“La vita è mia e ne sono padrona anche dopo morta”
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(Giovanni Testori, Don Luigi Giussani, Il senso della nascita)

Latinorum
“Essere padroni della vita anche dopo morti”. Questo aveva orgogliosamente detto nel 2003 a Maria Mantello, presidente dell’Associazione nazionale del libero pensiero “Giordano Bruno”, la giornalista e scrittrice Miriam Mafai, morta il 9 aprile, di cui la Mantello ora ricorda “l’importante battaglia per avere a Roma uno spazio per la celebrazione dei funerali laici”: il cimitero Acattolico (lettera maiuscola, anche se trattasi di aggettivo, obviously), dove saranno tumulate le sue ceneri.
Leggo e penso che son proprio bizzarre queste femministe atee, laicissime, comuniste di andata e anche di ritorno! Teoricamente, ideologicamente contro la proprietà privata, dalla culla alla tomba non le batte nessuno nel riempirsi la bocca dell’aggettivo possessivo e dei pronomi di prima persona: “Io sono mia!”, “L’utero è mio e me lo gestisco io!”, “La gravidanza è mia e decido io se portarla a termine oppure no!”, “La vita è mia e le dico ciao quando mi va!”…
Questa storia “la vita è mia e ne sono padrona anche dopo morta” francamente, però, mi depista. Mi pare il latinorum usato da don Abbondio per confondere Renzo. Sì, mi ci perdo, perché crea problemi proprio a livello logico, e così mi domando e dico: primo, la Mafai non ha chiesto di nascere e neanche di morire. E’ accaduto. Secondo: se uno/a per l’ideologia in cui crede ritiene di essere solo materia e nega (vade retro!) la Resurrezione e una qualsiasi possibilità di vita dopo la morte, come fa anche solo a pensare di essere, dopo morto/a, padrone della “vita” (che, dal punto di vista medico, termina – che vuol dire che “se ne va”, “non c’è più” – quando l’elettrocardiogramma e l’elettroencefalogramma risultano piatti)?
Bizzarri assai, questi intellettuali à la page! E come parlano difficile!
(Che se ne faranno, poi, di una “proprietà” del genere, dopo morti?! Boh!…)
Agilulfo, Gurdulù, Rambaldo: quando non si censurano le domande del cuore
Scrivo e, ascoltati i vivi e i neo-defunti di ora, penso con un po’ di nostalgia ad Italo Calvino. Ateo pure lui, di sinistra pure lui, non ha però mai smesso di cercare: mai ha censurato le domande più vere del cuore. Ecco i personaggi del suo romanzo Il cavaliere inesistente interrogarsi proprio sulla morte.
Agilulfo trascina un morto e pensa: “O morto, tu hai quello che io mai ebbi né avrò: questa carcassa. Ossia, non l’hai: tu sei questa carcassa, cioè quello che talvolta, nei momenti di malinconia, mi sorprendo a invidiare agli uomini esistenti. Bella roba! Posso ben dirmi privilegiato, io che posso farne senza e fare tutto. Tutto – si capisce – quel che mi sembra più importante; e molte cose riesco a farle meglio di chi esiste, senza i loro soliti difetti di grossolanità, approssimazione, incoerenza, puzzo. E’ vero che chi esiste ci mette sempre anche un qualcosa, una impronta particolare, che a me non riuscirà mai di dare. Ma se il loro segreto è qui, in questo sacco di trippe, grazie, ne faccio a meno. Questa valle di corpi nudi che si disgregano non mi fa più ribrezzo del carnaio del genere umano vivente”. |
Il senso di appartenenza: certezza di un destino buono, certezza di eternità.
C’è un volumetto straordinario, della collana I libri della speranza, che raccoglie un dialogo intensissimo tra Giovanni Testori e don Luigi Giussani e denuncia le aggressioni alla dignità e alla sacralità della vita umana che si compiono una volta perduta la consapevolezza della “filialità”. Si intitola “Il senso della nascita” ed è una conversazione sulla vita, la “sperdutezza” dell’atto d’amore totale tra un uomo e una donna, l’attesa, la nascita… Si parla del dolore e della croce, del Natale e della Passione, dei gemiti della storia, del malessere della nostra epoca, della memoria. Si racconta il desiderio struggente di Casa e il cammino di speranza che ogni uomo compie per ritornarvi. Ad attenderci non il nulla, ma un Padre buono da riabbracciare, abbracciati. Finalmente.
TESTORI: Il peccato originale non è propriamente questo non riconoscere d’essere voluti? |