Coco e i miei ricordi
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È il 31 di ottobre e, all'aeroporto di Malpensa, non puoi fare a meno di pensare ad Halloween, una festa importata dall'Occidente protestante ma le cui radici cattoliche si sono perse lungo i secoli e le diatribe della Riforma. Gli occhi inciampano continuamente in zucche vuote, teschi, cappelli neri a punta: uno scenario inquietante del quale non si capisce bene il senso. Nell'abitacolo dell'aereo provo un sospiro di sollievo. Nonostante le 13 ore di volo che ci attendono, la lineare nettezza del design di bordo è quasi confortante. Tra sorrisi di Hostess, lo scalo e un’improbabile alternanza tra giorno e notte, arriviamo, lo stesso 31 ottobre, a Ciudad de Mexico. È la prima volta che visitiamo il Santuario di Guadalupe e la trepidazione è molta. Finalmente, in compagnia di alcune nostre sorelle messicane, il 1 di Novembre varchiamo la porta del Santuario. Ho un moto di stizza e quasi d’incredulità nel vedere gli altari laterali della Guadalupe pieni zeppi di teschi, dolci di marzapane a forma d’osso di morti e filari di fiori variopinti. Oh no! Mi scappa detto: anche qui! Anche qui il flagello mortifero dello scherzetto dolcetto! Le mie sorelle messicane notano il disappunto. «Que pasa Hermana?» Mi chiedono con la loro consueta sollecitudine fraterna. «Nada» dico distrattamente, poi capisco che non la bevono e comincio a spiegare loro pazientemente che noi non amiamo Halloween e mal sopportiamo le feste oratoriane organizzate da alcuni parroci per non perdere i giovani che s'infilerebbero in esperienze Halloweeniane della peggior specie. Vedo i loro grandi occhi neri riempirsi di stupore e poi mi sento dire: «Ahi no, hermana, no se trata de Halloween, todo esto es para el día de los muertos. Sonos ofrendas!»
Non ricordavo più questa esperienza del lontano novembre del 2012 fino a ieri, quando mi è stato proposto di vedere Coco, l'ultima fatica della Pixar. Mi siedo davanti allo schermo senza particolare interesse, ma giusto per spirito di condivisione. Già alle prime battute del piccolo Miguel mi sento catapultata immediatamente entre el día de los muertos e tutta la profondità cristiana che vi soggiace.
Senza questa cultura che, pur collegandosi a usi ancestrali comuni a tutte le culture riguardo al culto dei morti, vuole celebrare la profonda comunione dei santi che lega la Chiesa militante con quella purgante, poco o nulla si capisce del film. Per il Messico non c’è occultismo o spiritismo o halloweenismo, appunto nella fiesta de los muertos, bensì la necessità di ricordare di esser parte di una discendenza. Anche laddove si volessero, come accade nel film, conculcare capacità e/o attitudini, a causa di esperienze negative tramandate nei secoli, queste non si spegneranno mai, riemergeranno qua e là nell’inconscio di qualche pronipote, esattamente come accade nel film al protagonista Miguel.
La trama è presto delineata. Miguel (che non è il primogenito e nemmeno l’ultimogenito, perché la mamma aspetta una bambina) nasce entro una numerosa famiglia la cui tradizione è fare le scarpe. Contrariamente alla cultura messicana i suoi famigliari nutrono un'avversione per la musica a motivo di un trisnonno che per il canto e la chitarra abbandonò il tetto coniugale. Proprio a ridosso del giorno dei morti, in cui si espongono le fotografie dei propri defunti, dolci a forma di teschio e collane di fiori variopinte, Miguel scopre chi fosse il suo antico trisavolo e la possibilità di esibirsi a sua volta con la chitarra, che aveva imparato a suonare di nascosto spinto da irresistibile impulso. Unica persona a conoscenza di questa sua passione è la bisnonna, Coco, figlia di quel musicista fuggiasco, la quale però, ormai anziana, vive su una sedia a rotelle e sembra affetta da Alzheimer.
Il desiderio di esibirsi suonando in pubblico si scopre proprio nel giorno dei morti e scoppia la tragedia: Miguel fugge da casa e vive un'esperienza sensibile con quei morti di cui ha sempre solo visto la fotografia. Tuttavia grazie al loro aiuto, Miguel comprende il valore dell’essere famiglia, la giustezza delle raccomandazioni ricevute e, nel contempo, diventa strumento a che tutto il clan famigliare si riconcili con quell'antico parente e con la musica stessa.
Nel clima attuale dove si vuole un figlio per il figlio, e non importa più come o da chi, in una società dove realtà come la famiglia, i lavori tramandati, le antiche usanze trasmesse di padre in figlio, non hanno alcun valore, la storia di Coco, bisnonna di Miguel suona anacronistica e démodé. Impressiona la valenza che può avere per un bambino conoscere la propria bisnonna. Sposarsi a quindici anni, come ancora avviene in America Latina, reca con sé il grande vantaggio di essere nonna a quaranta e di avere una bisnonna in casa che potrebbe tranquillamente avere 55/56 anni. Questo conferisce a Miguel una dimensione di appartenenza unica e rassicurante contro tutte le tentazioni di un mondo sradicato (come quello della musica). Ma non solo. La trama del film indaga entro la grande valenza della memoria, di essere parte di un albero genealogico che se da un lato è fonte di grazia, dall'altro chiede di essere redento. La comunione dei Santi, che la Chiesa ha sempre professato, è una verità grande, rende l'uomo certo di un'appartenenza che non viene meno neppure con la morte. Nel giorno dei morti si festeggiava, anche qui in occidente, non semplicemente il ricordo dei defunti, ma la memoria de Santi della famiglia, i quali, pur non essendo citati dal calendario, trasmisero la fede e i principi cristiani per i quali vissero e morirono. D'altro canto, esistevano, ed esistono, in ogni famiglia parenti che sono morti senza quella grazia di Dio necessaria per accedere alla visione beatifica, essi hanno bisogno di noi, delle nostre ofrendas, e quindi della nostra memoria per giungere alla desiderata purificazione. Anche questo è uno dei messaggi del film.
Così, sul finale, quando Miguel si mostra disposto a perdere tutto, anche la sua passione per la musica e la chitarra, in vista del bene più grande che è la famiglia ecco che recupera tutto, talento musicale e affetto dei familiari. Mi asciugo qualche inevitabile lacrima di commozione alla fine del film e ancora mi assale il ricordo dell’antica visita alla Guadalupe. Il Santuario era poco affollato in quel mezzogiorno e stavamo aspettando l'inizio della celebrazione eucaristica. Ad un certo punto entra un anziano, sembrava un peon in abiti occidentali, pantaloni grigi e camicia bianca, magro con il viso scavato e cotto dal sole. Punta verso di me agitando una borsa di plastica. Frugo nella memoria nel tentativo di ritrovare quel volto fra i ricordi. No, non lo conosco, eppure si rivolge proprio a me. Scopro che è malato di cancro, come il fratello. Sono gli unici rimasti della famiglia, perché la mamma, zelatrice del santuario, è morta da tempo. Apre il suo sacchetto e mi mostra dei libri di preghiera antichi, sono il suo tesoro, sono la memoria della Madre e non vuole finiscano in mano a chicchessia. Quella mattina la Virgencita gli aveva detto che avrebbe trovato una suora al Santuario e che a lei avrebbe dovuto consegnare quei libri così densi di preghiera e di memoria. Sto piangendo, mi pare di sentire la Guadalupe alle spalle. Il film della Pixar mi ha fatto ricordare che anche io, alla viglia del día de los muertos ho ricevuto una consegna, una sorta di fotografia spirituale: libri di preghiera per non dimenticare.