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Saranno le «Madri» di Myrta Merlino a cambiare il Paese?

Fonte:
CulturaCattolica.it
«La vocazione di una donna è il sublime ed è innanzitutto quella di dare la vita, proteggerla e renderla bella».
(Marguerite Barankitse)

Consiglio il libro di cui sto per parlare a noi mamme, innanzitutto, ma anche a tutte le donne che madri non sono, almeno per ora. Vorrei consigliarlo ai papà e a tutti i maschi che un giorno o l’altro forse lo diventeranno. Vorrei che leggessero questo libro soprattutto coloro che hanno scordato di essere figli di un padre e di una madre e che a loro, nel bene e nel male, devono l’aspetto fisico e anche un po’ del carattere. E, a sostegno delle GPA e del mercimonio dei figli e del corpo di madri-contenitori, pontificano dagli scranni del potere che «senza una mamma si può crescere bene lo stesso».
Madri
, della giornalista Myrta Merlino, presenta undici storie di donne; «storie straordinarie di madri normalissime», le definisce. E così scrive nella quarta di copertina: «Madri parla di noi. Noi mamme italiane, fortissime e ostinate, fragilissime e imperfette. Ogni storia ci interroga su come siamo, come vorremmo diventare e come non dovremmo essere».
E’ un libro che parla della maternità come vocazione e del legame «indissolubile e indivisibile» tra la mamma (ogni mamma!) e il suo bambino. E’ una verità che l’autrice spiega nelle prime pagine, raccontando la sua maternità, vista prima come «ingombro», come ostacolo alla propria affermazione, e poi come «la più assoluta, la più pura delle felicità»; ma è verità che emerge, tra le righe, anche nel racconto di una storia difficilissima da descrivere e da commentare: la storia di Martina, “la ragazza dell’acido”, che non aveva mai pianto in galera, fino al giorno in cui è nato suo figlio. «E’ giusto strappare un bambino venuto al mondo da pochi minuti dalle braccia di una madre, per quanto criminale, efferata e psicotica possa essere?», si chiede la Merlino a pagina 111. «Come si può far valere fino in fondo l’interesse di chi, ancora a occhi chiusi, chiede solo un seno cui attaccarsi e un ventre caldo dove rannicchiarsi trovando protezione?». Ancora, a pagina 126: «E’ un diritto di ogni nato, naturale prima che giuridico, stare tra le braccia di chi lo ha generato e portato in grembo».
Leggi e non puoi non chiederti cosa possano pensare, di fronte a queste parole, quegli uomini che per capriccio e per soldi affittano l’utero di una donna per nove mesi e il giorno del parto le strappano per sempre il figlio che ha tenuto in grembo, perché il contratto di compravendita prevede questo, senza se e senza ma. Non vale forse anche per quelle donne il legame «indissolubile e indivisibile» che vale per tutte le mamme del mondo? Non sono, loro, madri come tutte le altre?
Struggente, tra le storie raccontate nel libro, quella di Sandra e della sua maternità “elettiva”. Sandra, scrive l’autrice, a vent’anni ha scelto il dolore che nessuno vorrebbe, trovando la gioia che nessuno può capire. Una storia iniziata il giorno in cui ha detto al marito, cardiochirurgo: «Voglio che questo bambino possa morire tra le braccia di una madre» ed ha preso con sé un neonato partorito e poi abbandonato in ospedale con il suo carico di imperfezione, i suoi organi scombinati e un cuore che non funzionava. Racconta la Merlino: «La sua è la storia di un amore che non chiede nulla in cambio, di un sentimento materno generoso e purissimo, davanti al quale mi sono sentita piccola e inadeguata. Che lezione per quante di noi che più che amare i figli si amano nei figli!»
A pagina 54 l’autrice mette nero su bianco il senso profondo della maternità. «Carlo (il piccolo n.d.a.) non può corrispondere a nessuna delle normali aspettative di una madre, al suo desiderio di felicità, alla sua voglia di specchiarsi e di riconoscersi nel figlio. Carlo non è stato adottato per realizzare un sentimento materno, per colmare un vuoto, per soddisfare una esigenza. E’ stato adottato per la vita e pure per la morte, ed è morto tra le braccia di una madre che lo aveva voluto nonostante tutto. Mentre Sandra, mamma di due figli perfetti, belli e sani, sa che mai è stata tanto madre come nell’ultimo abbraccio di Carlo».
Addentrandoti nella lettura, scopri che in questo libro, scritto da una donna che è madre di tre figli, non mancano domande sulla responsabilità educativa, perché non basta metterli al mondo, i figli, bisogna educarli. Bella, allora, la storia di Toya, la mamma guerriera che a Baltimora corre in strada a riprendersi suo figlio a suon di schiaffi per salvarlo da se stesso e dalla sua rabbia. «Una piccola ma emblematica storia di maternità. Che ci spinge a domandarci: mamme, che ci è successo? Dove siamo? Perché anche noi non riportiamo a casa i nostri figli?» E aggiunge: «I pochi fotogrammi di Toya che schiaffeggia il suo Michael dovrebbero essere proiettati nelle scuola, nelle parrocchie, nei corsi prematrimoniali, dovrebbero far parte della formazione di ogni futuro genitore. Quel video dovrebbero vederlo soprattutto le mamme e i papà sempre pronti a giustificare e ammettere ogni comportamento, ogni scelta dei propri figli».
E’ Micaela, preside a Roma, che fa riflettere l’autrice e chi legge su quello che i genitori possono fare per i propri figli, «invece di aspettare che sia la scuola a fare qualcosa per loro», o a raccontare all’autrice «storie vergognose e indicibili che riguardano normali genitori come noi, ma armati di un amore sbagliato», o di quei figli «che rischiano di diventare un oggetto incestuoso per le madri».
«I nostri figli in noi non cercano il dubbio, ma la sicurezza», le dice Micaela. «Se vogliamo essere dei buoni genitori dobbiamo capirlo e ricordarlo sempre», perché i ragazzi che stanno crescendo non cercano genitori-amici-compagni di merenda, ma adulti che aiutino a entrare nella vita.
I dettagli su questo e sugli altri incontri raccontati nel libro li lascio alla curiosità dei lettori. Dedico invece qualche riga alla storia di Giuseppina, «madre due volte insieme alla compagna», perché è in questa storia e nelle pagine che non anticipo, dedicate a Emma Bonino, che, a mio avviso, è più quel che si coglie tra le righe rispetto a ciò che emerge dal racconto delle protagoniste. Come a dire che la realtà parla anche al di là delle parole che cerchiamo di appiccicarle per ridurla ai nostri schemi, per (co)stringerla nelle griglie del politicamente corretto. Ad esempio quando Myrta Merlino riporta, virgolettate, le parole di Lisa, la figlia di Giuseppina: «Tanto per nascere non servono un papà e una mamma, ma un semino di uomo e un semino di donna. E le mie mamme sono andate in Belgio a farselo dare da un dottore, quel semino...». Sarà anche una bella poesia fatta imparare a memoria per addolcire la pillola, ma non serve un master per capire che la realtà è un’altra cosa.
O come quando Giuseppina racconta la verità della fecondazione eterologa. La leggano quelli/e che, mondandola furbescamente dai pericoli e dai numerosi effetti collaterali, pubblicizzano con il sorriso la «donazione di ovini», manco le donne fossero galline. «E’ stata molto dolorosa. Iniezioni, anestesie, aghi ovunque, prelevamento di ovuli, una sgradevole sensazione di gonfiore nella pancia, il rischio pericoloso di iperstimolazione, le giornate da passare a letto o al massimo sul divano».
O come quando Giuseppina pensa al futuro di Lisa. «Il nostro dubbio riguardava il momento in cui Lisa ci avrebbe potuto chiedere da dove è venuta fuori, chi è suo padre». Insomma: chi sono io per giudicare Giuseppina e la compagna Raphaelle, ma che questa storia, come dice l’intervistata, sia la «una maternità all’ennesima potenza» (pag.155), non ci crede proprio nessuno.
E in attesa che Myrta Merlino, per par condicio, si cimenti nell’avventura di un libro tutto dedicato ai padri, sarebbe stato «utile e istruttivo» – come direbbe Giovannino Guareschi –, se almeno una volta avesse accennato al fatto che nella vita di un bambino, di un figlio, per metà conta la madre e per metà il padre. C’è bisogno di chiarezza, oggi più di sempre, e Myrta Merlino, che conduce su La7 “L’aria che tira” dovrebbe saperlo: tira una brutta aria e, nel delirio di onnipotenza che inquina questa nostra epoca di desideri che si vogliono spacciare per diritti, c’è chi vorrebbe farci credere che donne e/o uomini i figli possono farseli e crescerli anche da soli. Proprio come Giuseppina e la compagna, che vengono presentate come due donne che «hanno avuto due figli senza avere un uomo. E non sono ricorse all’adozione», o, a pagina 155, parlando dell’educazione di Lisa e del secondo figlio, Andrea Giuseppe, si definiscono «interscambiabili su tutto».
Non so se Myrta Merlino crede di essere «interscambiabile su tutto» con suo marito, il padre dei suoi figli. A prescindere da cosa pensa lei, la realtà, da che mondo è mondo, è che maschi e femmine sono diversi e complementari nell’esperienza di coppia e matrimoniale e che padri e madri sono diversi e complementari nell’educazione dei figli.
Si pensi e si scriva dunque ciò che si vuole, per interesse o per moda, ma privare un figlio di questo resterà sempre, per lui, un “di meno”.

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