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Kubrick, Schubert, Lyndon

Autore:
Marcora, Luca
Kubrick, Schubert, Lyndon
Viaggio senza meta.



È noto come Kubrick avesse riportato alla luce il magniloquente incipit di un allora dimenticato poema sinfonico di Richard Strauss, Così parlò Zarathustra, utilizzandolo per l'inizio di 2001: Odissea nello spazio, e rendendolo un classico della musica cinematografica; o come, sempre nello stesso film, riuscì a far "cantare e danzare l'universo", utilizzando musiche, composte da poco più di due anni, di György Ligeti, accanto a classici della musica di tutti i tempi, come Il bel Danubio blu di Johann Strauss.


Genio dell'immagine, dunque, ma forse anche genio musicale. Forse superficiale, ma certamente questa vasta cultura musicale, trova la sua più alta celebrazione in Barry Lyndon, capolavoro del 1975, in cui la perfezione di Kubrick raggiunge i livelli più alti: basti pensare all'immane lavoro di ricostruzione scenografica o ai magnifici costumi settecenteschi creati da Milena Canonero, ma soprattutto all'utilizzo di lenti speciali prodotte per la NASA, allo scopo di riprendere con luce naturale, fosse anche quella di una candela. Barry Lyndon rappresenta anche il più alto impegno di aderenza musicale al contesto storico: Händel, Federico il Grande, Mozart, Paisiello, Vivaldi, Bach, tutti autori esclusivamente settecenteschi.


Con un'unica, grande eccezione. Si tratta di Franz Schubert, il quale vi compare con due brani: una danza tedesca, ma soprattutto il secondo movimento del Trio op. 100 per violino, violoncello e pianoforte. Strana cosa! Kubrick non era riuscito a trovare nulla capace di soddisfarlo appieno nella musica del settecento: ecco allora la malinconica melodia del Trio schubertiano, subito eletto come tema di lady Lyndon, ma anche controparte della roboante Sarabanda di Händel dei titoli di testa, appositamente trascritta per orchestra da Leonard Rosenman. Mentre quest'ultima accompagna, come se il concretizzarsi del destino di fronte ai personaggi, i punti in cui la vicenda subisce bruschi mutamenti di rotta (i titoli di testa, prima della morte del padre di Redmond; il suo primo duello; la morte del figlioletto Bryan), il Trio compare solo in due punti: la prima volta solo a metà film, l'altra nella scena finale. Pur accompagnando l'entrata in scena di lady Lyndon, questa strana melodia quasi da marcia funebre, con le sue note ribattute tipiche dell'ultimo Schubert, ci indica subito la strada che la storia prenderà: Redmond Barry, giunto all'apice della sua vita, si trova bloccato, incapace di qualsiasi azione che termini a buon fine.


Quell'uomo che in tutta la prima parte abbiamo visto camminare, viaggiare, come un punto che si muoveva perduto in un paesaggio romanticamente bello (ma Schubert non aveva scritto anche "Il Viaggio d'inverno"?), ora, nel momento di impugnare la realtà, di vivere ciò che ha costruito, di esserne protagonista, non riesce a fare altro che a rovinare tutto.


Barry si innamora di lady Lyndon. Tutta la lunga scena è commentata dalla musica di Schubert: non è sdolcinata, non è strappalacrime; è triste, è la constatazione che a Barry, che non era mai stato fermo ma che ora decide di stabilirsi definitivamente sposandosi, manca ancora qualcosa, non è ancora arrivato dove credeva di volere arrivare (ma Schubert non aveva scritto anche la Sinfonia "L'Incompiuta"?). Barry tuttavia non ha tempo per pensarci e, novello Orazio (quello del "Carpe Diem", per intenderci) si tuffa nelle donne, nello sperpero dei soldi...


Ma l'uomo di Kubrick non è capace di stare nella storia, di fare la storia ed anche Redmond ne verrà cancellato: non gli è nemmeno concesso il dono di lasciare un figlio su questa terra: il piccolo Bryan morirà in quella che è l'unica scena commuovente (cioè soffrire - insieme) di tutto il cinema di Kubrick. Anche Barry, ormai alla fine della sua parabola, ridotto ad essere senza una gamba (ma non per le guerre che pure aveva combattuto e in cui si era distinto), sarà costretto a riprendere il suo viaggio.


Ma dove può andare un uomo così, senza una gamba? L'ultima immagine di Barry ce lo rivela: è un fermo immagine di lui che sale su di una carrozza, in cui è, era e sarà per sempre congelato nella storia (ricordate la fine di Shining?), bloccato in uno spazio senza tempo, ritornato nel nulla della storia (ricordate la fine di "2001"?). Così per tutti gli altri "attori" di questa Storia, con la S maiuscola, anch'essi congelati dentro le loro maschere, dentro i loro immensi saloni, dentro le loro consuete mansioni, senza neanche la possibilità di provare malinconia per una vita (la loro!) sprecata.


In sottofondo, malinconico e marziale allo stesso tempo, Schubert, a scandire i passi di una marcia, di un viaggio che non porta, che non può portare da nessuna parte, se non ad una triste didascalia, che suggella il pessimismo kubrickiano in un ghigno laconico:


"Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali".

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