Marchesini, Roberto - La rivoluzione nell’arte
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L’amicizia è una compagnia al destino, diceva don Giussani. Mi sento molto grato dell’amicizia che in questi anni ho avuto modo di approfondire con Roberto Marchesini, collega psicoterapeuta e dotto appassionato della realtà, il quale più di una volta mi ha permesso di cogliere con chiarezza lembi di verità umana oscurati dal modo di pensare, implicito e sovente anticristiano, in cui ognuno di noi si trova immerso. Lo ha fatto con il suo eccezionale contributo alla psicologia dell’omosessualità (Come scegliere il proprio orientamento sessuale (o vivere felici), 2007; L’identità di genere, I quaderni del timone, 2007), con le sue riflessioni sulla virilità e la virtuosità umana (Quello che gli uomini non dicono, Sugarco, Milano 2011; E vissero felici e contenti, Sugarco, Milano 2015), con la ricoperta “cristiana” del valore e dei limiti della psicologia (Psicologia e cattolicesimo, D’Ettoris, Crotone 2009; La psicologia e san Tommaso d’Aquino, D’Ettoris, Crotone 2013; Aristotele, san Tommaso d’Aquino e la psicologia clinica, D’Ettoris, Crotone 2015). Ed ora, rivolgendosi all’arte, con il recente La rivoluzione nell’arte (D’Ettoris, Crotone 2016, pp. 160, 14,90 euro). Ciò che rende universale gli scritti di Marchesini, oltre ad una notevole dote di semplicità e di sintesi che ben lo distanziano dall’astrusità intellettuale di tanti psicologi, è il punto di partenza, sempre radicato in un’esperienza. Il suo saggio sull’arte si apre, infatti, con la testimonianza di un “senso di desolazione, di smarrimento, di sgomento, quella gamma di emozioni che si prova di fronte alla totale assenza di ordine, di significato, di ragioni, anzi: alla rinuncia volontaria di ordine, di significato e di ragione”. È l’esperienza che egli dichiara senza timore di provare “di fronte alla Montagna del sale di Mimmo Paladino, alle Superfici magnetiche di Boriani, alle tele squarciate di Fontana, alle sfere bronzee di Pomodoro, ai suoni di Stockhausen”. Una “sgradevolezza” che “non è stata lenita dall’arte sacra, anzi: la chiesa cubica di Fuksas, la nuova chiesa di san Giovanni Rotondo di Piano (con la croce di Pomodoro, ora rimossa), la chiesa di Tor Tre Teste, la videoinstallazione nella cripta del Duomo di Milano, le immagini del nuovo evangeliario ambrosiano, gli “adeguamenti liturgici” di alcune splendide chiese aggiungono allo sgomento – dice Marchesini – una sensazione di profanazione”. L’esperienza sembra dunque suggerire l’esistenza di una scissione tra la bellezza, da una parte, e l’opera d’arte contemporanea, dall’altra.
Marchesini decide allora di approfondire. Dapprima va alla ricerca dell’identità dell’arte, la “produzione di bellezza da parte di un essere umano”. Scopre così che per i classici “compito dell’arte è imitare la natura” come diceva Aristotele. Non la natura in senso ecologico, bensì il progetto insito dentro ogni forma vivente che trasforma le potenzialità in attuazione, ovvero che muove verso la piena realizzazione e compiutezza. “Dunque per il Filosofo è bello ciò che riflette la finalità (entelechia) presente nella natura; ed è brutto ciò che non si conforma a tale finalità”. Una finalità che indica un ordine, cioè una organizzazione. È per questo motivo che scrive che “le supreme forme del bello sono: l’ordine, la simmetria e il definito”. Questa concezione, espressa con lucidità da Aristotele, viene ripresa ed ampliata dagli autori cristiani, in particolare da San Tommaso d’Aquino: “Il bello – dice l’Aquinate – riguarda la facoltà conoscitiva: belle sono dette infatti quelle cose che, viste, destano piacere. Per cui il bello consiste nella debita proporzione: poiché i nostri sensi si dilettano nelle cose ben proporzionate come in qualcosa di simile ad essi”. In particolare, “Per la bellezza si richiedono tre doti. In primo luogo integrità e perfezione, poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi. Quindi [si richiede] debita proporzione o armonia [tra le parti]. Finalmente chiarezza o splendore: difatti diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti”. Questi due autori sono particolarmente interessanti poiché non intendono la bellezza come una pura reazione sentimentale - questa sarà la posizione di Baumgarten che, nel Settecento, coniò il termine “estetica” - bensì come “facoltà conoscitiva”, cioè introduzione alla realtà, alla scoperta della verità delle cose. Per Aristotele e San Tommaso la bellezza, infatti, è un attributo divino, godendone siamo richiamati a Lui. Scrive Marchesini: “La bellezza suscita nell’uomo il piacere perché l’uomo stesso partecipa della bellezza di Dio, ne è attratto, ne prova – per così dire – nostalgia”.
Se questa è l’identità dell’arte, bisogna allora capire che cosa sia avvenuto perché tale essenza non sia più la medesima delle opere contemporanee. Marchesini è chiaro: “C’è una forza, tuttavia, che si oppone a quest’ordine e a questa armonia divina: la Rivoluzione”. Essa è una resistenza, una opposizione, una lotta contro la struttura del creato. Si scaglia, dunque, contro la bellezza: “La Rivoluzione è quindi un processo che mira a distruggere la bellezza”. Con un’analisi sorprendente, che spazia dagli ambiti metafisici a quelli psicologici, dalla storia all’antropologia, Marchesini evidenzia una linea di pensiero che dall’antichità, quand’era ancora settoriale, attraverso la gnosi e il protestantesimo sino alle rivoluzioni “di popolo” del settecento (francese ed americana) e del novecento (comunismo e rivoluzione sessuale) ha modificato drasticamente il pensiero della nostra società divenendone l’espressione principale. La Rivoluzione è il correlativo oggettivo della resistenza dell’uomo all’ordine creato, cioè a Dio: “Le manifestazioni storiche della Rivoluzione non sono altro che epifenomeni di un livello più profondo: antropologico, psicologico, filosofico e metafisico”. Di conseguenza, anche l’arte ne ha profondamente risentito, modificandosi, divenendo espressione di un pensiero rivoluzionario invece che di una testimonianza della bellezza del creato. “A partire del XVI secolo, e via via in modo sempre più rapido e violento con il passare del tempo, l’Occidente è stato investito da una ondata di ribellione al pensiero che aveva contribuito alla costruzione dell’Occidente stesso (si tratta quindi di un fenomeno suicidario, autolesionista, auto-negazionista). Questo fenomeno (le cui origini sono antichissime) ha assunto vari nomi (Rivoluzione, Sovversione, Dissoluzione) nei lavori dei diversi autori che si sono cimentati nella sua descrizione”.
Il secondo capitolo colpisce per la ricchezza di citazioni e di fonti utilizzate. Non è l’ingegno di Marchesini a tracciare il percorso, bensì sono gli stessi personaggi da lui interrogati che dichiarano, a volte sorprendentemente, l’avversione per la realtà e la volontà di rivoltarsi contro. Ciò è ancora più evidente nel terzo capitolo, in cui l’autore passa in rassegna ogni singola arte (musica, pittura, architettura, scultura, letteratura, teatro, danza, fotografia e cinema) per capire come essa è coinvolta nel processo rivoluzionario. Se le prese di posizione del Marchese De Sade così come gli intenti del Dadaismo e del Futurismo non sorprendono più di tanto per il loro esplicito obiettivo sovversivo e dissacratore, stupisce scoprire i contorni di molti autori “studiatissimi”: il teosofismo di Kandinskj, il satanismo manifesto di Thomas Mann, l’opera di recisione delle radici religiose e metafisiche perseguito dal teatro d’avanguardia o dell’assurdo di Samuel Beckett. Cosa pensava il pluri-osannato Pablo Picasso dell’arte pittorica? “La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È lo strumento di una guerra offensiva e difensiva contro il nemico”. Considerando la sua convinta adesione al Partito Comunista possiamo di certo essere sicuri che il nemico a cui il pittore si riferisce non è il Diavolo, bensì Cristo. E cosa voleva suscitare Richard Wagner con la sua musica (diffusa sovente nei cartoni animati)? “Wagner si dichiara rivoluzionario e si prefigge di distruggere lo stato presente delle cose, frutto della religione cristiana colpevole di aver diffuso nel “sangue sano delle giovani nazioni germaniche” quello “ammalato del mondo romano”. Come non leggere, infine, l’intento anticipatorio della rivoluzione sessuale che, negli anni ’50 e ’60 i film di Hollywood iniziarono a favorire con pellicole – oggigiorno dei classici – che insistevano esasperatamente sulla prostituzione, l’adulterio, il sesso disimpegnato presentandoli “come divertenti, spensierati, persino eleganti”?
Ricostruendo le intenzioni psicologiche e le influenze culturale degli artisti, Marchesini giunge così a cogliere il senso dell’arte contemporanea: “Scuotere, porre delle domande, evidenziare le falle di una società. L’obiettivo comune dell’arte dell’Ottocento in avanti sembra quello di infrangere norme morali, civili e religiose; sconvolgere, urtare, sconcertare, disorientare, disgustare, colpire; dissacrare, deridere, banalizzare ogni valore; osare ciò che non è mai stato fatto, innovare ad ogni costo, fare ciò che nessuno ha mai pensato di fare. Questo obiettivo è identico a quello di un pensiero che accompagna la civiltà occidentale fin dai suoi albori: il pensiero rivoluzionario. Lo scopo del pensiero rivoluzionario è insito nel suo nome: produrre un movimento perpetuo, incessante, per il quale non esiste nulla di stabile, definito, identico a sé. Tutto ciò che nasce – questo è il grido di battaglia di ogni rivoluzionario – merita di perire. L’arte moderna e contemporanea è quindi parte e strumento del pensiero rivoluzionario, e ha come fine distruggere ogni concetto, ogni sicurezza, ogni valore della società occidentale. Solo perché queste cose esistano, meritano di perire”.
L’opera di Marchesini ha il merito di fare luce sugli intenti e sul contesto che hanno motivato un gran numero di artisti. È bene conoscere quanto più è possibile di tali intenzioni ed influenze per evitare stravaganti interpretazioni a cui le opere contemporanee, così gravide di allusioni e di astrattismo, prestano il fianco. In questo modo sarà anche possibile utilizzarle con intelligenza, specialmente in campo educativo e pedagogico, senza correre il rischio di assolutizzarne l’autore o di prendere “lucciole per lanterne”. In un mondo costruito sulle immagini e sul relativismo, ciò che può aiutare è l’approfondimento che permette di superare la superficie e di giungere in profondità, all’essenza delle questioni, cioè alla verità. Abbiamo bisogno di cogliere tutti gli aspetti del reale per capirlo al meglio, per coglierne le sfaccettature così di sovente apparentemente contraddittorie.