Te la insegno io l’umiltà...
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Lettera aperta a Franco Monaco
Carissimo,
abbiamo appreso dal numero di maggio 2008 di “Jesus” le sue note per un “savoir faire” del convertito.
Ci consenta una premessa che sale immediatamente al cuore alla lettura delle prime righe del suo intervento: il nostro Signore Gesù Cristo ci ha insegnato che il primo atto della correzione fraterna sta nel prendere in disparte il fratello e interrogarlo sulle ragioni della sua “errata” posizione. E non ci dica che le regole del giornalismo sono diverse (soprattutto per un giornale che si fregia del nome del Salvatore, Jesus, appunto). Se avesse applicato la rivendicata regola del sano rispetto avrebbe potuto facilmente ricorrere a quelle persone che lo stesso Magdi Cristiano Allam, come ci piace giustamente chiamarlo contrariamente a quanto lei fa, ha indicato come compagni del proprio cammino di conversione.
Queste, e non sono poche (alcune anche autorevoli), se fossero state da lei interpellate, avrebbero dato ragioni e motivazioni più pertinenti e meno equivoche.
Inoltre la conversione di una persona dall’Islam al Cristianesimo non può rappresentare per la comunità cristiana motivo di schietto compiacimento, come lei afferma, perché per un cristiano autentico ogni conversione è fonte di timore reverenziale nei confronti del mistero della Grazia che continuamente opera nella Chiesa e nel cuore dell’uomo. L’attore delle conversioni è, come anche ha ricordato in un intervento pubblico il vescovo di San Marino Montefeltro Mons. Luigi Negri, solo lo Spirito Santo; pertanto l’unico compiacimento possibile, se tale si può definire, è nello Spirito e nella croce del Signore che feconda anche a dispetto della fragilità e dei limiti di noi cristiani. Ma, ancora una volta, sono queste le regole del giornalismo?
Siamo costernati di fronte all’“umile” comunicazione del suo disagio per la supposta ostentazione del suddetto cammino di “conversione intimo e personale” (sic), ma ci sorge, davanti a tanta sapienza cristiana, questa domanda: Gesù cosa intendeva dire quando affermava che una città posta sul monte non può essere nascosta o quando chiedeva di gridare sui tetti ciò che era stato udito nelle orecchie? O ancora, perché Pietro chiedeva (e chiede attraverso la rilettura commovente e affascinante di Benedetto XVI nella «Spe Salvi») di rendere ragione della speranza che è in noi?
Ma certo anche Gesù, forse per taluni, ha ostentato: per esempio quando in giorno di sabato, provocando scandalosamente i farisei presenti in sinagoga, volle guarire un uomo dalla mano inaridita obbligandolo a porsi in mezzo all’assemblea.
Ohibò! C’era proprio bisogno di questa prova di forza? Non poteva fare del bene e guarire in segreto per non turbare la sensibilità religiosa altrui e praticare così, come conviene ai moderati, un sano dialogo?
Evidentemente Gesù non conosceva tutte le regole del savoir faire cristiano.
E qui si entra nel punto fondamentale del suo articolo: il dissenso rispetto alle parole, anzi (e qui vorremmo rettificare), ad alcune delle parole iniziali che hanno accompagnato la testimonianza di Magdi Cristiano.
Ci domandiamo quanto le sia noto quell’Islam tutto intero e in radice di cui lei parla. Ma preferiamo non scendere a questo livello, specie per l’impostazione da lei assunta nel discorso, seguendo il saggio consiglio che un qualunque rabbino rivolgerebbe all’interlocutore di altra religione (e che dovrebbe in molti casi essere accolto anche dall’ambito cristiano): «Se vuoi dialogare va’ e studia!»
Vogliamo invece rimanere nell’ambito del tanto invocato ma ahimé forse poco conosciuto magistero.
Noi abbiamo un pregiudizio positivo, un’inguaribile stima nei confronti dell’insegnamento del Magistero della Chiesa (nella sua totalità e non semplicemente per le affermazioni che una certa vulgata politically correct ritiene valide) e nella parola e nelle scelte dei Papi. Abbiamo amato Giovanni XXIII, come Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, ed ora non ci vergogniamo di essere tra gli ammiratori appassionati e convinti di Benedetto XVI. Abbiamo letto la Nostra Aetate e le sue considerazione sull’Islam, non solo l’invito al dialogo, ma anche il suo prudente suggerimento «a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà». Abbiamo ascoltato Giovanni Paolo II ad Assisi quando ci ricordava (e lo ricordava a tutti i presenti rappresentanti di tutte le esperienze religiose del mondo) che il nome della pace è Gesù Cristo. Ancora prima abbiamo imparato da Paolo VI, il grande Papa dell’Ecclesiam suam, l’invito al dialogo con la precisazione delle sue condizioni, ma soprattutto abbiamo stimato e desiderato imparare da Benedetto XVI quella forma di dialogo che è stato la lectio magistralis di Ratisbona (e non abbiamo sicuramente apprezzato la critica, non dei mussulmani, ma dei giornalisti che ne hanno stravolto il senso impedendo di leggere in maniera realistica la vera capacità di dialogo).
Allora, caro Franco Monaco, a quale Magistero si appella? Non ha forse letto la risposta che il Segretario di Stato Card. Bertone ha dato all’invito dei 138 saggi mussulmani del 19 novembre 2007?
Quella risposta, proprio perché tesa ad avviare un auspicato dialogo, esigeva dagli interlocutori una vera reciprocità, cioè una dichiarazione esplicita riguardo all’accettazione dei valori irrinunciabili e noi diremmo non negoziabili, fra i quali tra l’altro il rispetto della vita e della libertà religiosa.
Già nella domanda della Santa Sede, caro Franco Monaco, è implicita un’affermazione. Come non si chiederebbe a un pasticciere di saper confezionare i dolci, così non si chiede a un cristiano di stimare la vita e la libertà religiosa. Se la Santa Sede ha ritenuto doveroso esplicitare la richiesta dell’osservanza di certi valori, è evidente che ha motivo di dubitare che ciò venga fatto da tutti. E questo, come lei ben sa, è stato detto non a quell’Islam intero e alla radice di cui lei parla, ma a un Islam che si vuole moderato e aperto al dialogo.
Del resto un certo corto circuito si verifica anche nel suo discorrere, laddove lei ammette l’allignare di germi di fondamentalismo in certo islamismo politico estremistico. Ma il riconoscimento di tali germi, che secondo le sue parole provocano in seno all’Islam un corto circuito tra religione e civiltà e istituzioni, come può essere relegato entro una parte dello stesso?
È evidente che per sua natura il corto circuito che si verifica in una sola parte dell’impianto fa saltare l’impianto stesso nella sua interezza. La domanda da porsi, piuttosto, caro Monaco, è capire come mai in maniera così radicale può all’interno dell’Islam annidarsi tale germe distruttivo e fondamentalista.
Siamo d’accordo con il portavoce vaticano che è provvidenzialmente intervenuto non per prendere le distanze da Magdi Cristiano Allam, in quanto non ce ne sarebbe stato alcun bisogno tanto è chiaro che la Chiesa mai canonizza alcuno prima della morte e che da sempre si attiene all’agostiniano principio «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas», quanto piuttosto per prendere le distanze da certa superficiale e inopportuna polemica di chi si dice cristiano ma non lo è affatto.
Accusare di saccenza (che è un giudizio morale) una posizione - quella di Magdi Cristiano - che vuole essere ragionevole (in quanto sempre tesa a fornire delle ragioni e delle prove a quanto viene affermando), questo sì ci sembra il vero corto circuito del suo discorrere.
Come mai in tanto giornalismo italiano sedicente cattolico non si sono lanciati strali contro posizioni assunte da personalità politiche in netta contraddizione con i dettami religiosi del Magistero petrino?
Ce lo lasci dire da amici fieramente tali di Magdi Cristiano Allam: quante volte leggendo le obiezioni alle sue argomentazioni abbiamo ascoltato non argomenti ma reazioni (forse da «cristiano adulto»?).
Abbiamo letto i suoi libri e abbiamo visto la modalità di approccio con le persone di varia estrazione sociale e culturale, abbiamo soprattutto constatato la immediata simpatia che egli è capace di suscitare, e questo indipendentemente dalle posizioni politiche e religiose. Questo innato carisma, direbbero i Santi Padri, suscita inevitabilmente invidia, che nel senso forte del termine indica il guardare alla realtà con occhio torvo e viziato.
Sì, anche noi chiediamo per noi stessi, anzitutto, ma anche per Magdi Cristiano l’umiltà, ma quell’umiltà che ci insegna il canto mariano del Magnificat: nell’umiltà dei suoi servi Dio continua ad operare grandi cose che non possono essere taciute, ma vengono e verranno cantate di generazione in generazione.