#Amato: «Le mie ragioni»
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Nell’incipit della sua comunicazione delle dimissioni dal Popolo della Famiglia Lei ha citato don Giussani. Può precisare meglio il senso di quella citazione?
Ho conosciuto Giussani quando avevo quindici anni, nell’ormai lontano 1976, e da quell’uomo ho imparato molte cose. Tra queste anche l’importanza di quello che lui chiamava realismo, ossia l’urgenza di non privilegiare uno schema che si abbia già in mente rispetto all’osservazione intera, appassionata, insistente dei fatti, della realtà. Il realismo esige che per osservare una situazione in modo da poterla analizzare seriamente e conoscerla fino in fondo, il metodo di lettura della realtà non sia immaginato, pensato, elaborato o creato dall’osservatore, ma imposto dal dato oggettivo.
La realtà, quindi, è data da un Altro.
Questa evidenza fa parte della stessa struttura dell’essere umano.
Diceva, infatti, don Giussani che l’uomo afferma veramente se stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l’uomo comincia ad affermare se stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé.
Qual è l’atteggiamento che secondo Lei permette una lettura non ideologica della realtà?
La libertà. Essere liberi è l’unica condizione che consente di guardare la realtà nella totalità dei suoi fattori. Io ho avuto dalla Provvidenza questa grazia ed ho quindi potuto giudicare i dati oggettivi che la realtà mi ha posto dinnanzi senza essere prigioniero di schemi mentali, di progetti personali, di sogni utopistici, di piccole logiche di potere. Ho scoperto anche in amici insospettabili che la politica – come molte altre cose nella vita – può diventare un idolo. E se tu ti innamori del tuo progetto, del ruolo che hai acquisito, del sogno che insegui, allora non sei più in grado di leggere la realtà in modo oggettivo. Molto spesso mi sono trovato a rivolgere a molti militanti e dirigenti del Popolo della Famiglia questa domanda: «Ma a te interessa il movimento di cui fai parte, o la parte che hai nel movimento?».
Perché, secondo Lei, il Popolo della Famiglia non può più considerarsi un’operazione realistica?
Che il Popolo della Famiglia non si possa considerare un’operazione realistica non è una mia opinione. È un fatto. E come diceva Michail Bulgakov «nulla è più ostinato di un fatto».
Il risultato elettorale del 4 marzo 2018 sta a dimostrare in tutta la sua evidenza che il progetto politico del Popolo della Famiglia non ha raggiunto il suo obiettivo. Non solo ha fallito l’obiettivo per cui era nato, ossia quello di superare la soglia di sbarramento del 3%, ma non ha neppure superato la soglia psicologica dello “zerovirgola”. Le successive elezioni amministrative del 10 e del 25 giugno hanno confermato il dato.
A questo punto si impone l’obbligo morale di una riflessione seria sull’opportunità di proseguire nella logica utopistica del sogno. E lo si deve fare, innanzitutto, per rispetto di tutte quelle migliaia di persone che hanno creduto nel progetto e che io ho visto all’opera: gente che ha preso le ferie per la campagna elettorale, che ha speso la propria faccia e i propri soldi, che ha investito la propria credibilità personale, che ha fatto sacrifici, che ha sottratto tempo alla famiglia. Proprio per rispetto di questo popolo non si può non prendere atto della realtà. Come si fa, per esempio, a mobilitare ancora quelle persone per un’operazione impossibile qual è la partecipazione alle elezioni europee? In questo caso la legge prevede una soglia di sbarramento del 4%, solo cinque circoscrizioni sconfinate con una media di 800.000 elettori per circoscrizione, un sistema proporzionale puro che non consente apparentamenti con nessuna coalizione, costi preventivati per la campagna elettorale di un candidato attorno ai 150.000 euro, ed una raccolta delle firme oggettivamente impossibile. Ora, in queste circostanze chi può onestamente invitare le persone a prendere le ferie, a spendere la propria faccia e i propri soldi, a fare sacrifici, a sottrarre tempo alla famiglia nella falsa illusione che sia possibile superare tutti gli ostacoli sopra illustrati a cominciare dal superamento della soglia del 4%?
Non si può giocare con la generosità delle persone. Almeno, io non riesco e non posso.
Però ci sono state duecentoventimila persone che hanno creduto e votato il Popolo della Famiglia.
Sì, è vero, ed io ringrazio una per una tutte quelle persone.
Il fatto è, però, che la stragrande maggioranza di quei votanti non ci sono più.
Quella è gente che ha creduto in un progetto e che era convinta si potesse superare il 3%. Convinzione avvalorata anche da sondaggi diffusi prima del voto che davano il Popolo della Famiglia attorno all’1,5% e al 2%. Moltissimi di questi elettori io li ho sentiti dopo il responso delle urne e mi hanno fatto chiaramente capire – con il realismo dell’uomo della strada – che non avrebbero più “sprecato” il loro voto per un’opzione dello “zerovirgola”.
Chi non tiene conto di questo fatto oggettivo vive fuori dalla realtà.
Quali sono gli aspetti positivi – se ci sono – che Lei riconosce all’esperienza del Popolo della Famiglia, indipendentemente dal mancato raggiungimento dell’obiettivo?
Sono sostanzialmente quattro gli aspetti positivi che io intravedo in questa esperienza.
Il primo è quello di aver dato ai cittadini del nostro Paese l’occasione storica di poter votare un partito identitario e valoriale ispirato alla dottrina sociale della Chiesa in difesa dei principi non negoziabili (vita, famiglia, educazione).
Il secondo è quello di aver avuto il merito, altrettanto storico, di certificare che l’ipotesi di un simile partito non risponde all’esigenza del popolo italiano.
Il terzo è quello di aver creato una rete di amicizie e di talenti che può essere ancora valorizzata in altri progetti.
Il quarto è quello di aver contribuito, durante la campagna elettorale, ad accendere i riflettori sui temi legati ai principi non negoziabili, a cominciare dalla famiglia.
Si parla molto in questi tempi del popolarismo di don Sturzo come modello da replicare, Lei cosa ne pensa.
Mi considero, molto modestamente, uno sturziano nel profondo dell’anima.
Io, tra l’altro, il sacerdote calatino l’ho letto e studiato davvero. Nella mia libreria ho persino una copia originale del programma politico del Partito Popolare del 1919.
Proprio perché mi considero un autentico sturziano, non cedo alle suggestioni di pericolosi parallelismi storici. Don Sturzo ha operato nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale alla fine degli anni Cinquanta, in un contesto sociale, culturale e politico che non ha nulla a che vedere con la realtà odierna. Ai suoi tempi esisteva un popolo che era al novanta per cento cattolico e una Chiesa che era la Chiesa di Benedetto XV e di Pio XII. Quel mondo, purtroppo, non c’è più, e oggi occorre fare i conti con un popolo italiano scristianizzato al novanta per cento e una Chiesa diversa. Tentare di replicare la ricetta di cento anni fa significa vivere fuori dalla realtà, e cadere, ancora una volta, nell’inganno dell’illusione utopistica.
Cosa ne sarà di quel popolo che ha creduto nel progetto politico e che oggi si vede costretto a prendere atto della sua irrealizzabilità?
Io credo che Dio sappia scrivere dritto su righe storte, che nulla accada per caso, e che tutto risponda ad un progetto ben più grande della nostra umana capacità previsionale.
Oggi occorre ricostruire un popolo. Insieme ad altri amici stiamo lavorando ad un progetto che sia capace di incidere a livello sociale, culturale, economico e politico.
Lavorare a questo progetto, con lo spirito di comunione, di amicizia, di umiltà e senza le velenose logiche di potere, è già oggi un’avventura affascinante.
Sarà un progetto aperto a tutti coloro che in questi anni ho incontrato e che insieme a me hanno condiviso la coraggiosa battaglia per la Verità. Sono certo che attraverso questo nuovo strumento nessuno di coloro che hanno messo il cuore nell’esperienza del Popolo della Famiglia si sentirà escluso.