DAT: Legge sì o legge no?
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1. Caro don Gabriele, nell’editoriale dal titolo DAT: una legge per un paese “anormale”? riporti le considerazioni di chi critica la proposta di legge, partendo non da una posizione di tutela assoluta del diritto di autodeterminazione che la legge non riconosce – ed è questa invece la critica maggiormente rivolta ad essa – bensì, partendo dalla posizione diametralmente opposta, di chi è preoccupato che l’approvazione di una disciplina, in detta materia, possa aprire le porte all’eutanasia (“se apro un foro in una diga, prima o poi la diga crolla”, Arcivescovo di Ravenna).
Posso assicurare che si tratta della medesima preoccupazione che mi muove a scrivere, anche se non mi pare che il problema, oggi come oggi, sia la legge. Tutt’altro.
Sono state prospettate, lo riconosco, “criticità” serie, non liquidabili in maniera semplicistica, che meritano approfondimento, perché sollevano problemi che stanno a cuore a tutti. Eppure, mi pare che vi sia come una prospettiva di analisi astratta, che non tiene conto della realtà attuale, come una sorta di processo alle intenzioni (si parla di ipocrisia), che non credo la legge meriti, o ancor più di processo a tutti gli scenari che si potrebbero configurare, che non penso possano essere riconducibili alla legge.
Il fatto è che – a mio modo di vedere, e vorrei solo mettere in comune delle argomentazioni – in queste critiche c’è come un errore di messa a fuoco, non si indirizza bene l’obiettivo, non si inquadra l’oggetto. Non è la legge che pone delle criticità. Queste criticità ci sono già – tutte – nel panorama giuridico oggi esistente, e la legge mi sembra che cerchi di porre dei paletti a protezione. In altre parole, non ritengo che sia la legge ad aprire il foro nella diga. Semmai è l’inverso. Il foro c’è già, e la legge tenta solo di tamponarlo.
Non voglio fare assolutamente una disamina del testo, che peraltro deve ancora essere discusso alla Camera. Né dire che dopo l’approvazione di quel testo “staremo tutti al sicuro” e non si porranno più questioni che avranno a che fare con ipotesi di eutanasia. Probabilmente vi sono alcune parti della legge che potranno essere interpretate, in via applicativa, in modo non conforme a quello che è il suo spirito informatore. La legge introduce ex novo istituti, ad esempio una regolamentazione precisa del consenso informato, oppure la possibilità di dichiarare anticipatamente i trattamenti sanitari a cui si vuole o no essere sottoposti in caso di incapacità, che sono una sorta di pedaggio al principio di autodeterminazione. Ma lo fa perché chiamata a regolamentare situazioni già riconosciute ormai definitivamente in sede giudiziale, ponendovi dei limiti a tutela della vita e delle salute (garanzie sull’espressione delle dichiarazioni anticipate; riferimento alla rinuncia a trattamenti sanitari di carattere sproporzionato o sperimentale; divieto di ogni forma di eutanasia e di assistenza o di aiuto al suicidio; divieto della rinuncia a sostegni vitali; non operatività in casi d’urgenza e non vincolatività delle dichiarazioni). In realtà, penso di non essere lontano dal vero dicendo che sono già pronti i ricorsi da mandare alla Consulta, per dichiararla incostituzionale in molte sue parti.
Premesso che in situazioni “normali” (e mi collego al titolo del tuo articolo), non avrebbe dovuto essere affatto necessaria una disciplina in materia, e premesso che ritengo una iattura la trasposizione di temi di bioetica in biodiritto, pur tuttavia, ritengo che nella fattispecie una legge in materia, come quella oggi in discussione, non fosse ormai più rinviabile.
Il problema non mi pare essere nella legge, perché non penso che con essa si peggiori la situazione già esistente, ma che con essa si tenti di migliorarla.
Da questo punto di vista, devo dire che non mi pare affatto calzante il parallelo che è stato anche fatto rispetto alla medesima ipocrisia che avrebbe caratterizzato anche la legge sull’aborto. In quel caso, nonostante la previa affermazione del diritto alla vita, la legge introdusse ex novo la pratica abortiva che era vietata da apposite norme di legge penali. In questo caso, invece, pur in presenza di norme di legge penali che le vietano, forme di eutanasia sono già state autorizzate per via giudiziale, cavalcando l’ormai affermato e operante diritto al rifiuto delle cure mediche, e la legge interviene per evitare che si ripetano episodi analoghi.
Ovviamente devo dar conto di queste affermazioni. Cosa che spero di fare.
2. Prima criticità. L’inutilità della legge.
Si dice che la legge non sarebbe necessaria, in quanto vi è stato sinora un solo caso di interruzione dell’idratazione e alimentazione, nonostante il via libera giudiziario. Va da sé che basterebbe anche solo l’urgenza di impedire che si ripeta un’altra volta quel singolo caso, a giustificare la legge.
Detto ciò, va sottolineato che non è così. Purtroppo non rileva una sola vicenda.
Per lo meno in altre due occasioni, i giudici (Tribunale di Modena e Tribunale di Firenze) hanno autorizzato l’amministratore di sostegno a negare, in nome e per conto del beneficiario, il consenso a praticare trattamenti sanitari (rianimazione, dialisi, emotrasfusioni, idratazione e alimentazione) in caso di perdita di coscienza dell’amministrato.
Si pensi poi alle tante dichiarazioni anticipate depositate presso i Comuni che – illegittimamente, come ho già avuto modo di precisare – hanno predisposto appositi servizi di raccolta di quelli che sono stati chiamati “testamenti biologici”. Ciascuno di essi contiene potenzialmente una richiesta eutanasica.
Ora, in assenza di una legge e nel quadro delineato dalla giurisprudenza, non pare dubbio che tutte queste istanze troverebbero adeguata risposta positiva in sede giudiziale, indipendentemente dalle modalità illegittime di raccolta delle dichiarazioni (per quanto riguarda gli elenchi comunali) o indipendentemente dall’abuso dei compiti spettanti alla persona autorizzata a manifestarle (con riguardo all’amministratore di sostegno).
Se infatti – in assenza di una legge – è stata ricostruita la “presunta volontà” del paziente incosciente all’interruzione di sostegni vitali, “tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche” (Cassazione 21748/2007), chi mai oserà sostenere – dopo ciò – che un “testamento” depositato presso la casa comunale (che dà certo ufficialità, anche burocratica, alla cosa) non sia espressione di una presunzione di volontà sufficiente ad obbligare chiunque al suo assoluto rispetto? Chi mai oserà dire che la volontà manifestata dall’amministratore di sostegno, si badi bene “nominato” appositamente dall’amministrato proprio al fine di esprimere detta volontà in caso di sua incapacità, non sia espressione di una reale volontà di quest’ultimo? Se basta la “ricostruzione della personalità”, o il riferimento ai pregressi “stili di vita”, per legittimare la richiesta di rinuncia a qualunque trattamento sanitario, o peggio a sostegni vitali, ritenendola vincolante per l’ordinamento giuridico, a maggior ragione sarà sufficiente in tal senso un atto depositato in comune o la dichiarazione di un amministratore espressamente nominato.
Anche quella giurisprudenza più cauta, che fa riferimento a un concetto di “volontà attuale” – e non presunta né preventiva – di rinuncia alle cure, ritenendo inefficace un dissenso preventivo rispetto all’informazione medico terapeutica, per esempio la sentenza che non ha ritenuto attendibile un cartellino con su scritto “niente sangue”, portato al collo da un Testimone di Geova, per evitare un’emotrasfusione necessaria per salvare la vita del paziente (Cassazione 23676/2008), pur tuttavia anch’essa afferma la legittimità di un’eventuale dichiarazione precedente allo stato di incoscienza, qualora sia inequivocabile e intervenga a seguito di adeguata informazione. Si cita dalla Cassazione più “moderata”: “con ciò non si vuole, peraltro, sostenere che, in tutti i casi in cui il paziente portatore di forti convinzioni etico-religiose (come è appunto il caso dei Testimoni di Geova) si trovi in stato di incoscienza, debba per ciò subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede. Ma è innegabile, in tal caso, l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocabilmente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”.
In sostanza, traducendo il linguaggio giuridico, è dichiarazione “attuale” anche quella che preceda lo stato di incoscienza, se la volontà di rinuncia ivi espressa risulti chiara, preceduta da adeguata informazione e riferibile a quel preciso evento non voluto anche a rischio della vita; oppure quella che venga confermata dall’apposito rappresentante nominato che confermi il dissenso, all’esito di una adeguata informazione da parte dei sanitari.
Questa è la situazione ad oggi esistente.
3. Seconda criticità. L’ipocrisia della legge.
Si dice che la legge va oltre quello che era l’obiettivo enunciato a parole, ossia impedire che quanto accaduto a Eluana si potesse ripetere in altri casi. Per questo obiettivo, sarebbe stata sufficiente un’unica disposizione, il divieto di sospendere alimentazione e idratazione in situazioni di coma persistente.
Tutto il resto, la disciplina sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, sarebbe un di più e rivelerebbe l’ipocrisia della legge, aprendo la strada all’introduzione dell’eutanasia nell’ordinamento giuridico.
In realtà, purtroppo non è affatto vero che la disposta interruzione di sostegni vitali sia una vicenda a sé stante, una forma di eutanasia introdotta per via giudiziale, del tutto scollegata ai principi a cui la giurisprudenza è giunta in materia di consenso informato e di dichiarazioni ex ante di rifiuto alle cure. Tutt’altro.
L’introduzione del principio giurisprudenziale che ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione e idratazione che sostenevano Eluana è tutto costruito proprio sul presupposto del diritto fondamentale all’autodeterminazione terapeutica, ossia del diritto costituzionale di rifiuto dei trattamenti sanitari, desunto dall’art. 32 Cost. sul diritto alla salute, come suo “risvolto negativo”, che – in quanto tale – implicherebbe anche il diritto di perdere la salute, di non curarsi, di lasciarsi morire. In sostanza, semplificando, così come il paziente cosciente e informato può rifiutare le cure e dissentire rispetto all’attivazione di trattamenti sanitari, anche a rischio della vita, allo stesso modo, per il principio di eguaglianza, chi si trova in una situazione di incoscienza (non solo chi è in coma) deve avere la medesima possibilità, mediante il rilascio di apposite dichiarazioni anticipate, oppure desumendo tale sua volontà dalla sua personalità o dalla sua vita pregressa.
Detto diritto arriverebbe sino al punto di interrompere trattamenti o sostegni salvavita già in atto, abbreviando di fatto la vita della persona e determinando forme di eutanasia.
Detto diritto sarebbe assoluto e obbligherebbe i medici e gli operatori sanitari a darvi attuazione.
Quindi, il presupposto dell’autorizzazione all’interruzione dei sostegni vitali, anche in caso di coma persistente, è il diritto alla salute inteso come diritto a negare il consenso alle cure e ad interromperle, anche sulla base di una volontà ricostruita ex post, e con effetti vincolanti per l’ordinamento giuridico.
Vietare l’interruzione del sostegno vitale, senza parallelamente regolamentare e limitare anche l’espressione del consenso o dissenso alle cure e la loro eventuale manifestazione anticipata, lascerebbe del tutto inalterata la possibilità attuale di ognuno di obbligare il medico, per via giudiziale, a interrompere un qualunque trattamento sanitario sulla base di dichiarazioni di ogni tipo o della ricostruzione di una volontà anche presunta.
4. L’affermato diritto all’autodeterminazione terapeutica.
Per cogliere appieno la questione è opportuno ripercorrere l’excursus giurisprudenziale.
Si parte dal diritto del paziente ad esprimere il proprio consenso ai trattamenti terapeutici che lo riguardano, dietro adeguata informazione da parte dei medici. Detto diritto contiene anche il diritto assoluto di rifiutare le cure, desunto dall’art. 32 Cost., come aspetto negativo del diritto alla salute, ossia a non essere curati, mediante manifestazione di apposito dissenso.
Si continua sostenendo che il diritto all’autodeterminazione terapeutica non incontra limiti neppure in ipotesi di pericolo di vita. Di fronte alla chiara volontà del paziente che manifesta dissenso rispetto a un trattamento salvavita, il medico si deve fermare. L’alleanza terapeutica tra paziente e medico cede il passo. Il medico alla fine diventa mero “spettatore” della scelta altrui.
Si cita dalla sentenza della Suprema Corte nella vicenda di Eluana: “in tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’alleanza terapeutica che tiene uniti il malato e il medico – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico e attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo”.
Già in questa premessa è contenuta la deriva eutanasica, qualora non intervengano degli argini a protezione.
Infatti, l’affermato diritto a negare il consenso, pur a rischio della propria vita, è stato esteso e ritenuto applicabile non solo rispetto alla non attivazione di cure specifiche, ma anche all’interruzione di trattamenti sanitari e di sostegni salvavita già attivati.
In questo caso il medico diventa non solo mero spettatore della scelta altrui ma addirittura suo “esecutore”, contribuisce in qualche modo ad attuarla.
Si pensi alla vicenda di Piergiorgio Welby, affetto da una patologia degenerativa che lo obbligava a vivere per mezzo di un respiratore automatico. Egli aveva chiesto che si procedesse al distacco del ventilatore. L’autorizzazione era stata negata, configurando, l’ipotesi, un intervento attivo e diretto del medico teso ad abbreviare la vita del richiedente e quindi una forma di eutanasia. Ma il medico che aveva poi proceduto in assenza di autorizzazione al distacco del ventilatore causando la morte di Welby non è stato ritenuto responsabile, né disciplinarmente né penalmente. Il procedimento disciplinare a suo carico è stato archiviato dall’ordine dei medici. Il giudice penale ha dichiarato non luogo a procedere del medico, perché non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere, ex art. 51 c.p. (il dovere – presumo – sarebbe quello di aver ottemperato al dissenso al trattamento espresso dal paziente).
Infine, l’affermato diritto a negare il consenso ha già trovato applicazione anche quando l’interessato si trovi nell’impossibilità materiale di rilasciare detto consenso. Basterebbe, in tal senso, una sua precedente dichiarazione inequivocabile e informata (lo si è visto sopra), oppure la ricostruzione della sua volontà presunta, arrivandosi così ad affermare che: “il giudice può autorizzare il tutore di una persona interdetta, giacente in persistente stato vegetativo, ad interrompere i trattamenti sanitari che la tengono artificialmente in vita, ivi compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiale a mezzo sondino, sempre che: a) la condizione di stato vegetativo sia accertata come irreversibile, secondo riconosciuti parametri scientifici, b) l’istanza sia espressiva della volontà del paziente, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dai suoi convincimenti” (Cassazione 21748/2007).
Si pensi a quale effetto dirompente detta conclusione potrebbe avere in due direzioni.
La prima, è relativa ai trattamenti o ai sostegni vitali da interrompersi: non vi sarebbero limiti di sorta, davanti a una precedente volontà del dichiarante, anche con riguardo a trattamenti del tutto utili e proporzionati.
La seconda, è relativa all’intervento dei medici in stato di necessità per salvare una vita umana: se un eventuale dissenso al trattamento apprestato fosse vincolante e soprattutto se la volontà del dissenso potesse desumersi da precedenti dichiarazioni, ne risulterebbe del tutto pregiudicata la tempestività e l’efficacia dell’azione d’urgenza.
In questa conclusione, allora, non vi è solo il problema dell’interruzione di alimentazione e idratazione, considerate come trattamenti sanitari e non come sostegni vitali, e quindi ricomprese arbitrariamente tra le ipotesi di rifiuto delle cure. Vi è anche il problema della stessa possibilità di rifiutare le cure, e di rifiutarle mediante interruzione di un trattamento o, addirittura, di un sostegno salvavita già in atto. Vi è anche il problema della possibilità di desumere la volontà della persona in coma dalle sue precedenti dichiarazioni.
In sostanza, una sola disposizione che vieti di sospendere alimentazione e idratazione in situazioni di coma persistente, sottraendole alla disciplina del rifiuto delle cure, non esaurirebbe affatto i problemi. Si eviterebbe probabilmente un altro caso come quello di Eluana, ma non si eviterebbe che ciascuno possa già ora chiedere e ottenere di interrompere trattamenti e sostegni salvavita, anche proporzionati e non costituenti accanimento terapeutico; né che ciascuno possa rilasciare apposite dichiarazioni con le quali disporre anticipatamente, per un eventuale futuro stato di incoscienza – che non è detto sia solo l’ipotesi di coma persistente – la non attivazione o l’interruzione di un qualunque trattamento sanitario salvavita, in modo vincolante per il medico e per l’intero ordinamento giuridico, anche in situazioni di urgenza.
Sarebbe comunque il primo passo per la legittimazione di veri e propri testamenti biologici, coi quali ciascuno potrebbe dare disposizioni per il proprio fine vita, vincolanti per tutti.
5. Terza criticità. Meglio senza legge.
Si dice che una legge comporterebbe lo scivolamento dell’ordinamento verso forme di eutanasia e che sarebbe meglio stare senza.
Sorprendentemente, rilevo che una tale ipotesi è prospettata, negli stessi termini, anche da coloro che contrastano la legge chiedendo il riconoscimento di un’autodeterminazione assoluta da parte del paziente, in modo che l’ordinamento giuridico rispetti sempre e comunque la volontà di ciascuno sul dove, come e quando morire. Ossia da coloro che propongono il cosiddetto “testamento biologico”. “Piuttosto che una legge come questa, meglio senza” dicono entrambi.
Il fatto lascia pensare. Se chi vuole l’eutanasia preferisce stare senza legge, e chi la paventa vuole stare anch’esso senza legge, evidentemente qualcuno sbaglia valutazione. E non so se siano i primi.
Il fatto è che lo scivolamento verso forme di eutanasia sempre più evidenti è già ora in atto nell’ordinamento giuridico e lasciando così le cose la deriva non è lontana.
Può apparire strano che la legittimazione di quelli che vengono chiamati i nuovi “diritti civili” possa imporsi all’ordinamento giuridico senza un intervento del legislatore, quasi per forza propria. A ben vedere la caratteristica autocreativa e autoimpositiva di questi nuovi diritti pare collegata al principio secondo il quale tutto ciò che è possibile materialmente fare è anche lecito e garantito dall’ordinamento giuridico come diritto di libertà, salvo ciò che non venga espressamente vietato.
E’ anche per questo che pare necessaria una legge che tenti di contenerne i danni.
Riassumiamo la giurisprudenza sulle dichiarazioni anticipate in assenza di legge..
a) In assenza di legge, qualunque dichiarazione, anche precedente allo stato di incoscienza, rilasciata dall’interessato, o da idoneo rappresentante appositamente nominato, dalla quale emerga la volontà “inequivocabile e informata” di rinunciare a un qualsiasi determinato trattamento sanitario pur comportando ciò pericolo di vita (come la rinuncia a emotrasfusioni), o addirittura una volontà di rinuncia “desumibile dalla sua personalità, dal suo stile di vita o dai suoi convincimenti”, anche rispetto all’interruzione di sostegni vitali (in caso di coma persistente), deve – già ora – essere presa in considerazione e vincolare il medico, secondo le odierne conclusioni dei giudici.
b) Si consideri che – ora come ora – non vi sono limiti al contenuto di dette dichiarazioni anticipate o presunte. Esse possono riguardare la rinuncia all’attivazione di trattamenti o sostegni salvavita; ma anche la richiesta di interruzione degli stessi, con conseguente accompagnamento del paziente “al suo inesorabile exitus” (così si è espresso il TAR Lombardia), come accaduto, per esempio nelle vicende di Welby, in presenza di un dissenso manifestamente espresso, o di Eluana, in presenza di una situazione di stato vegetativo persistente e di una ricostruzione della sua volontà solo presunta. Ciò che importa non è in quale direzione si determini la volontà del dichiarante o a cosa esso rinunci, bensì la ricostruzione di detta volontà. Una volta accertato un valido dissenso, non vi è più spazio per disattenderlo, rappresentando esso l’espressione di un diritto assoluto di autodeterminazione sanitaria, “sotto il triplice e tutelato profilo di accettare la terapia, di rifiutarla, di interromperla” (Tribunale Modena 16 settembre 2008). Non ci si preoccupa di considerare tra i trattamenti sanitari anche i sostegni vitali. Non ci si preoccupa di parificare le situazioni di non attivazione di una terapia rinunciata, che non implica alcun intervento sanitario, dall’interruzione di una terapia già in essere, che implica un facere specifico del medico. Non ci si preoccupa che si possano interrompere trattamenti utili e proporzionati. Non ci si preoccupa di quali requisiti debba avere una dichiarazione per essere presa in considerazione (è sufficiente il riferimento alla “personalità” dell’interessato). Non ci si preoccupa del comportamento che viene richiesto al medico. Tutto copre – nelle sentenze sopra citate – l’autodeterminazione terapeutica.
c) Si consideri che – ora come ora – le suddette dichiarazioni attuali o presunte valgono anche in ipotesi in cui i medici si trovino a operare in via d’urgenza e di fronte alla necessità di salvare una vita. Quali conseguenze avrebbe attualmente il classico salvataggio in extremis che avvenga per mezzo di trattamenti sanitari o di sostegni vitali che siano stati in precedenza dissentiti dall’interessato con dichiarazioni inequivocabili e informate, oppure che costituiscano l’oggetto della volontà rilasciata a un rappresentante a tal scopo nominato? Se le dichiarazioni sono certe, informate e relative a quella precisa situazione comportante pericolo di vita, come sopra visto, anche la giurisprudenza più moderata, ritiene che debbano essere prese in considerazione, e che impediscano al medico di agire pur nella necessità di salvare una vita umana. Solo le espressioni di dissenso “che con una valutazione altamente probabilistica non devono più considerarsi operanti in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello del paziente” sono recessive rispetto alla necessità di agire in via d’urgenza (Cassazione 4211/2007). In ogni caso, è indubbio che – ora come ora – vi sia quanto meno grande incertezza in merito all’operatività d’urgenza del medico in relazione a dichiarazioni siffatte, che sarebbero ogni volta da valutare in base alla loro idoneità ad impedire l’intervento, in assoluto pregiudizio della situazione di pericolo di vita.
d) Si consideri anche che – ora come ora – dette dichiarazioni anticipate o presunte sono oggetto di un diritto di autodeterminazione assoluto, che si impone e vincola tutti gli operatori sanitari, le istituzioni e l’ordinamento giuridico. Una volta accertate, esse costituiscono espressione di un diritto di autodeterminazione che prevale sul diritto alla salute e alla vita e che si impongono all’ordinamento giuridico.
Esiste un “principio di indubbia rilevanza costituzionale che emerge, tra l’altro, tanto dal codice di deontologia medica quanto dal documento 20 giugno 1992 del comitato nazionale per la bioetica, in forza del quale va riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita… essendo in tal caso il medico obbligato alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico… il medico deve fermarsi” (Cassazione 23676/2008).
Ecco come la giurisprudenza ricostruisce l’attuale situazione, dopo gli ultimi interventi dalla Cassazione: “la soluzione tra le due opposte correnti di pensiero condivisa da ultimo dalla Corte di Cassazione con le recenti sentenze 21748/2007 e 23676/2008, è nel senso che, di fronte al rifiuto di cure, c’è spazio nel quadro dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente per un’azione di persuasione e c’è il dovere da parte del medico di verificare le ragioni profonde del rifiuto e la possibilità di superarle, ma non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi e di vivere come principio di ordine pubblico. E’ questo per la Corte il risvolto negativo dei diritti alla salute e alla libertà che, in quanto tali, implicano anche il diritto di perdere la salute, di non curarsi, di lasciarsi morire. E ciò perché il conflitto fra due beni entrambi costituzionalmente tutelati, della salute e della libertà di coscienza, non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, avendo ogni individuo il diritto di scegliere e non potendo alcuna autorità statuale, legislativa, amministrativa, giudiziaria imporre trattamenti sanitari individuali al di fuori dei casi consentiti dalla legge” (Tribunale di Milano, 14883/2008).
La vincolatività per il medico si estende anche all’interruzione delle cure: “è precluso al medico di eseguire trattamenti sanitari se non acquisisca dal paziente un consenso libero e informato, che è presupposto espressivo del suo diritto primario di accettazione, rifiuto e interruzione della terapia, fino al rischio stesso della vita… con la conseguenza che si rivela legittimo il rifiuto o la richiesta di interruzione di un trattamento salvifico da parte della persona nel pieno possesso delle proprie capacità” (Tribunale Firenze, 22 dicembre 2010);
Del resto, anche il dibattito in sede penale sulle conseguenze dell’operatività medica in assenza di esplicito consenso del paziente, è sintomatico sulla vincolatività del dissenso, in assenza di legge. Esso, infatti, si sviluppa tra chi afferma che la mancanza del consenso informato del paziente determina sempre l’arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale; e chi invece ritiene che solo un esplicito dissenso vincoli il medico. Le Sezioni Unite hanno risolto il conflitto, stabilendo che “ferma la sicura illiceità anche penale della condotta del medico che abbia operato contro la volontà del paziente direttamente o indirettamente manifestata”, solo in caso di mera mancanza di consenso l’intervento del medico non integra reati “se si sia concluso con esito fausto” (Cassazione penale 2437/2008).
Dunque, un valido dissenso espressamente manifestato vincola il medico, che commette reato se opera contro quella volontà. Vero è che la giurisprudenza penale, a differenza di quella civile, nell’affermare il suddetto principio, non si è pronunciata in merito a un dissenso che metta a rischio la vita del dichiarante; ma ha affermato chiaramente la vincolatività del dissenso espresso.
Anche sotto l’aspetto penale, quindi, può legittimamente chiedersi come verranno valutate quelle dichiarazioni espresse, o desunte in sede giudiziale, o riferite dall’amministratore di sostegno, che manifestano una volontà di rinuncia a trattamenti o sostegni salvavita. Dai presupposti di partenza non pare dubitabile che possano rientrare in quei dissensi espressi che vincolano il medico e determinano illecito anche penale.
Questo è il quadro oggi vigente.
Pur nella condivisa inopportunità di una regolamentazione legislativa della materia, l’attuale situazione – in assenza di legge – mi pare rappresenti un’autostrada verso l’eutanasia (altro che un buco nella diga). La legge mi pare cerchi di limitare i danni. Eventuali aperture eutanasiche non sarebbero a mio avviso ascrivibili alla legge, bensì ai principi giurisprudenziali, peraltro affermati con riferimento alla carta costituzionale, che rappresentano lo “stato dell’arte” ad oggi vigente nell’ordinamento giuridico.
6. I principi affermati nella legge.
Si vede bene allora che, in considerazione dell’illustrato quadro giuridico a oggi esistente, appare più garantista una legge che – come la presente – oltre a vietare la sospensione di sostegni vitali (attuale art. 3, comma 5), regolamenta il rilascio del consenso informato all’attivazione o non attivazione (e non all’interruzione) di trattamenti sanitari, e contestualmente “vieta ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 del codice penale ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica nonché di assistenza alle persone esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza” (attuale art. 1, lett. c).
In tal modo, la legge collega la disciplina del consenso informato, quando il dissenso comporti pericolo di vita, alle disposizioni penali che vietano interventi attivi di chiunque “nell’agevolare in qualsiasi modo l’esecuzione” di un proposito di suicidio (art. 580 c.p.) o nel “cagionare la morte di un uomo, col consenso di lui” (art. 579 c.c.), vietando comunque interruzione di trattamenti o di sostegni vitali comportanti pericolo di vita. Come si vede, qui la legge tenta di arginare la giurisprudenza per la quale la disciplina del consenso informato e del dissenso alle cure sarebbe autonoma rispetto alle norme penali, rappresentando espressione di un mero “lasciarsi morire” e di un’autodeterminazione terapeutica assolutamente vincolante per il medico, tale da costituire un dovere scriminante (cfr. sopra, punto b).
La legge specifica poi espressamente che il consenso informato “non è richiesto quando la vita della persona incapace di intendere o di volere sia in pericolo per il verificarsi di un evento acuto” (attuale art. 2, comma 9); né, in tali casi sono efficaci eventuali dichiarazioni anticipate che fossero state rilasciate (attuale art. 4, comma 6). Tale disposizione è volta a contrastare il pregiudizio al soccorso d’urgenza del medico che determina invece attualmente la giurisprudenza sopra segnalata (cfr. sopra, punto c).
Dunque, regolamentando il consenso informato, e le dichiarazioni anticipate di trattamento, la legge impedisce che il rifiuto delle cure possa essere espresso con qualunque tipologia dichiarativa precedente o con manifestazioni di volontà presunte, come ora ammette la giurisprudenza (cfr. sopra, punto a).
Con riguardo alle dichiarazioni anticipate di trattamento, la legge limita il contenuto di dette dichiarazioni all’attivazione o non attivazione (e non all’interruzione) di particolari trattamenti sanitari “in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale” (attuale art. 3, comma 3); vieta che in dette dichiarazioni possano inserirsi “indicazioni che integrino ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio” (attuali art. 1, comma 1, lett. c; art. 3, comma 4); stabilisce in ogni caso la loro non vincolatività per il medico, il quale “non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica” e deve invece valutare le volontà ivi espresse “in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell’inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo principi di precauzione, proporzionalità e prudenza” (attuale art. 7, comma 2).
Quest’ultimo è il punto più qualificante rispetto alle ben diverse conclusioni della giurisprudenza (cfr. sopra, punto d)
In assenza di legge opererebbe il quadro delineato dalla giurisprudenza senza neppure i limiti e le garanzie della legge.
7. Conclusioni.
Resta un’ulteriore, più radicale ipotesi. Certo, si sarebbe potuto, per via legislativa, sconfessare completamente e drasticamente tutta l’impostazione giurisprudenziale, peraltro ormai consolidata e ancorata a livello costituzionale, del diritto al rifiuto delle cure mediche. Si sarebbe potuto disporre semplicemente il mero divieto di rifiutare dette cure quando ciò comporti il rischio della vita del paziente. Si sarebbe potuto disporre il mero divieto di rilasciare dichiarazioni anticipate di trattamento per l’ipotesi di futura incapacità, disponendone la relativa inefficacia.
Per la verità, rilevo che una tale ipotesi non è prospettata neppure da coloro che contrastano la legge e che sono preoccupati delle possibili sue derive eutanasiche (per i quali è meglio senza legge).
Comunque, credo che una tale affermazione, per legge, non avrebbe mai potuto trovare accoglimento presso l’odierno ordinamento giuridico; né avrebbe potuto trovare accoglimento neppure presso i medici, il cui codice deontologico già prescrive che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente” e che il consenso deve essere “espresso in forma scritta” e afferma che “in ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.
D’altra parte, il principio del diritto a rinunciare alle cure mediche viene agganciato direttamente all’art. 32 Cost. e al diritto fondamentale alla salute.
Difficile, quindi, per questa via, negare l’esistenza di detto diritto, anche in caso di pericolo di vita.
Più aderente alla realtà attuale pare essere l’attenzione a che la disciplina del consenso informato si limiti al dissenso all’attivazione di trattamenti sanitari e non arrivi ad interessare ipotesi di interruzione di trattamenti che richiederebbero un intervento sanitario dall’esterno.
A tal proposito, sarebbe meglio precisare – al posto di “ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito ed attuale del paziente” – che “non si può procedere all’attivazione di un trattamento sanitario per il quale non sia stato esplicitamente prestato consenso informato dal paziente”.
Sarebbe meglio anche precisare chiaramente che non si può comunque procedere a interruzione di trattamenti sanitari già attivati (d’altra parte la legge, nella sua formulazione attuale, non contiene una esplicita definizione di eutanasia).
Sarebbe meglio chiarire che la revoca del consenso, che è sempre possibile, riguarda pur sempre il caso che l’attivazione del trattamento non sia ancora cominciata, per evitare che la revoca possa essere interpretata come interruzione del trattamento.
Per quanto riguarda le dichiarazioni anticipate pare apprezzabile l’attenzione che la legge pone a quelle ipotesi in cui trattamenti sanitari e sostegni vitali non sono rinunciabili; ipotesi da valutarsi concretamente e in ragione di un’alleanza terapeutica tra medico e paziente.
Difatti, le posizioni che si possono assumere davanti a dichiarazioni rilasciate in caso di patologie che facciano perdere l’autodeterminazione, sono di due tipi: a) esse possono riguardare il rifiuto di terapie “sproporzionate o sperimentali” (accanimento terapeutico); b) oppure possono avere a oggetto il rifiuto di qualunque trattamento, anche di terapie proporzionate ed efficaci, o di sostentamenti vitali di base; in questo secondo caso, aprendosi al riconoscimento di ipotesi di eutanasia.
Rispetto al testo licenziato dal Senato, ho notato che la proposta in discussione alla Camera ha aggiunto un “anche” ai trattamenti di carattere sproporzionato o sperimentale che possono essere rinunciati. Ciò lascerebbe intendere che le dichiarazioni anticipate potrebbero contenere anche rinuncia a trattamenti proporzionati. Sarebbe quindi meglio tornare al testo precedente.
Si potrebbe obiettare che la legge dispone già il divieto del medico, “in casi di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente”, di “astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura”. Dunque potrebbe ritenersi che sia una ripetizione limitare le dichiarazioni anticipate alla rinuncia ai soli trattamenti sproporzionati.
In realtà, non può esistere una precisa elencazione di quali trattamenti rientrino nella fattispecie dell’accanimento terapeutico, anche perché in questa valutazione incide, per esempio, la situazione concreta del paziente (per cui, in caso di malattia terminale, alcuni interventi di cura e di sostegno possono risultare forme di accanimento terapeutico; in altri casi, come una situazione di disabilità grave o di coma, sono invece cure e sostegni del tutto proporzionati). Quindi pare adeguata la legge che voglia distinguere tra trattamenti rinunciabili perché sproporzionati e costituenti accanimento terapeutico e quelli non rinunciabili. E pare adeguata la legge che lascia detto compito all’alleanza terapeutica medico/paziente, senza rendere il medico mero esecutore delle volontà del paziente.
Un’ultima considerazione.
Mi ha stupito che il consiglio dell’ordine dei medici milanese si sia pronunciato all’unanimità in senso contrario alla proposta di legge, considerando disumanizzante regolamentare per via legislativa il rapporto medico/paziente.
Spero che il medesimo consiglio si sia espresso in tal modo, all’unanimità, anche rispetto alle sentenze che da ultimo si sono pronunciate in merito al medesimo rapporto, di fatto alterandolo profondamente.
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