La nuova religione: il “nulla” appeso al posto del crocefisso
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C’è chi col crocefisso ci parla tutti i giorni: esisterà, da qualche parte, un emulo di don Camillo, per “inventare” il quale l’ottimo Guareschi deve essersi ispirato (almeno credo) a situazioni e personaggi esistenti e conosciuti.
C’è chi, invece, il crocefisso non lo può vedere, sino a rifiutarsi di lavorare in sua presenza. E stiamo parlando di un Giudice (Luigi Tosti) e di un’aula di Tribunale, con annesso crocefisso appeso alla parete (Camerino). La giustizia non può patire – secondo quel magistrato – di essere resa davanti a quel simbolo: potrebbe offendere chi è di un’altra religione e lederebbe la cd. libertà di religione (e la Corte di Cassazione, con la sentenza del 17 febbraio scorso, di cui è stata pubblicata la motivazione pochi giorni fa, sembra dargli ragione, laddove afferma che la tesi sostenuta dal magistrato, che si è più volte rifiutato di svolgere le udienze per la presenza del crocefisso, facendo appello alla libertà di religione, ha “una sua sostanziale dignità e meriterebbe un adeguato approfondimento per verificarne la fondatezza o meno”).
Ma – ci si chiede – cosa c’entra in tutto ciò la libertà di religione?
Il crocefisso a scuola, o nelle aule giudiziarie (là dove ancora c’è), non vieta mica a nessuno di professare ed esercitare liberamente la propria fede (secondo quanto garantito dall’art. 19 Cost.). Né impone a chicchessia l’esercizio di una determinata fede, credenza o convinzione (secondo il contenuto negativo di detto diritto di libertà). Non si può certo sostenere che la semplice presenza del crocefisso obblighi qualcuno ad essere cristiano!
Peraltro, anche la stessa Corte di Cassazione (che ora pare richiedere un “maggior approfondimento”), con la sentenza della III^ Sezione del 13 ottobre 1998, aveva già avuto modo di affermare che non violava il divieto di differenziazioni per motivi religiosi l’esposizione del crocefisso in aula scolastica adibita a seggio elettorale, in quanto “il principio di libertà religiosa, collegato a quello di uguaglianza, importa soltanto che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto…: condizione questa non ravvisabile nella fattispecie”.
Allora, forse ci si richiama ad un malinteso senso di laicità dello Stato, secondo il quale lo Stato dovrebbe essere “equidistante” rispetto ad ogni confessione religiosa.
Ma anche sotto questo aspetto, è da tempo che la Corte Costituzionale – in particolare nella sentenza 203 del 12 aprile 1989 – ha affermato che “il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
Trattasi quindi di definizione adottata “in positivo”: non mera neutralità dello Stato (e – men che meno – disconoscimento della libertà di espressione e di azione della Chiesa cattolica, come da molte parti si vorrebbe); bensì garanzia della libertà religiosa, in un quadro di riferimento non più confessionale bensì pluralistico (infatti, ai sensi del punto 1 del Protocollo addizionale alla Legge 121 del 25 marzo 1985 di ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra Repubblica Italiana e Santa Sede, cd. Accordi di Villa Madama, “si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato Italiano”).
In tal senso la Repubblica, proprio per la sua laicità, può continuare ad assicurare, per esempio, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, ed anche – si ritiene – continuare ad utilizzare i simboli della religione cattolica, in base a due ordini di valutazioni: a) “il valore della cultura religiosa” in quanto tale, formativo di per sé (elemento indeterminato e riferito dalla Corte Costituzionale al pluralismo religioso della società civile); b) “tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (elemento specifico della religiosità cattolica in Italia) (art.9, co. 2, della Legge 121/1985; e punto 5, lett. a del protocollo Addizionale).
Ciò, naturalmente, senza imposizioni di sorta per quanto concerne la partecipazione dei cittadini (ed infatti l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo).
Mi pare che la mera presenza del crocefisso negli ambienti pubblici non imponga assolutamente niente a nessuno, ma sia semplicemente (continui ad essere) il semplice richiamo al valore del cristianesimo, al quale dobbiamo (volenti o nolenti) i contenuti della nostra civiltà (è questo il senso dell’ormai famoso “perché non possiamo non dirci cristiani” di crociana memoria).
A questo punto, mi pare allora importante una riflessione. E’ evidente che c’è un tentativo non di tutelare la libertà di religione o la laicità dello Stato, quanto invece la pretesa di disconoscere – per tutti, a livello pubblico – il valore del cristianesimo, sostituendo ad esso la pretesa di una suprema neutralità statale, indifferenza, agnosticismo, pulizia religiosa, eliminazione di tutte le sovrastrutture di marxiana memoria (religione oppio dei popoli).
E non ci si accorge che – così facendo – si appende alla parete un’altra religione, discriminando (secondo gli stessi principi logici) coloro che affidano invece la propria vita al “misero” Crocefisso.
Avv. Stefano Spinelli, cassazionista e dottore di ricerca in diritto costituzionale