Porci con le ali? No, solo porci
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(George Orwell)

L’ultima sparata di Lidia Ravera: «Gran testata Il Foglio, se non ci fosse si dovrebbe inventarlo, tanto sono ormai obsoleti e per ciò stesso preziosi, i giornali che esercitano, senza infingimenti e con fallico vigore, il disprezzo nei confronti delle donne. Ieri l’altro un tal Vitiello scatenava uno schiumante sovrappiù di sarcasmo contro Lorella Zanardo (…) e contro Marina Terragni (…) entrambe, come pure le sciagurate di ‘Se non ora quando’, si sono permesse di non prestare l’attenzione dovuta al pamphlet di Valeria Ottonelli, che sostiene una ‘libera coscia in libero mercato’ contro quella menata della dignità protofemminista. Il disprezzo, di venerdì, esonda, dunque, sulle donne bacchettone. La domenica, probabilmente, sarà di nuovo il turno delle donne assassine. Quelle che, invece di “darla” via su scala industriale ma con le dovute protezioni, restano incinte, magari con uno senza soldi e si rifiutano di offrire il frutto del loro ventre viziato dall’autodeterminazione, a Nostro Signore Gesù Cristo. Abortendo».
Non scrivo per Il Foglio, Vitiello non è mio parente e non sono qui, dunque, a prendere le loro difese. C’è però una cosa che la puntigliosa proprio non riesce a tollerare: le parole buttate lì.
Un esempio. «Dignità protofemminista». Che ad accostare questo sostantivo e questo aggettivo sia l’autrice di Porci con le ali: romanzo che, in stile accozzaglia-ammucchiata, di tutto tratta, ma proprio di tutto tutto – sopra, sotto, davanti e anche dietro – tranne che di dignità della donna (proto, intra, arci, neo, postfemminista che sia), francamente è un insulto all’intelligenza dei lettori e sa tanto da presa per i fondelli. Spiacenti. Noi ci spostiamo.
C’è poi un’altra «situazione» che la Ravera sarebbe bene approfondisse. Riguarda «quelle» (pronome generico e – se lo lasci dire – anche un pelo dispregiativo) «che restano incinte, magari con uno senza soldi».
Forse sarebbe opportuno che una intellettuale di sinistra quale orgogliosamente si ritiene fornisse qualche delucidazione perché, vede, noi donne (e cattoliche) semplici, quando ci innamoriamo ci innamoriamo e quando facciamo l’amore lo facciamo «per amore» e normalmente, in entrambi i casi, non siamo solite chiedere, in primis, l’entità del conto in banca dell’uomo che abbiamo di fronte, e dunque non riusciamo a seguire il suo – per così dire – ragionamento.
Seguendo pari pari il «metodo» illustrato fino alla nausea (letteralmente) in Porci con le ali, e all’insegna del diktat del sesso libero, lei dà per scontato che, quando capita l’occasione, con giusta leggerezza e senza inutili sensi di colpa «la si dà via» (parole sue) e mannaggia se, prese dalla fregola irrefrenabile del momento, «quelle», ante quem, si son scordate di verificare la di lui posizione economica.
Per sintetizzare il «Lidia Ravera pensiero»: incinta con un uomo ricco va bene, con un povero no? Se è figlio di un ricco magari (forse, se «ho voglia») lo tengo, se è di un povero abortisco = me ne libero = lo faccio fuori?
Questo vi insegnano sin da piccole alla scuola di partito? Scatta da qui l’autodeterminazione? Dopo una sniffata ai soldi nel portafoglio del temporaneo compagno d’avventura, dotato di «fallico vigore» (sempre parole sue)?
Oppure trattasi della solita posizione radical chic ancora non citata nei 36 capitoli del Kamasutra, ma assai diffusa nei salotti buoni – e nelle piazze bolognesi, un mese a caso: giugno 2012 – in cui son degne di microfono solo le punte di diamante del pensiero progressita, nichilista, laicista, relativista, postmoderno, neofemminista?
Ancora qualche osservazione sull’aborto, che lei vede come rifiuto di «offrire il frutto del… ventre viziato dall’autodeterminazione, a Nostro Signore Gesù Cristo».
In un articolo pubblicato qualche anno fa su L’Unità, così scriveva. «Voi volete delle belle famiglie, coese e responsabili, dove circolino affetto e cura. Le volete voi, cari avversari della nostra buona legge 194, ma le vogliamo anche noi. Noi: femministe, progressisti laici e cattolici, democratici illuminati dalla ragione (?) e non da preconcetti (?) e/o superstizioni (?). Che cos’è allora che ci divide? La diversa valutazione dell’età del feto, il fatto che per noi sia materia grezza e per voi “bambino non nato”?».
Ecco: questo si chiama parlar chiaro e non «buttare lì le parole»! Ora ci siamo capite.
Sì. E’ esattamente questa UNA delle cose che ci differenzia. Il figlio nel grembo di sua madre non è «materia grezza»! Non serve aver pubblicato i 25 libri che ha pubblicato lei: basta mostrargli un’immagine e lo capisce anche un bambino.
Non è «materia grezza», quel figlio, neanche se è in un ventre «viziato dall’autodeterminazione». Illuminati dalla (presunzione di avere sempre e comunque) ragione, e non certo dalla «ragione», c’è una cosa che proprio non riuscite a mettervi nella testa: mentre ciò che di solito si trova dentro il ventre di una donna è «parte di lei», ha il suo DNA, nel caso di una gravidanza no. Dal concepimento, nel ventre c’è suo figlio: piccolo che all’inizio quasi non lo vedi, eppure già con un cuore che pulsa. Ed è un cuore nuovo (che non è un’opinione, è un dato oggettivo!), di un nuovo essere umano. Poi quell’essere umano (non fiore, non frutto, non bestia) cresce, ed anche da fuori ci si accorge che quella donna aspetta un bambino (che non è un modo di dire).
Da subito, in ogni caso, è «altro» da lei ed è «un altro» (o «un’altra») rispetto a lei.
«Materia grezza»??? Ravera, dia retta alla puntigliosa: scriva un po’ meno e legga un po’ di più. Orwell, magari.