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Le ragioni della fede, Asia Bibi e la croce

Fonte:
CulturaCattolica.it

“L’evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa. Le verità stesse che pur si trovano senza la sua scorta non mi sembrano intere, fondate, indiscusse, se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua dottrina”. Così scrive Alessandro Manzoni in una lettera. La ragionevolezza del cristianesimo, cui aderì con la conversione, è dichiarata apertamente. Anche se si volesse affrontare un discorso sui valori a prescindere dalla fede cattolica, come si è preteso e si pretende, essa si impone nella sua evidenza, al punto che gli stessi valori, le verità conquistate, senza quest’ancora solida e resistente al tempo, possono essere messi in discussione, non son più fondati, inattaccabili. Lo vediamo bene se consideriamo il principio dell’inviolabilità della vita, sottoposto a interpretazioni riduttive e ideologiche che ne limitano l’estensione a condizioni di accettabilità, distinguendo tra vita degna e vita indegna. L’evidenza è propria dell’essere e della verità, non ha bisogno della dimostrazione. Il relativismo ha introdotto la necessità di dover dimostrare le evidenze più certe. “Se Dio non esiste, io sono ancora capitano?”, chiede un personaggio di Dostoevskji. Escludere Dio è come pensare di navigare senza bussola. In effetti è così, a giudicare dalla confusione dominante, per cui anche le stesse parole sono usate per dimostrare una tesi e il suo contrario. È evidente che il dialogo sociale necessiti “di un vocabolario comune e condiviso, i cui termini fondamentali non vengano usati in maniera e con significati deliberatamente ambigui o equivoci” (da Communio, settembre 2010). Solo uno sguardo capace di legare avvenimenti apparentemente distanti, solo una forma di conoscenza in grado di illuminare le questioni cruciali dell’esistenza, può reggere il peso delle contraddizioni del nostro tormentato presente. Un presente in cui il male fa molto rumore e sembra essere condiviso da molti perché ha voce più potente, ma in realtà è destinato a passare, come pula che il vento disperde. Questo sguardo lo porta la fede. Asia Bibi, la donna pakistana condannata per blasfemia; le lacrime dei cristiani in Irak; la lotta quotidiana e silenziosa di chi afferma nella sofferenza del corpo l’attaccamento alla vita: cosa accomuna queste notizie a cui i maggiori quotidiani riservano uno spazio marginale? Eppure tutti i giorni, nell’oriente cristiano, muoiono persone uccise da terroristi. Gli ultimi due a Mosul, freddati nella loro officina. Non interessano alla mentalità del relativismo nichilista le testimonianze di chi rischia la vita a causa della propria fede. È una testimonianza assordante per chi non si vuole implicare in un ideale, nella ricerca del Vero, compito supremo di ogni uomo. E la malattia, il dolore sono una testimonianza ideale. Accettarli e abbracciarli oggi è un atto eroico. “Nel Vangelo si vede che tutti chiedono a Gesù di scendere dalla croce. Lo deridono, ma è anche un modo per discolparsi, come dire: non è colpa nostra se tu sei lì; è solo colpa tua, perché se fossi veramente Figlio di Dio, tu non staresti lì. Il dramma che si svolge sotto la croce di Gesù è universale”*. È il dramma dell’Amore e di chi sale con lui per amore sulla croce.

(*Benedetto XVI, omelia durante la cerimonia di consegna dell’anello)

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