Le olimpiadi coperte dal velo
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Ha avuto inizio il 24 settembre 2005 la quarta edizione dei giochi Olimpici femminili islamici.
Vi partecipano atlete di 44 paesi, c’è anche un’americana, ma alle gare potranno assistere soltanto delle spettatrici, i risultati non saranno omologati perché manca la presenza d’arbitri designati dalle associazioni internazionali.
Poche le immagini diffuse, se non quelle dell’inaugurazione alla quale sono ammessi anche gli uomini, poi, solo il pubblico femminile potrà assistere ai giochi, vietato immortalare le atlete in tenuta agonistica.
Leggiamo su La Stampa la storia di Sarah: “La prima ambasciatrice americana accolta come una star nell’Iran del presidente ultraconservatore Amadinejad è una ragazza esile di ventisei anni con gli occhi azzurri e le ciglia nerissime.
Sarah Kureshi è l’unica atleta della delegazione statunitense ad aver ottenuto il visto per partecipare alle Olimpiadi femminili islamiche di Teheran e ora si gode rilassata il tipico badenjun, un piatto a base di purè di melanzane, ancora incredula d’essere arrivata fin qui: «Sono stata in forse fino all’ultimo giorno, il mio paese di questi tempi è piuttosto sospettoso... E dire che i miei compagni d’università, in Minnesota, erano così orgogliosi che venissi». Correrà i cento metri per loro questa bella spinter d’origini pakistane cresciuta parlando urdu con i genitori e imparando ad amare la patria d’adozione dove «chiunque può fare qualsiasi cosa, compreso vivere da musulmana osservante dopo l’11 settembre 2001».
E, aggiunge Sarah sistemandosi sul capo l’hijab del colore degli occhi, correrà anche per l’islam: «Sono orgogliosa della mia religione al pari del mio passaporto».
Sarah Kureshi prega in moschea cinque volte al giorno, sogna di diventare medico, e adora «Leggere Lolita a Teheran», il romanzo che è costato l’esilio alla scrittrice iraniana Azar Nafizi. “
Appare chiaro che la strada è lunga e tortuosa, ma che l’integrazione passa attraverso il coraggio delle donne.
Donne che per indossare i jeans, per poter leggere, ascoltare musica, giocare a basket o a tennis devono sfidare il mondo in cui vivono e in cui sono rinchiuse.
Questo dovrebbero capirlo prima di tutto i politici, i dirigenti scolastici, le associazioni che tanto parlano e in alcuni casi si danno da fare, perché l’integrazione avvenga.
Bisogna aiutare queste donne ad imparare la lingua del paese dove sono immigrate, a conoscere le abitudine e la cultura di quel paese, ad incontrare altre donne alle quali far conoscere la loro cultura.
L’integrazione è prima di tutto “donna” perché gli uomini che vivono una situazione di “naturale privilegio” hanno meno interesse ad un’effettiva integrazione, in quanto potrebbe significare la perdita di alcuni di questi privilegi.
Ma appare evidente che un’effettiva integrazione passa attraverso le donne, questi giochi sono un passo in avanti al quale andrebbe dato maggior risalto, ci sono atlete che faticano, che non possono dare per scontato nulla di ciò che fanno e che non possono nemmeno competere con le altre donne in “Olimpiadi miste” dove non è il sesso che conta, ma la bravura, la fatica, l’impegno.
Per questo il loro coraggio e la loro fatica meriterebbero di avere più voce.