Pieper, J. – “Filosofia contemplazione saggezza”
LAS, Roma, 2016, 70 pp.Pieper ci dice che la sfida consiste nel trasformare la nostra quotidianità in vita contemplativa, ovvero, in ricerca costante ed ardente della Grande Presenza.

Per chi ha voglia di investire sei euro in una buona lettura (può essere un’ottima occasione per allenare il coraggio, in un mondo tablettizzato e rincretelevisionato) consiglio un piccolo volumetto dal titolo: “Filosofia contemplazione saggezza” (LAS, Roma, 2016, 70 pp.). L’autore è il celebre Josef Pieper, filosofo cattolico poco amato dal grande pubblico, ma ben apprezzato da personaggi a dir poco interessanti quali Benedetto XVI, ad esempio, che di lui disse: “Gli scritti di Josef Pieper sulle virtù cardinali sono stati una delle mie prime letture filosofiche […]. Hanno risvegliato in me il piacere per il pensiero filosofico, la gioia per la ricerca razionale delle risposte alle grandi domande della nostra vita. Mi hanno anche insegnato che i grandi pensatori del tempo passato, con la loro lotta per la verità, sono assolutamente attuali e che la filosofia non invecchia se è rettamente e umilmente sulla via della verità. Da allora in poi non mi sono più perso nessun libro di Pieper e dalla loro lettura ho tratto profitto e ristoro” (cfr. Cristianità, n. 354, 2009).
Il testo che recensiamo raccoglie cinque saggi brevi scritti in momenti diversi della vita dell’autore. Tutti sono accomunati da un fil rouge, come scrive il curatore Mario Tamburini che li dedica alla memoria di don Francesco Ventorino (in arte: don Ciccio), ovvero “dall’attività del «vedere», dal «guardare»” (p. 65). Nel solco della tradizione aristotelico-tomista, ma con interessanti accenti ai migliori insegnamenti platonici, Josef Pieper propone una filosofia strettamente ancorata agli aspetti più importanti della vita umana, quali la felicità, la saggezza, l’amicizia, l’insegnamento e la contemplazione. Per lui il filosofo “non è tanto qualcuno che è riuscito con successo ad elaborate una visione del mondo ben sistematica. Egli è, piuttosto, qualcuno che è intento a mantenere desta una certa domanda, la domanda, cioè, del significato ultimo del reale nella sua totalità” (p. 41). L’uomo è interrogato dal mondo, che ne mette a nudo la sua incompletezza, ed a sua volta interroga la realtà per cercare il compimento di sé: “La filosofia scaturisce da una mancanza di cui non siamo padroni e che esige di essere saziata ben al di là del nostro volere” (p. 35). All’origine della conoscenza troviamo un desiderio di pienezza che coincide con la medesima spinta affettiva dell’Eros, di cui parla Platone: “nell’incontro erotico con la bellezza sensuale si risveglia una passione che non può essere placata nell’ambito di ciò che attiene ai sensi. Colui che è stato sconvolto da Eros intravede una promessa alla cui natura attiene di non potere essere mantenuta secondo la misura da lui stabilita” (p. 36). Risiede in questa tensione originaria alla conoscenza la necessità di distinguere, ma non di separare, la filosofia dalla teologia, che Pieper ripropone nell’adagio medievale secondo cui la prima è ancilla della seconda.
Da una prospettiva speculativa l’apporto di Pieper è davvero interessante perché testimonia la vitalità di una filosofia d’impostazione tomista che esalta gli accenti esistenziali (ma sarebbe meglio dire spirituali) del platonismo e, lungo questa linea, di sant’Agostino sino al Cardinal Newman. Una filosofia tutt'altro che antiquata, bensì al servizio dell’uomo contemporaneo, in grado di svelarne gli aspetti salienti, coniugando in un sapere organizzato psicologia e spiritualità, morale ed ontologia, natura e sovra-natura.
A tal proposito vorrei soffermarmi sul primo dei saggi presenti nel volume che ha per oggetto il tema umano per eccellenza: la contemplazione. Non una novità, specialmente in ambito tomista, poiché sin dal medioevo gli uomini si sono interrogati sul rapporto tra la vita attiva e la vita contemplativa. Lo stesso Pieper ne aveva trattato in un testo sistematico, dal titolo “Felicità e contemplazione”. Ma di sicuro un tema d’attualità per il nostro mondo secolarizzato: parlare di contemplazione significa, infatti, parlare dell’incontro con Dio e, quindi, della felicità. Se Dio è veramente ciò che completa l’uomo, è il termine ultimo dei suoi desideri, allora incontrarLo significa potenzialmente riempirsi di quella pienezza che oggi chiamiamo felicità e che Tommaso d’Aquino aveva denominato “beatitudine”. Per l’uomo il problema dei problemi, dunque, è l’incontro con Dio. Non è un caso, mi pare, che il centro degli insegnamenti degli ultimi pontefici - nonché di don Giussani - si focalizzi proprio sul tema “dell’incontro”. Come conoscere il Signore? Il cristianesimo è l’unica religione che sostiene che è Dio stesso ad incontrare l’uomo, sul terreno suo proprio, la vita umana. Lo fa attraverso l’Incarnazione: “Proprio perché, dunque, Dio non è fuori del mondo, Egli può realmente porsi davanti allo sguardo di chi si volge alla profondità delle cose” (p. 12). L’uomo che cerca Dio, che è animato dal desiderio di conoscerLo può fare l’esperienza del “vederLo”: “Quando la nostra forza di assenso, ovvero il nostro amore, si orienta verso l’infinita, divina pacificazione che fluisce attraverso tutto il reale sin dalla sua origine, e quando l’oggetto amato si mostra allo sguardo dell’anima in modo totalmente immediato, lasciandosi vedere con assoluta tranquillità, si tratti pure per la breve durata di un attimo, allora e solo allora accade, in senso illimitato, la contemplazione” (p. 12). Pieper aggiunge una precisazione importante: “L’atto di vedere, naturalmente, rende felici e diviene fonte di beatitudine solo attraverso l’amore”. Il desiderio sincero e spassionato di Lui è premessa umana alla contemplazione.
Ma, allora, si potrebbe obiettare, solo il contemplativista - che prega tutto il giorno - può accedere alla “Bevanda beatificante della visione” (p. 11), mentre l’uomo impegnato nella vita attiva ne è precluso? Niente di tutto questo: “tale consapevolezza beata della divina pacificazione può divampare a contatto con ogni aspetto del reale, persino alla minima occasione. La contemplazione non è affatto legata al presupposto del chiostro o della cella monacale. Quanto vi è decisivo in essa si può realizzare persino senza che se ne conosca il nome” (p. 13). In altre parole: è nell’esperienza quotidiana che, l’uomo ardente di desiderio per Dio, può scorgere il Suo diretto manifestarsi. Che si trovi in un monastero o in mezzo ai colleghi di lavoro. Mi pare questo un passaggio di estrema importanza, su cui solo pochi altri pensatori, quasi tutti di formazione tomista - come Giussani - hanno posto sufficiente chiarezza. “Abbiamo bisogno di essere espressamente rassicurati del fatto che, a molte esperienze quotidiane, possa essere attribuita tutta la lode da sempre giustamente conferita alla contemplazione. Nel fare ciò, abbiamo bisogno di essere confermati e corroborati dalla certezza che siamo nel giusto allorché comprendiamo ed accogliamo tali esperienze per quello che esse in realtà sono, ovvero presentimento ed inizio della gioia piena che ci rende felici” (p. 13).
Rivolgendo l’attenzione alle “certezze non pensate ma viste” l’uomo può cogliere il “nascondimento di Dio in tutto l’essere” (p. 14). E’ questo il motivo per cui ogni cosa bella, come la natura e la musica, è richiamo diretto di Dio: “L’indispensabilità delle arti belle, la loro necessità vitale per l’uomo consistono soprattutto nel fatto che, attraverso di esse, si fa memoria, attuandola, della contemplazione del creato” (p. 15). Pieper, a sorpresa, cita un noto romanziere inglese, anch’egli profondo appassionato della filosofia tomista: “Con uno sguardo retrospettivo sulla sua esistenza, l’ultimo Chesterton afferma di avere sempre avuto «la convinzione quasi mistica della meraviglia in tutto ciò che esiste e dell’incanto che dimora in ogni esperienza essenziale». Questa formalizzazione sincera esprime molte cose e, in particolare, che ogni realtà nasconde nel suo intimo un segno dell’origine divina. Chi la scorge vede come ciascuna cosa e tutte insieme siano buone oltre ogni nostra intelligenza, la nota ed è felice. In ciò consiste tutta la dottrina concernente la contemplazione della realtà terrena” (p. 17).
Nel leggere questo piccolo saggio del 1965, eccezionalmente attuale, si diviene consapevoli di come “la felicità umana abbia la stessa ampiezza della contemplazione” (p. 11). Pieper ci dice che la sfida consiste nel trasformare la nostra quotidianità in vita contemplativa, ovvero, in ricerca costante ed ardente della Grande Presenza.
Stefano Parenti