C’era una volta. Oggi è diverso
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C’è un tempo per nascere e un tempo per morire…
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare…
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine. Ho concluso che non c’è nulla di meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio. Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere…»
(Ecclesiaste)
«Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per viver felici, di non pensarci.»
(Pascal, Pensieri, 348)

C’era una volta…
C’era una volta la mamma, il papà, la famiglia, la scuola, la Chiesa. A modo loro, meglio che potevano ti insegnavano tutto quel che avevano imparato. Ad esempio, che a Carnevale ogni scherzo vale, che per un po’ di giorni all’anno ti potevi travestire come volevi, e indossare la maschera che preferivi. Per un po’ di giorni all’anno, tra febbraio e marzo, andava in scena il mondo alla rovescia. I maschi potevano travestirsi da femmine: belletto tacchi alti e curve provocanti, oppure finte mamme con un finto pancione. Le femmine potevano raccogliere i capelli sotto un grande cappello, o una parrucca, e dipingersi i baffi, o mettere una barba posticcia, e giacca e cravatta. I vecchi camuffarsi da bambini e i bambini travestirsi da vecchi e fingere schiena curva e passo lento. Per le strade poteva capitarti di incontrare principi e principesse, superman, angeli, scheletri, animali, oggetti in movimento. Persino la morte: la falce in mano e il mantello nero.
In quei giorni e solo per quei giorni, desideri e paure prendevano corpo, e le maschere erano divertimento, scherno, provocazione. O avevano funzione apotropaica. Insomma: dando sfogo alla fantasia, per scherzo si poteva (fingere di) essere ciò che si voleva, e provare a vedere l’effetto che fa.
Ma c’erano, quella volta, padri e madri, e gli educatori a scuola e nella vita, che ti aiutavano a capire che Carnevale è un tempo ed ha un tempo: un inizio e una fine; e che passati quei giorni la maschera si toglie, si abbandona la finzione e si ritorna se stessi. Maschi se maschi, femmine se femmine, vecchi, giovani… ciascuno alla sua vita, al suo compito, al suo mestiere. Perché la vita è una cosa seria e a tutti è chiesto un contributo per rendere il mondo migliore.
Era anche in quei momenti che capivi di avere di fronte adulti-adulti, e di appartenere ad un popolo che, del cammino, conosceva la strada. Quando, terminati i coriandoli e le stelle filanti, riposti maschera e abito di Carnevale nella loro scatola (poi magari sarebbero passati ai fratelli più piccoli, o ai cugini…) nel riprendere la strada di tutti i giorni, dentro quel corpo di tutti i giorni – vero, di carne, non posticcio: camuffato dal desiderio – per gli altri 350 giorni dell’anno tua madre e tuo padre, e gli insegnanti, e i preti, ti aiutavano ad accettarlo e ad amarlo, quel corpo, a prendertene cura e a trattarlo bene perché fiorisse al meglio. E così la tua femminilità o mascolinità, e così la tua età, i tuoi talenti. Erano adulti, quelli, che sembravano lì apposta per insegnarti che era possibile riempire di senso il tuo hic et nunc, perché era lì che si giocava la vita, quella vera. E te lo facevano capire non con discorsi, non con divieti o regole da rispettare, non con le ore di approfondimento o i corsi di aggiornamento o i libelli dell’Unar, ma testimoniando quanto era bello per loro essere compiutamente maschio o essere compiutamente femmina. Ed offesa sarebbe stata se qualcuno gli avesse detto di annullare quelle differenze.
C’era una volta. Oggi è diverso.
Dovessimo andare dove tira il vento del gender, e prendere alla lettera i suoi diktat, oggi dovremmo credere che Carnevale è tutto l’anno, perché – così predica la nuova teologia politically correct – ciascuno è quel che si sente, per quanto tempo gli va, e poi cambia. Mo’ maschio, mo’ femmina, mo’ una delle altre 56 “opzioni” della lista (provvisoria) stilata da Facebook Usa. Fluidamente questo ma anche quello e poi quell’altro. Carnevale sempre, in quest’era dell’homo ludens e dei desideri al potere.
Una volta lo sapevi che era un gioco, e che la vita vera era prima e dopo Carnevale. La fuga dalla realtà, dalla quotidianità, da te stesso, era solo una parentesi da riderci sopra.
Oggi si fugge sempre, e nelle innumerevoli possibilità previste dal gender, dai tre anni in su cominciano a farti credere che non sei uno/una ma centomila (che è pure neutro, e non sessualmente connotato). E pazienza se in questa macedonia di ruoli à la carte, in questa vita che non poggia su niente e ruota come le banderuole, quando ti guardi allo specchio ti ritrovi ad essere un emerito nessuno e in preda a una (legittima) crisi di identità un giorno o l’altro magari decidi di farla finita. Pazienza. Sarà una di quelle morti dolci che chiamano progresso e che van tanto di moda.
Scrivo e penso che piace un sacco, papa Francesco, per le sue scarpe nere, per la sua valigetta, per le telefonate improvvise, perché a volte salta il protocollo… e però si cambia canale quando ci rammenta la verità di noi, fatti a immagine e somiglianza di Lui; e del nostro corpo, «tempio dello Spirito Santo». O quando parla del diavolo, per esempio.
E invece sarebbe bene ascoltare papa Francesco quando parla del maligno, e guardarci intorno, perché in questa patetica bolla carnascialesca che è diventata la postmodernità, se non siamo vigili il demonio manca poco che si prenda tutta la scena.
Diavolo, come è noto, deriva dal greco διαβάλλω (diabàllo), e significa dividere, separare. Nell’era del divertissement eretto a sistema non sta accadendo proprio questo?
Il gender separa l’uomo e la donna dal loro corpo, che è avvertito come un optional, se non come un nemico. Separa e contrappone i maschi e le femmine, che da che mondo è mondo si sono invece sempre cercati per attrazione, per la loro complementarietà. Separa l’amore dal sesso e dalla filiazione, perché invita a fare sesso senza procreare e a procreare senza aver fatto l’amore. Con la maternità surrogata separa i figli dai loro genitori biologici. Ammettendo (incentivando?) la fabbricazione e la compravendita dei bambini e/o l’affido a coppie omogenitoriali, separa i bambini, nella crescita, dai riferimenti a cui avrebbero diritto per un sano equilibrio: un papà maschio e una mamma femmina. Separa, tranciandola, la catena delle generazioni. E poiché in questo eterno Carnevale ogni desiderio è lecito, azzerando l’idea del peccato chi avrà più il bisogno di essere perdonato? Chi implorerà la misericordia divina? Che ce ne facciamo di un Padre, noi eroi multiformi, che tutto possiamo?
Il neopensiero e la sua azione diabolica saranno sconfitti se si ridesterà, nei cuori, il ricordo di chi è l’uomo e chi è la donna, e del Destino di felicità a cui sono chiamati. Se davanti alla frammentazione dell’io causata dal relativismo e dal gender, gli adulti testimonieranno il valore della persona, e la bellezza dell’unità originaria tra corpo e mente, ragione e fede. Se i genitori si riapproprieranno dell’educazione dei figli e i pastori non abdicheranno al loro compito di guide di questo popolo smarrito.
C’era una volta. Vogliamo che sia anche ora.