La legge (non) è uguale per tutti
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Renato Farina è un amico. L’incipit è doveroso e, per onestà intellettuale, dice tutta la difficoltà del sottoscritto nell’esprimere un giudizio obiettivo circa l’ultima vicenda kafkiana che lo ha visto protagonista.
Cerchiamo di ricapitolare i fatti.
L’art.67 dell’Ordinamento Penitenziario consente a vari soggetti, tra cui i parlamentari, di visitare detenuti senza autorizzazione. Renato, che da tempo ha ingaggiato una battaglia politica per denunciare la scandalosa condizione delle carceri italiane, ha più volte approfittato di questo “privilegio”. Conoscendolo, non ho il minimo dubbio che egli si sia avvalso di quella disposizione normativa per obbedire, da buon cattolico, ad una delle sette opere di misericordia corporale (visitare i carcerati), e per riconoscer nello sguardo sofferente dei detenuti il Volto di quel Cristo che ai discepoli ha ricordato: «In carcere eram, et venistis ad me».
L’art.67 si estende anche ai collaboratori che il parlamentare ritiene di portare con sé durante le visite per ragioni del suo ufficio. E qui cominciano i guai per Farina. Esiste, infatti, una circolare del ministero della Giustizia la quale prevede che gli accompagnatori dei parlamentari siano collaboratori con contratto a prestazione continuativa.
La legge non dice nulla al riguardo, e la circolare, peraltro, non viene applicata in tutti i penitenziari.
Quando il 12 febbraio scorso, l’onorevole Renato Farina è andato a trovare a San Vittore il detenuto Lele Mora, prostrato e depresso al limite del suicidio, ha deciso di farsi accompagnare da una persona con cui non era legata da un contratto a prestazioni continuative.
Tanto è bastato perché cinque mesi dopo (con una velocità che non ha davvero precedenti rispetto all’endemica lentezza della giustizia italiana), e per l’esattezza l’11 luglio 2012, il giudice del tribunale di Milano Elisabetta Meyer lo condannasse per il reato di falso ideologico. Strabiliante la pena: due anni e otto mesi, senza, quindi, neppure il beneficio della sospensione condizionale. Per quel giudice, Renato Farina dovrebbe finire dritto in quella galera (le cui condizioni disumane ha più volte denunciato), per lo stesso periodo riservato normalmente ad un rapinatore.
Sgombriamo subito il campo da ogni considerazione circa il merito del processo. Saranno i giudici d’appello a stabilire se il reato in questo caso sussiste, e quale valore possa avere una circolare applicata a discrezione, rispetto alla legge.
Ciò che qui preme evidenziare è l’inaudita gravità che emerge da questa ingiusta sentenza, a prescindere dal caso specifico del cittadino-onorevole Renato Farina.
Per spiegare meglio cosa intendo, è sufficiente riportare le dichiarazioni di alcuni parlamentari radicali, i quali – a onor del vero – da sempre sono i maggiori fruitori della possibilità loro concessa dall’art.67, di cui si avvalgono nell’ambito della battaglia di denuncia delle vergognose condizioni carcerarie italiane.
La deputata radicale Rita Bernardini ha avuto il coraggio di confessarlo pubblicamente in un’intervista al settimanale Tempi: «Sono quattro anni che agisco come Farina e nessuno mi ha mai detto niente (…). E’ una sentenza che ha dell’incredibile, la definirei lunare».
Anche il deputato radicale Marco Perduca non ha usato mezzi termini per criticare la decisione del Tribunale di Milano: «Non so se si possa parlare di persecuzione nei confronti di Farina, ma di sicuro non ho mai visto una sentenza del genere». E ancor più onestamente, lo stesso Perduca ha ammesso: «Io sono entrato a San Vittore a maggio e avevo tre persone al seguito, nessuna di queste era un mio collaboratore, eppure non è successo niente, nessuno ha detto niente». «Se Farina ha infranto la legge», ha continuato il deputato radicale, «anch’io infrango sempre la legge perché, pur non avendo collaboratori, ogni volta che entro in carcere lo faccio sempre accompagnato da alcune persone», dato che «chi lavora nella commissione diritti umani e visita i penitenziari che sono sparsi per l’Italia non si porta sempre dietro il portaborse romano». Ancora l’on. Perduca spiega meglio l’opportunità di avvalersi di collaboratori esterni: «Prima di tutto perché queste carceri non sono solo a Roma ma in tutto il paese, e poi perché è più importante avere al seguito una persona del luogo, che conosce il territorio e che quindi ha una sensibilità maggiore e fa più attenzione ai dettagli; noi radicali, poi, non abbiamo collaboratori fissi».
Ecco, proprio in questo sta la pericolosità sociale della sentenza che ha condannato Farina. Il messaggio che quella decisione giudiziaria trasmette all’uomo della strada è che, ad onta di quanto sancisce l’art.3 della Costituzione, i cittadini non sono tutti uguali di fronte alla legge. Questo messaggio devastante rischia di sovvertire gli stessi fondamenti del concetto di giustizia. Si chiedeva, infatti, il grande Sant’Agostino: «remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?». Senza giustizia lo stato non è altro che una banda di poteri, ove prevale la legge del più forte, e la dignità di ogni singola persona non è più un criterio di giudizio. Piero Calamandrei è riuscito ad esprimere questo concetto mirabilmente: «Il giudice è il diritto fatto uomo; solo da questo uomo io posso attendermi nella vita pratica quella tutela che in astratto la legge mi promette: solo se questo uomo saprà pronunciare a mio favore la parola della giustizia, potrò accorgermi che il diritto non è un’ombra vana. Per questo si indica nella justitia, non semplicemente nello jus, il vero fundamentum regnorum».
La bilancia della giustizia non può accettare la logica dei due pesi e delle due misura, se non riducendo un Paese civile all’Animal Farm orwelliana, quella in cui «all animals are equal but some animals are more equal than others».
Questa sentenza di Milano mi ha ricordato un triste episodio risalente agli albori della mia professione, quando, giovane ed inesperto praticante avvocato, mi lamentai con un anziano magistrato per un evidentissimo caso di disparità di trattamento. Quel giudice mi rispose, con aria sorniona, citando Giovani Giolitti: «Figliolo, nel nostro Paese le leggi si applicano per i nemici e si interpretano per gli amici».
A me piacerebbe, invece, vivere in un Paese ove la regola sia la certezza del diritto, e la commissione di reato non dipenda dall’interpretazione di una circolare ma dal dettato chiaro ed univoco della legge. Un Paese in cui i tutti processi durino cinque mesi, come quello che ha visto imputato Renato Farina. Un Paese in cui tutti i cittadini siano davvero uguali di fronte alla legge, senza l’odioso espediente delle interpretazioni benevole. Un Paese in cui i penitenziari possano garantire condizioni civili ed umane di vita nell’ottica di una vera rieducazione dei condannati, e non ricordino, invece, i putridi canili della Marshalsea, la tetra prigione vittoriana spietatamente descritta da Charles Dickens nei suoi romanzi. Un Paese in cui la regola sia arrivare liberi al processo, e la carcerazione preventiva non venga usata come un improprio strumento di tortura per estorcere confessioni suggerite. Insomma, un Paese diverso dall’Italia.