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"E adesso vado al Max!"

Fonte:
CulturaCattolica.it
"Per me la vita è bellissima. Spero che anche per chi non ha avuto la mia esperienza di coma possa essere contento come lo sono io" (Massimiliano Tresoldi)

“Vivo perché qualcuno mi ama” c’era scritto sulla felpa di Max Tresoldi in visita al Santo Padre, come non credergli, in fondo è così per tutti, ma spesso non ne abbiamo la consapevolezza.

Max Tresoldi sta lì seduto su una sedia a rotelle a dirci ancora una volta che la nostra sapienza non sa nulla della vita, figurarsi della morte.
Stringe forte la mano di chi va a salutarlo, a complimentarsi con lui per la forza, per la tenacia con cui vive la sua quotidianità.

La storia di Max è la storia di tanti, un incidente stradale e un ragazzo appena ventenne che entra in coma, è il 15 agosto del 1991.

Per dieci lunghi anni attorno a lui si sono avvicendati, amici, volontari, medici, fisioterapisti, la famiglia capitanata da Lucrezia una madre indomita, testarda e caparbia, Ernesto un padre che un amico giornalista ha definito “come San Giuseppe” un uomo che pare stare sullo sfondo ma, rappresenta il sostegno fermo e certo di una donna che ha tutta l’aria di un vulcano in continua eruzione.

Tutti a lavorare per dieci anni senza aspettarsi e senza ottenere alcun risultato, un segno che potesse dare una speranza, un conforto a tanta fatica.

Poi, caso raro, scientificamente inspiegabile, un giorno Max è tornato indietro, è uscito da quello scafandro di non comunicabilità e ha dato un segno, un segno di croce che è stato il suo dire “eccomi”. E' iniziato così un cammino, una lotta, forse è più giusto dire un viaggio avventuroso, verso la ri-conquista di quelli che una volta erano gesti consueti, quotidiani.

Questa è la storia che Lucrezia Tresoldi con Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola coautori del libro, raccontano in: “E adesso vado al MAX!”.

Unica come tutte le storie di umanità vissuta, personale, perché non c’è un coma uguale a un altro, non c’è una famiglia uguale a un’altra.
La storia di Max ci insegna prima di tutto che la scienza non ha le risposte a tutte le nostre domande, se un “tronco di legno” come doveva essere Max, ha ripreso a scrivere, a parlare, a esprimersi se pur ancora a fatica.

La storia di Max e i suoi racconti dopo il risveglio ci insegnano che anche quando non riescono a comunicare queste persone "in coma" sono vive, sentono, ricordano. Certo, qualcuno dirà che non è uguale per tutti, e forse ha ragione, ma a me resta il dubbio di quanto abbia sentito, percepito, Eluana Englaro quando si è deciso di non alimentarla più sino a lasciarla morire.

La storia di Max grida che la vita c’è, che quella che il dott. Melazzini chiama INGUARIBILE VOGLIA DI VIVERE, va aiutata e sostenuta, custodita. Una società che si arrende, che riconosce come un diritto quello di morire e non sa rispondere al grido di chi vuole vivere è una società votata al suicidio.

Vanno sostenute le famiglie che credono che la cosa migliore sia il sostegno familiare a queste persone, e vanno sostenute le famiglie che scelgono altre strade per l'assistenza ai loro familiari.
Perché nessuno può giudicare o dire cosa sia meglio, di certo tutti devono sapere che la vita c’è e dove c’è vita c’è dignità e speranza.




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