2014 05 21 PAKISTAN - Ragazzina cristiana di 11 anni è stata rapita e stuprata. ISRAELE - Un campo di detenzione nel deserto del Negev. Pieno di cristiani. GIORDANIA - TERRA SANTA - SUDAN - CONTINUA LA PREGHIERA PER MERIAM
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PAKISTAN - Ragazzina cristiana di 11 anni è stata rapita e stuprata da diversi uomini per tre giorni
Come riportato dal Pakistan Christian Post, la giovane Maria Sarfraz di Sheikhupura (Punjab) è stata sequestrata mentre andava a scuola e portata in un’altra città. Dopo che il padre di Maria, Andrew Sarfraz , ha denunciato il rapimento alla polizia la giovane è stata ritrovata lo scorso 28 aprile.
Secondo la perizia medica, Maria «è stata stuprata ininterrottamente per tre giorni». La polizia è riuscita ad arrestare due persone per rapimento e violenze sessuali: i musulmani Muhammad Safdar e Muhammad Mehboob. Gli amici dei due uomini hanno chiesto alla famiglia di ritirare la denuncia. Davanti al rifiuto della famiglia, hanno minacciato i genitori di bruciare la loro casa e anche quelle dei cristiani del loro quartiere.
Secondo un recente rapporto del Movimento per la solidarietà e la pace del Pakistan, ogni anno nel paese vengono rapite almeno 700 donne cristiane e 300 indù, convertite a forza all’islam e costrette a sposare un musulmano. L’incapacità, e spesso la mancanza di volontà, di affrontare questo problema da parte delle forze di polizia e del sistema giudiziario fa sì che casi come quello di Maria si verifichino in continuazione. (LNBQ maggio 13, 2014 Leone Grotti)
ALLA VIGILIA DEL VIAGGIO DEL PAPA IN TERRASANTA:
Mentre in Italia accogliamo, con tanti problemi, Israele…
ISRAELE - Un campo di detenzione nel deserto del Negev. Pieno di cristiani
Nel deserto del Negev c’è un centro di detenzione con più di duemila detenuti, in gran parte di fede cristiana. E’ il centro di Holot, dove vengono rinchiusi gli eritrei e i sudanesi che giungono in Israele dopo esser fuggiti dai rispettivi Paesi d’origine. Lo scorso 15 maggio una delegazione di 13 componenti della Pastorale per i Migranti del Patriarcato latino di Gerusalemme, guidata dal Vicario patriarcale p. David Neuhaus, si è recata in visita al centro per raccogliere testimonianze e informazioni sulle condizioni di vita dei detenuti. Solo a due membri della delegazione è stato consentito di accedere alle strutture di detenzione. Ma il resoconto della visita, riportato dai media ufficiali del Patriarcato latino e pervenuto all’Agenzia Fides, riesce comunque a trasmettere un’immagine eloquente delle giornate vissute nel campo dai detenuti.
Al momento, la struttura ospita 2300 uomini. Ma sono in corso lavori per aumentare la ricettività del centro. I detenuti vengono contati 3 volte al giorno e la libertà di movimento concessa loro durante il giorno rimane del tutto teorica, visto che il centro si trova nel deserto, lontano da centri abitati, e i detenuti non possono usare mezzi di trasporto per muoversi. I reclusi dormono in stanze con dieci posti letto. La stragrande maggioranza di loro appartiene alla Chiesa copta ortodossa eritrea, e tra loro operano tre sacerdoti. Il caldo soffocante, il vuoto delle giornate, le carenze dal punto di vista alimentare e sanitario confermano l’impressione di trovarsi in un campo di prigionia. “Perché siamo qui? Quale crimine abbiamo commesso? Quando ci rilasceranno?” sono le domande più frequenti raccolte tra i detenuti dalla delegazione del Patriarcato latino. La gran parte di loro teme il rimpatrio forzato in Eritrea o Sudan, che porrebbe a rischio la vita di molti. Per rendere meno penosa la vita nel campo, chiedono un miglioramento dell’assistenza sanitaria e l’invio di libri e insegnanti per riempire le giornate vuote.
GIORDANIA- I parenti dell’Arcivescovo martire Rahho scrivono al Papa alla vigilia del suo pellegrinaggio in Terra Santa
« Santità, le vostre lacrime sulla memoria dei martiri cristiani, di cui Lei ha parlato qualche giorno fa nella messa mattutina a Santa Marta, ci danno come figli della Chiesa cattolica anche la forza di sopportare le difficoltà e andare verso gli altri con fede e amore per tutti. Come ha detto il Signore, amate i vostri nemici ». Così scrive da Amman il dottor Ghazi Ibrahim Rahho in una lettera inviata a Papa Francesco a nome della famiglia di Sua Ecc. Boulos Faraj Rahho, l’Arcivescovo caldeo di Mosul rapito e ucciso nel 2008 dopo 12 giorni di sevizie.
Nella lettera, pervenuta al’Agenzia Fides, i parenti dell’Arcivescovo iracheno si rivolgono al Papa in vista della sua imminente visita in Giordania, ringraziandolo per le sue illuminanti parole che esprimono lo sguardo proprio della fede cristiana sulle vicende di martirio e persecuzione: «L’Arcivescovo Rahho» si legge nella missiva « ha dato testimonianza delle parole del Signore, nonostante le sofferenze subite». I parenti dell’Arcivescovo raccontano di aver dovuto lasciare l’Iraq dopo il suo assassinio, trovando rifugio in Giordania, che viene definita come «il Paese della convivenza tra cristiani e musulmani». Esprimono anche l’auspicio che l’Arcivescovo Rahho venga un giorno annoverato «tra i Santi martiri per la Parola di Dio». «Malgrado il nostro esodo dall’Iraq» sottolinea il dottor Ghazi Rahho a nome dei suoi parenti «noi rimarremo comunque in Oriente, che è la nostra Patria. Rimarremo qui nonostante i sacrifici e le realtà che ci opprimono, perché sentiamo che il Signore ci accompagna e vediamo che i santi si rallegrano quando sopportano tutto nel nome del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo». (Agenzia Fides 15/5/2014).
TERRA SANTA - Processione di Nostra Signora del Carmelo: preghiere e canti dopo gli attacchi ai cristiani
Si è svolta nel pomeriggio di domenica 11 maggio la tradizionale processione in onore di Nostra Signora del Monte Carmelo, popolarmente chiamata Taalat al-Adra, la Salita della Vergine. Lungo il percorso di due chilometri e mezzo, che si snoda dalla parrocchia latina di Haifa fino al monastero carmelitano Stella Maris, preceduti da squadre di scout provenienti da tutto il Paese, fedeli di tutti i riti hanno camminato recitando preghiere e cantando inni alla Madonna, seguendo il Patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal. Ma quest’anno, l’atto pubblico di devozione alla Vergine Maria ha una connotazione particolare, a causa delle minacce e degli attacchi a chiese e figure cristiane che in queste ultime settimane si sono intensificati anche in Galilea.
“Alla fine di aprile - ricorda all’Agenzia Fides il carmelitano p. Mikhael Abdo Abdo, OCD, Direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie in Terra Santa e organizzatore della processione – ci sono stati atti di vandalismo e intimidazioni contro i cristiani. Il Vescovo Giacinto Boulos Marcuzzo ha ricevuto una lettera minatoria firmata da un rabbino della regione, in cui ai cristiani, definiti ‘idolatri’ e ‘stranieri’ veniva intimato di lasciare il Paese entro i primi giorni di maggio, minacciando stragi e violenze”.
Gli attacchi di fine aprile si inquadrano nella campagna intimidatoria contro cristiani e musulmani in atto dal febbraio 2012 ad opera di frange oltranziste del movimento dei Coloni ebrei. “Tra l’altro - fa notare padre Abdo - nella lettera il rabbino specificava che i protestanti e gli anglicani possono rimanere. Segno che c’è una strategia per dividere tra loro i cristiani e, più in generale, gli arabi. E’ la stessa strategia che si ritrova nelle pressioni operate da ambienti politici per estendere il servizio militare obbligatorio ai cristiani arabi presenti in Israele”.
La “salita della Vergine” è un gesto di devozione popolare che ha profonde radici nel vissuto dei cristiani di Terra Santa. “Ai tempi della Prima Guerra mondiale - spiega a Fides p. Abdo - i turchi avevano dato ai padri carmelitani tre ore di tempo per lasciare il monastero sul Monte Carmelo. Loro erano andati via portando con sè solo qualche documento d’archivio e la statua della Madonna. Dopo la guerra, nel 1919, ci fu la prima processione per riportare la statua della Vergine al monastero, che fu vissuta anche come atto di ringraziamento. Negli ultimi anni alla processione erano presenti più di 20mila persone, compresi ebrei e musulmani. In passato la moltitudine dei devoti era anche più numerosa, ma ora i blocchi e i limiti messi alla libertà di movimento rendono impossibile la parte cipazione di quelli che venivano dal Libano e dai territori palestinesi”. (Agenzia Fides 9/5/2014).
CONTINUA LA PREGHIERA PER MERIAM
Ricordiamo brevemente il fatto
Un giudice sudanese ha condannato a morte una giovane madre cristiana, ritenendola colpevole di apostasia. La sentenza è stata emessa il 5 maggio. La donna, tra l’altro, ha già passato diverso tempo in carcere. È stata arrestata nell’agosto dello scorso anno e incriminata per apostasia rispetto all’Islam lo scorso febbraio. Dopo la sentenza, l’11 maggio, il giudice le aveva offerto la salvezza in cambio della conversione all’Islam. Tre giorni per pensarci. Ma il 14 maggio, di nuovo davanti al magistrato, Meriam ha rifiutato di rinnegare la fede in Cristo. Meriam Yeilah Ibrahim, 27 anni, laureata in medicina, è incinta all’ottavo mese e ha con sé in carcere il figlio di 20 mesi. Il giudice del tribunale di Khartum la ritiene musulmana di nascita, come tutti i sudanesi, e secondo Amnesty International l’ha condannata anche per adulterio perché il suo matrimonio con un uomo cristiano non è considerato valido dalla ‘sharia’. Il giudice le aveva chiesto di rinunciare alla fede per evitare la pena di morte: “Ti abbiamo dato tre giorni di tempo per rinunciare, ma insisti nel non voler ritornare all’islam. Ti condanno a morte per impiccagione”, ha detto il giudice Abbas Mohammed Al-Khalifa rivolgendosi alla donna con il suo nome musulmano, Adraf Al-Hadi Mohammed Abdullah.
Un bimbo che cresce nel suo grembo, un altro accanto a lei. Intorno le mura fredde di una cella e la paura che una condanna ripugnante le tolga la vita e con essa la gioia di vedere i suoi figli crescere. Il mondo si è abituato, suo malgrado, a conoscere il nome di Asia Bibi, che i figli da anni li può vedere solo attraverso le sbarre. “Blasfema”, è l’accusa contro quella coraggiosa donna cristiana del Pakistan. Ora, purtroppo, il mondo ha conosciuto anche il nome di Meriam. Una donna del Sudan la cui unica colpa è essere cristiana. L’hanno definita apostata, adultera. E per questo l’hanno condannata a morte e, come se non bastasse, a cento frustate prima del boia.
Sarebbe stato facile per lei “convertirsi” all’islam, come le è stato chiesto dai suoi aguzzini e salvare la propria vita. Ma ha scelto Cristo, come aveva fatto sua madre, un’etiope cristiana ortodossa. Nella cella, fa sapere il marito minacciato di morte, come minacciato è l’avvocato della famiglia, Meriam prega e si prende cura dei suoi figli. Di quello che sente crescere sotto il suo cuore e per il quale non è stata concessa neppure una visita medica. E del primogenito che ha solo 20 mesi ed è costretto a passare i giorni felici dell’infanzia in una prigione, al buio, tra gli insetti.