In memoriam: Lucia Lari, la febbre di vita di un popolo cristiano
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Negli scorsi giorni è mancata una giovane donna, una sposa, una giovane madre. Si chiamava Lucia. Un’intera città è rimasta sconvolta dal lutto. Lei e la sua famiglia erano conosciute e amate.
Io conoscevo Lucia. Abbiamo frequentato le facoltà scientifiche a Milano in città studi negli stessi anni, lei veterinaria, io fisica. Purtroppo non abbiamo mai avuto un’amicizia stretta, e dopo l’università raramente ci siamo incontrati.
Lo strazio per un evento simile è stato sconvolgente. Lucia muore di malattia dopo quattro anni e mezzo di matrimonio, lasciando un marito e due bambine di uno e tre anni. Al funerale eravamo tantissimi, e c’erano tantissimi dei vecchi amici dell’università.
Il celebrante, don Stefano Alberto (don Pino), ha tenuto un’accorata omelia che non esito a definire ispirata dallo Spirito Santo. Ha parlato dell’invocazione che fece Lucia “Voglio la vita” e della sua “febbre di vita”. Parole che a lei più che a chiunque altro si confacevano. Parole ispirate, ma che nella loro necessaria concisione forse faticano a dipingere ciò che vogliono significare.
Se mai v’è stato essere umano che abbia incarnato la parola “vita”, nei suoi gesti energici, nel nitore della sua voce, nei suoi occhi intelligenti e vivaci, nella sua costante allegria, nel suo sorriso luminoso e spensierato , nella sua riposante bellezza, nella sua apertura agli altri e al mondo, nella sensazione di brezza fresca che la sua presenza suscitava, questi è stata Lucia Lari. E se tutto ciò potrebbe sembrare dono che ella si è semplicemente ritrovata addosso, in lei il suo essere “febbre di vita” era nelle sue scelte, arrivando alla scelta, fondante dell’esistenza, dell’essere cristiana, affinché realmente la vita fosse infinita. Nell’essere cristiana di una fede tanto spontanea quanto profonda, Lucia giungeva a rendere evidente la frase di Pavese che ha risuonato in chiesa nell’omelia: “Ti brilla negli occhi la stranezza di un cielo che non è il tuo”.
Per capire in concreto che cosa fosse la “febbre di vita” di Lucia, occorrerebbe aver fatto l’esperienza degli universitari di Comunione e Liberazione in quegli anni. Occorrerebbe tornare in quegli anni in cui noi cristiani di CL eravamo stati forgiati dai nostri padri della fede Giovanni Paolo II e Luigi Giussani a sfidare la nostra vita e il mondo provando e portando Cristo. Quegli anni di passaggio tra la stagione di questi grandi e i loro successori, all’epoca determinati quanto i primi. Lucia era tra noi una ragazza dal carattere vivace e fiero. Tanto lanciata nella sua fede e nella vita della comunità, quanto aperta al mondo, alle persone, agli incontri. Noi eravamo “scienze”, la Comunità di Scienze, che comprendeva tutti i ciellini di città studi, al netto degli iscritti al politecnico. Rammento una mitica serata a una vacanza -uno di quei momenti al calor bianco della giovinezza che rimangono nel cuore tutta la vita- in cui gli amici della “band” di scienze si erano vestiti da Blues Brothers e il mio amico Giacomo, Jack, occhiali da sole e cappello nero in testa, scandiva nel microfono sostenuto da basso e batteria: “Non importa che tu sia chimico, fisico, matematico, veterinario, biologo, naturalista, informatico, farmacista, agrario, geologo, l’importante è che tu abbia qualcuno da amare, tutti abbiamo bisogno di qualcuno da amare… everybody, needs somebody…”, mentre sul palco lo accompagnava canticchiando un coro di donne, e tra esse v’era Lucia…
Febbre di vita. La nostra vita era nella comunità. Posso pensare che certe comunità cristiane nel corso dei secoli fossero analoghe, con i loro entusiasmi e le loro difficoltà, coi loro luoghi, i loro riti, le loro regole, i loro tempi, le loro colonne. Sì, Lucia aveva una vera febbre di vita. Passavamo le giornate tra amici in facoltà. Molto più che a studiare. Ci aiutavamo nello studio, a interessarci, ad “andare a fondo”. Sempre con l’idea che l’“andare a fondo” era quello che ci era chiesto da Dio in quei frangenti. Ci trovavamo settimanalmente nelle “scuole di comunità”, a riflettere sui temi della vita e della fede. A cercare di capire quale fosse il modo più bello e più profondo per vivere. A cercare di capire per quali grandi cose era fatta la nostra vita. C’erano le cosiddette “aulette”, spazi in cui in ciascuna facoltà i ciellini si trovavano a studiare e non solo. Ne avevamo una piuttosto ampia a fisica; ce n’era una, molto più piccola, anche a veterinaria, dove stava Lucia. Febbre di vita. Quasi sempre un qualche incontro, di tipo culturale, politico, letterario veniva segnalato. Le scuole di comunità erano “riprese” in piccoli gruppi, tra uno studio e un altro. E poi i canti. Si cantava per tutto, prima delle scuole di comunità, prima degli incontri in cui invitavamo professori e personaggi più o meno interessanti, alle Messe. Lucia girava per le varie sedi delle facoltà scientifiche (fisica, chimica, veterinaria, agraria, farmacia…) a provare i canti. Te la vedevi comparire davanti sempre con un meraviglioso sorriso un po’ sbarazzino, e sempre andava da qualche parte a “provare i canti”. Tutte le settimane andavamo a Messa tutti assieme, nella parrocchia universitaria di San Pio X retta da don Marco Barbetta. Il presbiterio era sopraelevato: lassù, nell’angolo destro, accanto all’organo, trovavamo spesso lei a cantare, con la sua pura voce di contralto. I canti della tradizione del Movimento o le antiche “laudi”. Ciascuno di noi nell’ascoltare tali canti durante la Messa intonati dalla più bella ragazza di scienze ha per un istante pensato di vivere un piccolo anticipo di paradiso. Febbre di vita. All’ora di pranzo sempre l’Angelus, in ciascuna facoltà. E i pranzi assieme, le lotte, i giudizi sull’attualità, i manifesti che attaccavamo in giro. Quando non avevamo paura a dire “noi cristiani”. Quando arrivava la bella stagione ci si trovava spesso nei cortili e nei giardini delle facoltà. Si scherzava, ci si confidava. Veterinaria aveva dei cortili con bellissimi giardini, dove Lucia e i compagni spesso andavano. Poi le elezioni studentesche, momento di grande lotta. La vita di chi stava in appartamento, come Lucia per un periodo. Il giornale studentesco che confezionavamo e distribuivamo. Continui inviti a pranzo e a cena alle persone interessanti che avevamo la ventura di conoscere. E la domanda che sempre ritornava “Ma questo che cosa c’entra con Cristo? Che cosa c’entra con la fede?” E naturalmente le confidenze vicendevoli. E Lucia sempre presente, col suo carattere allegro e un po’ pungente. Febbre di vita. Le vacanze tutti assieme. Trecento persone che salgono in montagna in perfetto silenzio, facendo spazio nel cuore al grande Mistero che per l’universo si squaderna. I giochi a squadre in mezzo ai prati, i filmini satirici che preparavamo, gli incontri e le testimonianze. La nostra vita da giovani studenti cristiani che si buttavano a capofitto nella vita, senza paura di sbagliare se non per troppo poco zelo. Lucia era sempre presente su tutto, col suo ardore, con la sua curiosità verso le cose e gli amici, nel suo vivere profondamente il dono prezioso della vita cristiana. E ancora i canti, tantissimi canti, cui Lucia partecipava nei cori o come solista. I canti divertenti e spensierati delle serate, i canti assorti e malinconici che chiudevano le giornate, come Manto de Açucenas, che sarebbe poi stato eseguito al suo funerale… Canti, canti che la avevano fatta partecipare alle dure selezioni per entrare nel coro di CL, in cui Lucia entrò e cantò fino alle sue ultime settimane. Questa fu all’università la sua febbre di vita, che si rendeva visibile nel suo immancabile pieno sorriso velato di ironia…
Ecco i gesti di un popolo cristiano in cui dilagava quella “febbre di vita” ricordata da don Pino, nella stagione della vita in cui Lucia e io abbiamo camminato affiancati. I gesti dell’appassionato popolo cristiano di cui Lucia Lari era figlia.
Dopo l’università, ahimè, ho frequentato troppo poco Lucia per poter dire qualcosa della sua febbre di vita nel lavorare, nel suo essere sposa, nel suo essere madre. Febbre di vita che tuttavia so si mantenne sempre ardente nello slancio verso le sue figlie, suo marito, il suo lavoro, la sua famiglia di origine, la preghiera, il suo amato canto e il suo amato Lario. Per chi fece gli anni dell’università accanto a lei, l’idea che una vita così meravigliosamente ardente e carica di promesse sia terminata così presto sembra inconcepibile, nella stessa misura in cui lo sarebbe la notizia della sparizione dell’Oceano Atlantico.
Un popolo l’ha accompagnata nel tempo della sua dolorosa passione.
“Solo in Paradiso sapremo "perché lei?", sposa di Lorenzo, mamma di Teresa e Agnese”, diceva don Pino dall’ambone, davanti alle sue spoglie mortali. “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto”. La cassa è uscita dalla chiesa e il lungo corteo che sotto l’acquerugiola ha portato Lucia al camposanto era guidato da Don Giovanni Fasani. Ha la mia età, fece insieme a me il pellegrinaggio a Czestochowa, che compiono tutti gli universitari di CL per chiedere alla Madonna che la loro vocazione sia illuminata. Come in una famiglia, così figli del Movimento sono i preti che accompagnano i nostri cari nel loro ultimo viaggio. Tutti abbiamo detto il Santo Rosario, nessuno, nessuno taceva. La tristezza era un macigno:
Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. […] E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica”, le grevi parole di Paolo VI al crepuscolo della sua vita.
La tristezza lacerava il cuore, ma non v’era disperazione. Non posso sapere che cosa ci fosse nel fondo del cuore di ciascuno, ma posso dire che non l’ho vista presente in nessuno. L’hanno calata nella fossa, Lucia, quello che era rimasto del suo sorriso spensierato e dei “suoi splendidi occhi” nocciola e verdi. Hanno iniziato a versare la terra. Per più di mezz’ora hanno buttato terra su di lei, mentre dal cielo scendeva la pioggia. “E abbiamo cantato. Un popolo ha cantato. E c’era nel canto di questo popolo paziente tutto lo struggimento della nostra umana impotenza. V’erano i cori in cui aveva cantato, i suoi fratelli in Cristo, i suoi cari.”
Per più di mezz’ora abbiamo cantato i canti della sua febbre di vita, i canti della tradizione del Movimento. Non avevamo testi, cantavamo tutti, cantavamo a memoria, compostamente, con le lacrime agli occhi, senza singhiozzare.
Come è grande la tua bontà, che conservi per chi Ti teme
E fai grandi cose per chi ha rifugio in Te, e fai grandi cose per chi ama solo Te.
Come è chiara l’acqua alla tua fonte, per chi ha sete ed è stanco di cercare
Sicuro ha ritrovato i segni del tuo amore, che si erano perduti nell’ora del dolore
Abbiamo cantato il bruciante desiderio di sapere “perché”, che gonfiava il nostro cuore
Quando noi vedremo tutto
Quando tutto sarà chiaro
“Solo in Paradiso sapremo "perché lei?" […] Lei lo vede, lei lo sa.” aveva detto l’omelia.
E abbiamo cantato quei due versi danteschi di un figlio di Giussani, che si inveravano davanti ai nostri occhi:
Così quando sarai a quell’ultimo ponte
Con il tempo alle spalle e la vita di fronte…
“Una ferita si è aperta, che non si rimarginerà se non in cielo” aveva proclamato don Stefano. Quanto ci sanguinava, quanto ci bruciava! Questa ferita conficcata nella nostra carne finché avremo carne.
La fede è un amore, e l’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il suo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. La fede che era negli occhi e nei gesti di Lucia nella lieta stagione del meriggio, era negli occhi di tutto il popolo davanti alla sua tomba muta. La fede che ha il suo peso, ha il suo peso che si sente nel suo cambiare il modo di vivere.
E nel cambiare il modo di morire.
Se essa fosse una pia illusione, se fosse inconsistente, difficilmente cambierebbe come si vive; sicuramente non cambierebbe come si muore. La fede che è amore, il peso della fede, che incarnava Lucia negli istanti in cui si è abbandonata tra le braccia della Madonna mentre intorno a lei si produceva il grande capovolgimento. La fede che innervava i nostri cuori mentre con le nostre umili voci la affidavamo agli angeli. Quanta terra fredda le hanno versato addosso, sotto la pioggia, quanta terra! Quanto abbiamo cantato! Davanti alla morte, alla morte di Lucia, che era la vita, la febbre di vita in persona, quanto abbiamo cantato! Quanto abbiamo cantato; tristi ma non prostrati. Addolorati nel più profondo, ma in piedi. Un popolo intero che seppellisce uno dei suoi fiori più belli cantando, cantando a memoria, i propri canti, della propria tradizione, i canti di lei. Così siamo stati innanzi a questa straziante morte.
Siamo ancora un popolo, nonostante tutto. Diviso e lacerato dagli eventi del mondo e della storia, diviso e lacerato al suo interno, ferito e sanguinante per i suoi drammi, ma siamo ancora un popolo!
Questo per dire come ha vissuto una giovane donna di Cristo, Lucia Lari in Margiotta. Una cristiana. Questo per dire come un popolo cristiano l’ha accompagnata alle porte del Paradiso.