Terroni del nord
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Su il Giornale, in questi ultimi giorni stanno pubblicando un’inchiesta sul nord-est.
Ammetto che come non accadeva da qualche tempo, la mattina vado alla cassetta delle lettere per prendere il giornale e leggere il seguito della discussione, forse è la sindrome da fratello povero, da figlio dimenticato, chissà?
Nata in Brianza, in realtà sono figlia di “terroni del nord”, i veneti che negli anni sessanta hanno “invaso” la Lombardia erano chiamati così e guardati con diffidenza, perché erano tanti, rumorosi, parlavano solo dialetto.
Ben presto però i lombardi si accorsero che erano anche dei lavoratori instancabili, legati alla tradizione del lavoro come modo per un riscatto sociale, infaticabili, hanno iniziato a guardarli con meno diffidenza, spesso a stimarli, come inevitabilmente capita i giovani hanno iniziato a sposarsi tra loro, è stato l’inizio di una vera integrazione e forse, anche della fine di una identità.
Dura a morire, la cadenza veneta è riconoscibile nella parlata anche di chi sta a Milano da più di mezzo secolo, ma spesso i veneti hanno fatto di tutto per “amalgamarsi” per confondersi, per sembrare meno “diversi”, facendo spesso anche gravi danni alla memoria di un passato che non è stato poi sostituito.
Purtroppo, manca tutta una letteratura che racconti quelle storie affascinanti che raccontano un pezzo di storia del paese.
Storie di gente che pagava per dormire con la testa poggiata sul tavolo, nelle cucine di famiglie locali o per passare la notte nel pollaio a riparo dalla bruma.
Tutto questo però durava poco, perché i “terroni del nord” lavoravano sei giorni la settimana, qualche volta anche la domenica e con i primi risparmi, con i soldi della vendita di qualche pezzo di terra al paese comperavano un pezzetto di terreno alla periferia delle grandi città e la sera e il resto del tempo libero dal lavoro lo occupavano a costruirsi la casa.
Il terrone del nord ha l'amore per la proprietà provata inscritto nei cromosomi.
La sabbia la ricavavano da scavi che facevano sul terreno stesso, il cemento veniva usato con parsimonia, ma le case venivano su come funghi, spesso brutte, squadrate, come le case di chi deve badare alla sostanza più che all’apparenza.
Lavoravano nelle grandi industrie alla SNIA di Varedo, alla Breda, alla Falk, alla Magneti Marelli, di Sesto San Giovanni, ma anche nelle imprese edili, al lavoro in bicicletta o in tram, con la schiscetta, e quel sorriso e quell’ironia che ai milanesi mancava.
La sera d’estate si trovavano nei cortili a ballare il liscio, ad amoreggiare con le ragazze e a consolarsi, convinti d’aver lasciato a casa la miseria e che le cose potevano solo migliorare.
La via dove mio padre costruì casa alla periferia di un paese che stava a sua volta all’estrema periferia di Milano, era una via sterrata, con un solo lampione, quando si trattò di scegliere un nome da dare a quella via la chiamarono - via Padova - perché tutti coloro che vi abitavano venivano da paesi in provincia di Padova, faceva eccezione mia madre, che per qualche chilometro abitava in provincia di Venezia.
Quando i terroni del nord tornavano al paese, si guardavano intorno e quella povertà che stava sotto ai loro occhi, li consolava di quella nostalgia che non ammettevano nemmeno a loro stessi.
Appena acquistata un'utilitaria percorrevano la A4 per andare a metterla in mostra da chi ancora andava in bicicletta, e l'invidia anche buona negli occhi dei bambini che giravano intorno a quell'auto simbolo, pareva appagarli.
Ogni volta, durante il viaggio di ritorno verso Milano, mio padre pronunciava la fatidica frase – i xe indrio de sinquantanni” (sono arretrati di cinquant’anni) si riferiva al fatto che le case non avevano il bagno, erano riscaldate dalle stufe, pochissimi possedevano un'auto, e l’urbanistica era ancora molto arretrata.
Però di una cosa non teneva conto mio padre, che quelli rimasti erano fatti della stessa pasta di quelli partiti, uomini e donne che non si lasciavano spaventare dalla fatica.
Quelli che se ne erano andati in un certo senso avevano fatto la fortuna di coloro che erano restati, che avevano tenuto duro, continuando a coltivare i campi, a vendemmiare l'uva, con la stessa tenacia e la stessa voglia di riscatto.
Così piano piano sono nati i laboratori dove si cucivano scarpe e pellame, i vivai, le piccole botteghe che poi in alcuni casi sono diventate industrie.
Ci sarebbe lavoro per un esercito di giornalisti, volenterosi e capaci di raccontare come una falegnameria familiare si è trasformata in un’industria, rimane però il fatto che spesso la voglia di lavorare e di fare schei, che di per sé non è un difetto, ha fatto trascurare alcuni aspetti importanti per la crescita di un paese, a partire dall’istruzione, i figli, le nuove generazioni non avevano bisogno di una laurea per trovare lavoro ed è così che spesso in azienda si è venuto a creare un buco generazionale, dove tutti lavorano, ma il lavoro ha assunto una valenza differente, le nuove generazioni non sanno leggere i segni del tempo e non hanno la tenacia dei padri.
Dei schei non conoscono la fatica e il sudore, ma solo il potere d’acquisto che non porta ad appagare il cuore, hanno rinnegato i valori dei padri, ma non hanno trovato nulla che li sostituisse, così usano di un benessere che non hanno costruito rimanendo con l’anima inquieta.
Non tutti però, c’è una rinascita, una riscoperta, che parte dai luoghi, dalla terra, dai sapori, fate un giro tra le barene, sulla laguna, alla riscoperta dei casoni (il cason dea Zappa) ora si può andare anche in canoa, fate un giro per osterie, che hanno ripreso a fare “spunceti”, a proporre i piatti della tradizione, troverete gente orgogliosa, che ha iniziato a fare master gestionali, che ha capito che non tutto è perduto e che si sta rimettendo a studiare a quarant'anni.
La Tv racconta sempre di uno stereotipo veneto, ignorante e legato al soldo, e in fondo i veneti hanno anche le loro colpe per questo, perchè han sempre tirato avanti incuranti, se ne son fregati di quanto pensavano gli altri.
Lo dimostrano i gondolieri, che ai turisti americani che chiedono loro di cantare - O sole mio - intonano senza batter ciglio, a me viene il mal di cuore a sentirli, perché ci vuole anche il rispetto di sé, e il coraggio di dire che a Venezia “la biondina in gondoeta” è più appropriata, per “O’ sole mio” prossima tappa a Sorrento.
Ci vorrebbe un Tornatore, capace di raccontare un mondo ricco, bello e pieno di fascino, volete dire “che no ghe xe un reista bon tra noaltri”, ma volete dire che non abbiamo un regista capace tra noi veneti? Che non ci sono persone capaci di guardare e raccontare stupite il nord est? E’ una sfida.
P.S. perché io nata in Brianza, vissuta nella periferia di Milano mi considero veneta? Per uno scherzo del destino. Per molti anni, ho passato mesi, della mia infanzia e adolescenza tra quei veneti senza bagno in casa, capaci però di godere dei riti della vita.
Di far festa e di prendersi con ironia.
Ho imparato il dialetto e sono cresciuta con loro, vedendoli migliorare, cambiare e superarci in benessere, senza perdere la loro umanità. Ancora oggi, ho bisogno spesso di tornare ad immergermi tra quei colori, quei sapori e quell'ospitalità che fa parte del mio dna, perciò orgogliosa del Duomo di Milano, quando percorrendo l'autostrada passo il confine tra Lombardia e Veneto mi sento finalmente a casa.