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Chi sono io?

Fonte:
CulturaCattolica.it
Una mattina un bambino chiese alla mamma:
Mamma, chi sono io?
Come chi sei? - chiese stupita la mamma. - Sei mio figlio.
E per i nonni?
Per i nonni sei il nipote.
E per Carlina?
Sei suo fratello.
E per Luca?
Per Luca sei suo cugino.
“Che bellezza!” pensò tra sé il bambino. “Non è ancora mezzogiorno e sono un sacco di persone: sono figlio, nipote, fratello e cugino!”
Poi scese in cortile e incontrò Luigi che gli gridò:
Ciao, amico! Giochi con me?
Il bambino sorrise:
Che bello! Ora sono anche amico e pure compagno, perché Luigi è il mio vicino di banco a scuola!
(Giani Rodari)

Da qualche parte bisogna iniziare, per arginare questo insopportabile analfabetismo di ritorno, spacciato per progresso. Ripartiamo dall’ABC.
Fino all’altro giorno nessuno si sognava di mettere in discussione le questioni fondative dell’umano: maschio, femmina, madre, padre, famiglia, albero genealogico: le davamo per scontate. Oggi spuntano come funghi le teorie più fantasiose (gender et similia), ed aveva proprio ragione Chesterton: «Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate». Per la prima volta da che mondo è mondo oggi tocca spiegare perché ogni figlio è in-di-scu-ti-bil-men-te figlio di una madre e di un padre, dell’incontro tra maschile e femminile. E che menzogna, semmai, è negarlo, magari per accontentare quei due o quelle due che padri e madri non sono e non potranno mai esserlo, ma che fingono di, o giocano a.
Analfabetismo di ritorno che Paolo Cevoli chiamerebbe confusionismo: a furia di dare per scontato ciò che siamo e da dove veniamo, altri messaggi stanno prendendo il sopravvento e, nel bla bla bla generale ossequioso verso le mode e il politically correct, si finisce con il negare l’evidenza della realtà.
E allora, sarà deformazione professionale, ma visto e considerato che insegno italiano, se da qualche parte bisogna cominciare per (ri)mettere i puntini sulle “i” e di dire pane al pane e vino al vino, io propongo di cominciare da questo raccontino di Gianni Rodari. Regaliamolo alle mamme e ai papà, alle maestre; facciamolo imparare a memoria ai più piccoli, e ai grandi, che lo ripetano ai piccoli. Lo raccontino i nonni ai nipoti. Copiamolo e volantiniamolo fuori dalle scuole, nelle piazze, all’uscita delle chiese. Azioni che solo un paio di anni fa ci avrebbero fatto sbellicare dalle risate, o giustificato un T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio), tanto il testo è (era) scontato. Oggi no. Oggi dici questa ovvietà e stai pur certo che, serissimo, alzerà la mano uno di quegli intellettuali à la page che girano con i libelli dell’Unar sotto il braccio e così si assicurano il posto fisso nei salotti glamour della tivù. Prenderà accigliato la parola e si cimenterà nel triplo salto mortale carpiato dei periodi ipotetici della possibilità e dell’irrealtà, inanellati di se e anche di ma.
Che fare, per riportare alla realtà la meglio intellighentia de noantri? Si riparta dall’ABC, dalle fondamenta, da queste poche righe. «Chi sono io?»
Facciamo che sia il piccolo Davide di questo racconto, a rispondere al Golia postmoderno, paladino della gender theory, delle famiglie arcobaleno, degli ovuli comprati, degli uteri affittati, dei figli ordinati a catalogo. Gridiamolo dai tetti che non siamo venuti dal nulla, che non ci siamo dati la vita, che “due papà” o “due mamme” è un insulto alla natura, alla realtà, alla ragione, prima ancora che un’idiozia linguistica. E che è falso (e pericoloso) il delirio di onnipotenza di cui, ormai da un po’, van cianciando sui giornali e alla tivù..
Volantiniamo! Sarà uno sberleffo a chi in quest’epoca dei desideri al potere blatera di autodeterminazione e ripete lo slogan io sono mia, io sono mio. «Chi sono io?» è storia di rapporti, è la realtà, è la vita. Mia e tua, di te che leggi. Questo siamo: relazione.
Relazione deriva da religo, e l’etimologia ricorda il legame, ma relazione deriva anche da refero (relatum), e il significato richiama l’attribuzione di senso. Questo breve testo, nella sua semplicità, ci ricorda che per capire chi siamo dobbiamo sempre, necessariamente, fare riferimento ad un altro. Che il nome non l’abbiamo scelto e racconta se siamo femmine o maschi. Che il cognome dice che apparteniamo a una stirpe e siamo anello di una catena, rapporto con una madre, un padre, una sorella, un fratello, dei nonni, degli zii, dei cugini…, dentro una storia relazionale che non ci siamo dati. Legami che non sono lacci che imprigionano, come vorrebbero farci credere i guru dell’autodeterminazione, ma sono sostegno, dono, ricchezza.
Solo adulti che odiano i bambini possono dire che sradicarli intenzionalmente fa lo stesso. Che non sapere da dove e da chi si viene è la stessa cosa che conoscere la propria origine.
E poi. Nella differenza che il bambino avverte rispetto sua madre, sua sorella, i suoi amici, impara anche il “limite” del corpo. Quel bambino capisce che non è “tutto”, che sua sorella non è “tutto”: non sono onnipotenti. Certo è limite e confine, il suo e il nostro corpo, ma la realtà insegna che è proprio nell’incontro con l’altro, il diverso da me, che posso generare. Così è accaduto tra il padre (maschio) e la madre (femmina) del protagonista del racconto. Tra i suoi nonni, pure. Ed è così dalla notte dei tempi.
Diffondiamolo, questo raccontino! Il corpo parla dell’origine: ricorda da chi sono nato, da che incontro, da quale amore, e rimanda alle somiglianze con chi mi ha preceduto. Il mondo di esseri indifferenziati che piace tanto agli aedi del gender porta alla stagnazione, alla sterilità, e invece è solo grazie alla differenziazione sessuale che è possibile andare oltre noi stessi e generare. Lo capisce anche un bambino. Il primo modo per volergli bene è raccontarli la verità. Questa.

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