Perché solo il Papa deve chiedere perdono? Francesco, i martiri francescani e l’islam
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Non si può analizzare la attuale situazione sul dialogo religioso tra Chiesa Cattolica e Islam se non si parte dalla storia. Tutti i tentativi di impostare il dialogo tra questi due mondi come se non ci fosse il passato, è come pulire il pavimento nascondendo la polvere sotto il tappeto: è inutile e dannoso per tutti e due, e per le sorti del mondo.
Purtroppo quando le fedi religiose si identificano con la politica degli Stati e con la gestione del potere economico, non è facile intraprendere un percorso virtuoso che possa portare al rispetto reciproco e alla convivenza pacifica.
Il recente incontro mondiale di Assisi tra i capi religiosi, voluto da Benedetto XVI, ha fatto segnare ancora una volta il coraggio della Chiesa Cattolica nel convocare le religioni a parlare della pace nel mondo. Cosa dovrebbero fare gli uomini di fede votati alla santità se non costruire la pace? Il Papa cattolico ancora una volta ha chiesto perdono per le violenze del passato perpetrate dagli uomini della Chiesa cattolica. Giustamente. Chiedere perdono, da un punto di vista pedagogico e psicologico, è sempre un’operazione vincente. Riconoscere i propri peccati fa parte della pedagogia della dottrina della Chiesa e del Vangelo.
Il Papa Benedetto XVI, però, doveva fare anche un’altra operazione culturale: invitare gli altri capi religiosi a chiedere perdono alla Chiesa cattolica per tutte le violenze attuate dai loro fedeli contro i fedeli della Chiesa cattolica e di tutte le altre confessioni religiose. SOLO E SOLTANTO quando tutti avranno il coraggio di domandare perdono reciprocamente si potrà avviare la conversione dei cuori, e da questa passare al rispetto e alla convivenza, diversamente questi incontri rimangono eventi giornalisticamente importanti ma poco utili per l’obiettivo finale, che è quello della pace nel mondo e della giustizia economica tra le nazioni.
Oggi è quanto mai urgente arrivare a questa consapevolezza. Purtroppo in un recente incontro romano tra i volontari che operano in Terra Santa e per la Terra Santa, si è avuta la percezione che fare presente ai musulmani e agli ebrei la necessità di percorrere la strada del perdono reciproco sia politicamente scorretto. È politicamente corretto e accettato solo se è la Chiesa cattolica a chiedere perdono, gli altri possono tranquillamente continuare a esercitare la violenza che più gli conviene contro i seguaci di Gesù Nazareno. Lo vediamo a Betlemme e nei territori palestinesi, lo vediamo in India, lo vediamo in Egitto, lo vediamo in Indonesia, lo vediamo in Iraq e in Libano. Di quanti martiri ha ancora bisogno la Chiesa cattolica per poter affermare nei riguardi di questi violenti che nessuna violenza ha mai portato alla pace?
I violenti non sono dei pazzi isolati, hanno sempre dietro di loro un potere religioso e politico che li spinge verso la violenza e che li protegge.
Ecco perché è quanto mai attuale ritornare a parlare della figura di Francesco di Assisi e della sua Regola. Come è stato scritto in precedenza in una mia relazione al XXI Congresso degli Amici di Terra Santa del Triveneto, Francesco non è mai stato un pacifista, come lo dipingono i miti politicamente corretti delle marce della pace che ad Assisi ogni anno raccolgono migliaia di persone: ecologisti, cattolici di varie sfumature, sindacalisti, politici dichiaratamente appartenenti alla nebulosa della sinistra marxista, e persone di orientamento politico che propongono la negazione dei famosi valori non negoziabili tanto cari alla dottrina di Benedetto XVI, come il diritto alla vita e il diritto alla famiglia come voluta da Dio Creatore.
Francesco è stato un uomo di pace ed è andato al seguito della quinta Crociata nel 1219 per convertire il Sultano Malek el Kamil, e per convincere i crociati a fermarsi di fronte all’inutile guerra. Francesco era andato dal Sultano consapevole che rischiava la vita, ma il suo obiettivo era più grande della sua stessa vita: portare la parola di Gesù, quella del Vangelo. Gesù ha insegnato il perdono e la misericordia e non la violenza contro gli uomini di altre religioni. Che Dio sarà mai quello che invita a uccidere i credenti di altre fedi? Quale paradiso può aspettarsi un omicida?
Ecco, a queste domande ancor oggi dobbiamo tentare di dare una risposta, e non c’è esperienza storica che ci possa aiutare meglio delle storie dei martiri francescani, assassinati dai seguaci del profeta Muhammad, a partire dai famosi cinque protomartiri del Marocco.
È necessario evidenziare con insistenza che Francesco era arso dal desiderio del martirio, lui voleva morire martire per Cristo, e questa sua aspirazione era maturata ancora nel 1211 quando era partito, per predicare il Vangelo nella Siria dei monaci stiliti, e dove i musulmani avevano come sommo impegno quello di uccidere chi avesse tentato di convertire al Vangelo qualche credente in Allah. Però la nave si incagliò sulle coste della Croazia.
Un’altra volta, ancora, il nostro Francesco aveva tentato di raggiungere la Terra di Gesù, inutilmente.
Nonostante i due insuccessi patiti, organizzato l’Ordine in province (1217), egli provvide a mandare missionari in tutte le principali nazioni d’Europa. Nel famoso Capitolo generale delle stuoie, celebrato alla Porziuncola, nella Pentecoste del 1219, diede licenza ai frati Ottone sacerdote, Berardo suddiacono, e ai conversi Vitale, Pietro, Accursio, Adiuto, di andare a predicare il Vangelo ai saraceni del Marocco, mentre egli si sarebbe recato con i crociati in Palestina per visitare i Luoghi santi e convertire gl’infedeli, pur ignorandone la lingua. È molto bello ricordare che per Francesco la Provincia di Oltremare, la Terra di Gesù e dei suoi apostoli, era considerata la Perla delle Province.
Dopo aver ricevuto la benedizione del santo fondatore, i sei missionari si diressero a piedi verso la Spagna. Giunti nel regno di Aragona, Vitale, superiore della spedizione, cadde malato, ma ciò non impedì agli altri cinque figli di S. Francesco di proseguire il loro cammino sotto la guida di Berardo. Dopo diverse peripezie e patimenti subiti dai musulmani di Spagna, riuscirono ad arrivare nella capitale del Marocco, dove iniziarono a predicare nelle piazze col crocifisso in mano. Il sultano del Marocco immediatamente li fece imprigionare e dopo violenze di ogni tipo e vista la loro determinazione a non abiurare la loro fede in Cristo Gesù, il sultano stesso tagliò loro la testa, lasciando i poveri corpi al ludibrio dei fanatici musulmani. Era il 16 gennaio 1220.
Don Pietro Fernando, Infante del re del Portogallo, che si trovava a Marrakech, fece costruire due casse d’argento di diversa grandezza. Si servì della più piccola per deporvi le teste, della più grande per deporvi i corpi degli uccisi in odio alla fede cattolica. Quando ritornò in Portogallo, egli portò con sé le preziose reliquie dei cinque protomartiri francescani e le depose nella chiesa di Santa Croce a Coimbra, dove sono ancora venerate. Fu in quella occasione che Ferdinando da Lisbona si sentì talmente acceso dall’amor di Dio che decise di abbandonare l’Ordine dei Canonici Regolari per abbracciare quello dei Frati Minori. Diventerà il grande sant’Antonio da Padova, il taumaturgo e teologo che tanto lustro darà all’Ordine di Francesco di Assisi.
Alla notizia del martirio dei cinque suoi figli, Frate Francesco, che si trovava al seguito della quinta Crociata, disse in un trasporto di riconoscenza verso Dio: "Ora posso dire che ho veramente cinque fratelli minori". Il Papa Sisto IV li canonizzò nel 1481.
Nessuno finora ha chiesto perdono, neanche ai frati Francescani, per questo massacro, regolarmente compiuto obbedendo ai canoni dell’Islam.
Pochi anni dopo, nel 1226, altri sette frati di Francesco decisero di andare in Marocco per portare la parola di Gesù a quelle popolazioni. Erano tutti provenienti dalla provincia calabra di Cosenza, guidati dal ministro provinciale Daniele Fasanella. Erano: Nicola Abenante e Leone Somma di Corigliano Calabro, Ugolino di Cerisano, Angelo Tancredi, Samuele Iannitelli e Donnulo Rinaldi di Castrovillari. Anche per loro la sorte era segnata. Erano andati per parlare di Gesù e furono decapitati a Ceuta (oggi enclave spagnola) sulle rive del Mediterraneo il 10 ottobre 1227. Papa Leone X ne approvò il culto tra i Santi il 22 gennaio 1516.
Nessuno finora ha chiesto perdono, neanche ai frati Francescani, per questo massacro, regolarmente compiuto obbedendo ai canoni dell’Islam.
Intanto i frati francescani si erano fermati nei pressi dei luoghi santi a Gerusalemme, proprio a seguito della visita che Francesco aveva fatto nella città dopo aver inutilmente tentato di convertire il sultano. I frati assistevano i pellegrini tra le mille difficoltà poste dai musulmani e vivevano testimoniando il Vangelo, sempre con il pericolo di venire ammazzati per la loro fede e le loro opere buone. Un evento importante si verifica nel 1333 quando i reali di Napoli acquistano dal sultano Mohammad al-Naser, sborsando una cifra enorme in monete d’oro, il Cenacolo sul monte Sion a Gerusalemme, dove, finalmente, i seguaci del santo di Assisi possono trovare lo spazio per le loro attività di carità e le loro funzioni. I reali di Napoli costruiscono nei pressi anche un convento per i frati e nel 1342 il Papa Clemente VI con la bolla "Gratias Agimus " istituisce formalmente la Custodia Francescana dei Luoghi Santi.
Le vicissitudini dei Francescani si snodano lungo i secoli con alterne fortune, secondo quale tribù musulmana era al potere. L’ombra del martirio era sempre presente a causa dell’odio che i musulmani hanno sempre portato per chi praticava il Vangelo di Gesù, dimostrando nei fatti quanto lontano fosse il Corano dalla costruzione della pace tra i popoli.
Infatti, un altro massacro venne perpetrato dagli islamici contro i frati di san Francesco, missionari a Gerusalemme.
Le loro storie personali di francescani missionari, s’intrecciarono nel 1383, quando provenienti da diversi luoghi d’Europa, confluirono nel convento francescano del Monte Sion in Gerusalemme, dove l’Ordine di S. Francesco è da secoli "Custode dei Luoghi Santi" del cristianesimo. I Frati Minori, Nicola Tavelic, Deodato Aribert da Ruticinio, Stefano da Cuneo e Pietro da Narbona, si ritrovarono nel suddetto convento francescano, dove per otto anni vissero secondo la Regola di san Francesco, lavorando nei compiti loro affidati, per la custodia dei Luoghi Santi della vita e morte di Gesù, e cercando di fare apostolato nel mondo musulmano, dove il Monte Sion era praticamente come un’isoletta in mezzo ad un mare di islamici. Con i musulmani, fare apostolato era praticamente infruttuoso, visto la radicalizzazione della loro fede, poco aperta al dialogo interreligioso. L’11 novembre 1391, si recarono davanti al Cadì (giudice) di Gerusalemme e alla presenza anche di molti musulmani, esposero leggendo, le confutazioni sul Corano con grande coraggio. Sebbene ascoltati attentamente, ciò non fu accettato dai presenti, andati alla fine in escandescenze e quindi furono invitati a ritirare quello che avevano detto; i quattro frati rifiutarono e pertanto vennero condannati a morte; per tre giorni furono rinchiusi in carcere dove subirono sevizie di ogni genere. Il 14 novembre ricondotti in piazza, fu di nuovo loro richiesto di ritrattare quanto detto contro l’Islam, al nuovo rifiuto vennero ammazzati, fatti a pezzi e bruciati; i musulmani fecero scomparire ogni resto, anche le ceneri, per evitare che fossero onorati dai cristiani. Passarono alla storia come i martiri francescani di Porta Giaffa e la Chiesa li proclamò santi, prima col papa Leone XIII nel 1889 e poi con il papa Paolo VI nel 1970.
Nessuno finora ha chiesto perdono neanche ai frati Francescani per questo massacro, regolarmente compiuto obbedendo ai canoni dell’Islam.
Nel corso dei secoli i Francescani di Terra Santa ebbero a subire massacri, vessazioni ed espulsioni, ma il loro amore per la terra di Gesù non venne mai meno. Nel luglio del 1860 essi affrontarono, a Damasco, una persecuzione molto sanguinosa da parte dei drusi musulmani, sostenuti dalle locali autorità turche.
A seguito degli accordi diplomatici tra Turchia e regni europei, i Turchi si erano impegnati a riconoscere le minoranze religiose e a rispettarne i diritti. Il sultano fu costretto a riconoscere la libertà di culto per qualsiasi comunità religiosa residente nel suo impero e ad ammettere ai pubblici uffici tutti i sudditi, senza distinzione di razza e di culto.
Per i musulmani quel gesto significò un oltraggio al Corano, perciò non si limitarono a protestare, ma invitarono tutti i correligionari a reagire contro la politica del Sultano. Tra le impervie montagne del Libano l’ostinata avversione dei drusi musulmani per i cristiani tutto poté osare, per scatenare l’ira dei nemici dei cristiani, nei primi mesi del 1860, bastò un lieve incidente tra due ragazzi, uno druso e l’altro maronita. I villaggi cristiani furono allora invasi e dati alle fiamme, ed i fanciulli, le donne ed i vecchi massacrati senza pietà.
Anche a Damasco, popolata da circa 150.000 abitanti, i drusi si scagliarono contro i cattolici.
La vigilia del 9 luglio 1860 si avvertì che stava per accadere qualche cosa di grave. Dalle moschee partivano parole incendiarie, e gruppi sospetti di drusi e di musulmani percorrevano le vie del quartiere cristiano cantando: "Oh, com’è dolce, oh, com’è soave massacrare i cristiani!".
Il superiore dei Francescani, P. Emmanuele Ruiz, non ebbe la preoccupazione di rifugiarsi nel palazzo dell’emiro, come avevano fatto gli altri religiosi, perché le mura del convento erano solidissime e le porte di accesso alla chiesa e al chiostro protette da grosse lamine di ferro. Il tentativo degli insorti di forzare l’ingresso era difatti fallito. Dietro il convento si apriva una porticina alla quale nessuno aveva pensato. Fu segnalata alla plebaglia da un ebreo traditore, domestico dei francescani e beneficato da loro, ed essa, dopo mezzanotte, irruppe urlando nel convento.
Il primo a cadere vittima dell’odio degli insorti fu proprio il P. Emmanuele Ruiz. Al momento della persecuzione la sua comunità era composta di sei padri e due coadiutori. Appena la folla esaltata aveva invaso il quartiere cristiano, il P. Ruiz radunò i religiosi in chiesa con i bambini della scuola parrocchiale ed alcuni fedeli, tra cui i tre fratelli Massabki, espose il SS. Sacramento e invitò tutti ad adorarlo. I padri si impartirono a vicenda l’assoluzione, si comunicarono e attesero fiduciosi gli eventi. Quando videro che i facinorosi erano penetrati in convento, il superiore corse in chiesa, consumò le sacre specie e si raccolse un attimo in preghiera. Qualcuno gli urlò in faccia: "Viva Maometto!... O tu, cane, abbracci la sua religione, o ti scanneremo". Il padre si alzò di scatto ed esclamò: "No, sono cristiano e voglio morire da cristiano!". Appoggiò lui stesso la testa sulla mensa dell’altare e poi disse agli assalitori: "Colpite".
La seconda vittima fu il P. Carmelo Volta, assassinato a colpi di mazza; la terza vittima fu il P. Engelberto Kolland, austriaco, uno degli assassini lo colpì con la scure alla testa gridando: "Abbandona la tua fede, e segui Maometto!". Il martire gli rispose con fierezza: "No, mai! sono cristiano e per di più sacerdote: potete uccidermi".
Gli altri tre sacerdoti francescani si trovavano a Damasco per studiare l’arabo. Il P. Nicànore Ascanio, quando i musulmani lo arrestarono gli proposero di farsi maomettano, ma egli intrepido rispose: "Sono cristiano! Uccidetemi!".
Il P. Pietro Soler, a Damasco, nella notte del tradimento, fu visto, da un terrazzo attiguo al convento, attraversare il cortile con due ragazzi e nascondersi dentro la scuola parrocchiale. Fu inseguito, ma all’intimazione di farsi maomettano rispose: "Non sarà mai che io commetta tale empietà: sono cristiano e preferisco morire". Fu prima colpito al collo con la scimitarra e quindi pugnalato.
Il P. Nicola Alberca, è il più giovane martire di Damasco. Ai musulmani che, la notte del 9 luglio, gli avevano puntato contro un’arma da fuoco in un corridoio del convento e, pena la morte, lo avevano esortato a farsi maomettano, aveva gridato loro in faccia: "Soffrirò mille volte la morte piuttosto di tradire il mio Signore!".
Tra i martiri francescani di Damasco figurano pure due fratelli laici, Fra Francesco Pinazo e Fra Giangiacomo Fernandez, spagnoli, entrambi furono raggiunti dagli assassini mentre salivano le scale del campanile.
Da un terrazzo vicino furono visti levare in alto le mani e lo sguardo, mentre i musulmani rompevano loro la spina dorsale a colpi di mazza. Dalla cella campanaria furono precipitati nel cortile sottostante. Fra Francesco morì all’istante, Fra Giangiacomo invece fu udito gemere fino a quando, sul far del giorno, un turco lo finì a colpi di scimitarra.
Con i Francescani furono pure massacrati tre fanciulli maroniti, Francesco, Abd-el-Mooti e Raffaele Massabki, rifugiatisi nel convento mentre i musulmani mettevano a ferro e a fuoco le case dei cristiani.
L’impressione prodotta in Europa dalla strage di 6.000 cristiani nel Libano e di 1.000 in Damasco fu tanto grande che Napoleone III, imperatore della Francia, avrebbe voluto correre in Siria, con una spedizione militare, per vendicare l’oltraggio inferto alla civiltà cristiana. Coloro che organizzarono le uccisioni o, pur potendolo, non le impedirono, come il governatore di Damasco Ahmed Pascià, furono o fucilati o impiccati. La Turchia s’impegnò a pagare una indennità per i danni subiti dai cristiani e a ricostruire il loro quartiere devastato.
I martiri furono beatificati da Pio XI il 10 ottobre 1926. Le loro reliquie sono venerate in Damasco nella chiesa dedicata a S. Paolo e officiata dai Francescani.
Nessuno finora ha chiesto perdono, neanche ai frati Francescani, per questi massacri, regolarmente compiuti obbedendo ai canoni dell’Islam.
Nel corso del XX secolo martiri italiani in terra musulmana hanno versato il sangue in sei paesi diversi: dalla Libia alla Turchia, dalla Siria alla Palestina. Sei di loro sono francescani e mi pare importante ricordarli alla conclusione di questa rassegna.
Il primo di questi martiri in ordine di tempo è Giustino Pacini, sacerdote francescano, superiore della missione di Derna, in Tripolitania (oggi Libia), ucciso a pugnalate – da sconosciuti – il 21 marzo 1908. Era in conflitto con le autorità della comunità musulmana locale, avendo fatto ricorso alle autorità consolari per la difesa della sua attività missionaria e avendo provocato un contro-ricorso a Costantinopoli da parte del governatore di Derna.
Altri due sacerdoti francescani dell’Ordine dei Frati Minori vengono uccisi a Muginkderesi, Turchia, il 23 gennaio 1920: sono Francesco De Vittorio, nato a Rutigliano (Bari), 37 anni e Salvatore Sabatini, nato a Pizzoli (L’Aquila), 25 anni. Vengono aggrediti in casa di un musulmano dal quale erano stati invitati a pranzo insieme a un gruppo di "orfanelli". L’uccisione è seguita dal massacro dei bambini e di altri cristiani. Alberto Nazzareno Amarisse, anche lui sacerdote dei Frati minori, nato a Cave (Roma), viene ucciso in chiesa con un gruppo di fedeli da nazionalisti musulmani, a Jenigekalè, in Turchia, probabilmente il 23 gennaio 1920.
Leopardo Bellocci sacerdote dei Frati minori, nato a Osimo (Ancona), 38 anni, missionario in Terrasanta, il 20 agosto 1920 prende il treno ad Aleppo per Gerusalemme e viene aggredito e ucciso, insieme ad altri viaggiatori.
Nessuno finora ha chiesto perdono, neanche ai frati Francescani, per questi massacri, regolarmente compiuti obbedendo ai canoni dell’Islam.
Troppo lunga e dolorosa è la storia dei martiri francescani in Cilicia e in Armenia durante le persecuzioni dei musulmani turchi nei tre pogrom dal 1895 al 1920, per essere raccontata in questa rassegna. Anche questi frati erano legati alla Custodia Francescana dei Luoghi santi, costruivano chiese, orfanatrofi e scuole di ottimo livello, gestivano anche farmacie nelle quali frati specialisti producevano medicine che distribuivano gratuitamente a tutti i bisognosi. In Turchia, oggi 2011, chi parla di questi fatti storici viene condannato al carcere.
E proprio in Turchia, il 3 giugno 2010, c’è stato l’ultimo martirio di un frate francescano, addirittura vescovo, mons. Luigi Padovese, assassinato in nome di Allah come è consuetudine tra i fanatici dell’Islam, con il rituale taglio della testa.
Mi sembra di una certa utilità nella costruzione delle basi culturali del dialogo tra le religioni e tra i popoli conoscere la storia e le cause di questi eventi drammatici. Solo chi ha il coraggio e la statura morale per farlo può chiedere perdono per le colpe commesse. Noi preghiamo Dio e la Madonna per la conversione dei cuori, non solo dei musulmani, ma anche di quei cristiani e di quei cattolici che pensando di poter progettare il futuro della convivenza sociale tra fedeli di religioni diverse, ritengono che il dialogo si possa costruire con i sorrisi, le feste inter-etniche e le pacche sulle spalle. Magari fosse vero e così semplice!
Secoli di esperienza pastorale e di saggezza dei mistici ci insegnano che prima di tutto esiste la reciprocità nella richiesta di perdono. A queste esperienze nel mondo religioso si sommano con grande evidenza le esperienze e gli studi scientifici della psicoterapia familiare, per la quale un nuovo rapporto si può costruire solo a condizione del riconoscimento reciproco delle proprie mancanze. Solo la Verità ci farà liberi!