvero drammatica". Il presule racconta che nella giornata di lunedì a Jableh 110 persone sono state uccise e 350 sono rimaste ferite a causa di cinque diverse esplosioni. Nello stesso giorno quattro ordigni sono esplosi a Tartus causando più di 100 vittime e 300 feriti. Gli attentati sono stati rivendicati dal sedicente Stato Islamico. "Sono dei barbari – afferma mons. Chberi – e ciò che è peggio è che compiono queste atrocità in nome di Dio. È in nome di Dio che stanno uccidendo migliaia di innocenti ovunque".
I timori di una nuova emergenza: mancano cibo e beni di prima necessità
Oltre ad un probabile aumento dell’esodo di cristiani, a preoccupare il presule è la necessità di dover far fronte ad una nuova emergenza, peraltro aggravata da una drammatica crisi economica. "La lira siriana ha perso il 40% del suo valore soltanto nelle ultime due settimane. Il governo non ha i mezzi per fornire cibo e beni di prima necessità agli sfollati e alle altre famiglie che ne hanno bisogno". Ecco perché mons. Chbeir si è rivolto nuovamente ad Acs: l’associazione che negli ultimi cinque anni più ha sostenuto la diocesi nell’assistenza ai rifugiati. "Senza di voi non ce l’avremo mai fatta e non potremo continuare la nostra opera. Grazie per esserci sempre accanto".
(Radio Vaticana 26 05 2016)
EGITTO - condanna per attacco estremista ai copti di Minya
Sette case e negozi appartenenti a cristiani copti date alle fiamme e saccheggiati, un'anziana cristiana insultata, picchiata e infine denudata in pubblico da una banda di assalitori inferociti. E' questo il bilancio provvisorio della nuova fase di violenze settarie a danno dei copti esplose ad al Karm, nella provincia di Minya, nell'Alto Egitto. Stavolta, riferisce l’agenzia Fides, a scatenare la ferocia delle bande di esagitati sono state le voci di paese intorno a una presunta relazione sentimentale tra un egiziano copto, figlio della settantenne aggredita, e una donna musulmana.
Il portavoce della Chiesa cattolica : un pretesto per attaccare i cristiani
Il portavoce della Chiesa cattolica egiziana, padre Rafic Greiche, definisce la vicenda un “pretesto” inventato “per attaccare” la comunità cristiana locale, in un’area in cui “vi è una marcata presenza” di gruppi jihadisti ed estremisti islamici e all’agenzia Asianews sottolinea che l’attacco ha colpito tutto il popolo egiziano, cristiani e musulmani uniti nella condanna dell’accaduto.
(Radio Vaticana 27 05 2016)
ISRAELE - Il governo israeliano non mantiene le promesse, scuole cristiane a rischio
A pochi giorni dalla fine di un anno scolastico tormentato, iniziato con uno sciopero protrattosi per 27 giorni, le 47 scuole cristiane operanti in Israele si trovano ad affrontare una emergenza finanziaria dagli effetti potenzialmente devastanti, perchè il Ministero dell'istruzione non ha mantenuto finora l'impegno di trasferire agli istituti scolastici ispirati dalle locali comunità cristiane il contributo dovuto, ammontante a 50 milioni di Shekel. La preoccupazione per la difficile congiuntura creatasi è espressa in un documento-appello diffuso dall'Ufficio delle scuole cristiane, dove si delineano i passaggi chiave e gli aspetti controversi di una vicenda che sta mettendo in ansia decine di migliaia di docenti, operatori scolastici, studenti e famiglie in tutto il Paese.
Durante la mobilitazione d'inizio anno, gli alunni delle scuole cristiane, insieme ai propri genitori e ai propri insegnanti, avevano organizzato anche manifestazioni di piazza per denunciare il taglio massiccio del 45% dei contributi statali, imposto negli ultimi sei anni da parte del governo d'Israele, all'origine dell'emergenza finanziaria. A fine settembre, alcune proposte per uscire dall'impasse erano state presentate dal ministero israeliano per l'educazione all'Ufficio delle scuole cristiane, che le aveva accolte (vedi Fides 29 /9/2015). L'accordo prevedeva l'attribuzione alle scuole cristiane di un primo contributo di 50 milioni di shekel – pari a quasi 11 milioni e 350mila euro – che doveva essere versato entro il 31 marzo scorso, a compensazione dei tagli disposti negli anni precedenti. per il primo trimestre dell'anno accademico 2015-2016. Poi si sarebbe dovuto creare un nuovo organismo negoziale, incaricato di affrontare e risolvere questioni in sospeso.
A più di 50 giorni dalla scadenza annunciata – si legge nel documento diffuso adesso dall'Ufficio delle scuole cristiane, pervenuto all'Agenzia Fides – la tranche di risorse promessa non è ancora stata versata. La commissione speciale dei negoziati, guidata dal funzionario Shimshon Shoshani, si è riunita tre volte, limitandosi a riproporre la richiesta – già respinta in precedenza – che le scuole cristiane accettino di essere inglobate in tutto e per tutto al sistema scolastico pubblico, sottoposto alla direzione del Ministero dell'educazione, con l'unica garanzia di poter conservare tre ore settimanali per classe dedicate a "rafforzare e preservare l'identità cristiana e il peculiare stile di vita delle scuole cristiane ".
“E' chiaro – si legge nel comunicato, firmato da padre Abdel Masih Fahim, Segretario generale dell'Ufficio - che queste raccomandazioni non risolvono la crisi finanziaria causata dalle politiche del Ministero dell'educazione negli ultimi anni. E deploriamo che il Ministero stia cercando ancora una volta di costringere le nostre istituzioni ad aderire al sistema pubblico”. Davanti al collasso finanziario che le minaccia, le scuole cristiane, attraverso il loro Ufficio di coordinamento, chiedono che il governo israeliano onori al più presto i suoi impegni, che sia fissata una quota annuale fissa di contributo statale, oppure, in alternativa, che sia predisposto un nuovo status giuridico per le scuole cristiane in Israele, che consenta loro maggiore libertà di movimento nella ricerca di fondi destinati a compensare i tagli drastici del contributo statale.
Le 47 scuole cristiane d'israele sono frequentate da 33mila studenti cristiani, musulmani, drusi e ebrei. (Agenzia Fides 25/5/2016).