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Non svuotare la croce

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it

Nel Crocifisso si manifesta l’amore gratuito e misericordioso di Dio

«Nella personale esperienza (dell’incontro con al Persona di Gesù Cristo) di san Paolo c’è una dato incontrovertibile:mentre all’inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua predicazione. La sua fu un’esistenza interamente consumata per le anime (2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà . Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose sono importanti; l’universalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l’amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (Gal 2,20) e da peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita, sperimenta che la salvezza era ‘grazia’, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non c’erano. Il “vangelo della grazia” diventò così per lui l’unico modo di intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di vita» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 29 ottobre 2008].

Il mistero, cioè la realtà divino – umana della nostra salvezza, trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra grande speranza affidabile, una meta così grande da giustificare la fatica del cammino e far scoppiare di gioia in ogni tribolazione. Ma la cifra di questo mistero, di questa realtà divino umana è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera da ogni schiavitù anche satanica e ci salva. Per Paolo, sulla via di Damasco, l’avvenimento dell’incontro con il Crocefisso risorto è stato un’esplosione di luce che l’ha convertito a un nuovo orizzonte di vita, un’esplosione dell’amore della Croce che scioglie le catene del peccato e della morte inaugurando una nuova direzione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo capace di penetrare continuamente nel presente anche faticoso, lo trasforma e lo attira a sé. La Croce per san Paolo ha un primato fondamentale nella storia dell’umanità; essa rappresenta il punto fondamentale della rivelazione di chi è Dio e del suo rapporto con ogni uomo cioè della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura. Il tema della Croce che rivela la larghezza dell’amore di Dio (non esclude nessuno), la lunghezza (è perseverante e nessuna difficoltà lo vince), l’altezza (si propone un fine altissimo, riportare ogni essere umano concreto a figlio nel Figlio), la profondità (condivide fino in fondo le miserie di ogni uomo), diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dell’Apostolo: il luogo più chiaro dove emerge questa lieta notizia o vangelo della grazia è la comunità di Corinto. Di fronte ad un vissuto ecclesiale dove erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni interne che incrinavano l’unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con sublimità di parola o di sapienza, ma con l’annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso che rivela chi è Dio, Amore, e chi è ogni uomo così amato da Dio. Proprio perché Dio, che è amore, non costringe mai (un rapporto costretto impedirebbe ogni risposta d’amore) fino al punto di “rivolgersi contro se stesso”, nella Croce del proprio Figlio, per rialzare l’uomo e salvarlo chiamandolo, sollecitandolo a quella libera unione di amore con Lui che culmina nell’Eucaristia. La forza di Paolo, come del vissuto di comunione ecclesiale, non è l’evidenza spettacolare di un linguaggio persuasivo, ma paradossalmente, la debolezza e la tribolazione di chi si affida soltanto alla “potenza di Dio” (1 Cor 2,1-4) e può convincere solo attraverso la slancio del cuore. La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L’Apostolo lo afferma con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: “La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio… è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,18-23).

Il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso e così si fa presente nel sacrificio eucaristico e nel suo corpo che è la Chiesa
La prime comunità cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo e infonde nell’uomo ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito che dà la possibilità di incontrarlo, di accoglierlo per essere assimilati a Lui, vivere in Lui e di Lui; l’Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo ‘scandalo’ e la ‘stoltezza’ della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c’è tutta la potenza dell’Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela proprio nella debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nella Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l’essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la Croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è morìa, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso. Paolo stesso in più di un’occasione fece l’amara esperienza del rifiuto dell’annuncio cristiano giudicato ‘insipiente’, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo fino a penetrare in certe posizioni biblico teologiche che propongono una rottura tra la storicità di Gesù e la professione di fede della Chiesa. Questo modo di procedere porta a conseguenze difficilmente compatibili con la fede, quali.
1. svuotare di contenuto ontologico la filiazione divina di Gesù;
2. negare che nei Vangeli si affermi la preesistenza del Figlio;
3. soprattutto considerare che Gesù, di conseguenza, non ha vissuto la sua passione e morte come missione redentrice, ma come fallimento.
Il concetto, poi, di apàtheia, indifferenza, quale assenza di passioni nel Dio come realtà a noi inaccessibile, che noi non possiamo incontrare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i filosofi greci, come avrebbe potuto comprendere il Dio biblico che ama l’uomo, che entra nella nostra storia, diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere sempre da risorto? “Ti sentiremo su questo un’altra volta” (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione liberarsi del corpo concepito come prigione; come non considerare un’aberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato, come oggi la divina parola in parole umane, un Dio che possiede un volto umano, che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Tutto l’evento “Gesù di Nazaret” sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto emblematico.

La Croce rivela la potenza di Dio
Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela “la potenza di Dio” (1 Cor 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini” (v. 25). Ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, il successo nel mondo? Che cosa ha portato con la sua Croce? Ha portato Dio in un volto umano crocifisso: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora noi conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza; la fede, la speranza, l’amore. Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, non spettacolare, non costringe, ma è il potere vero, duraturo. La causa di Dio sembra trovarsi continuamente in agonia. Ma dimostra sempre come ciò che veramente permane e salva. I regni del mondo, che Satana poté allora mostrare al Signore, nel frattempo sono tutti crollati. La loro gloria, la loro doxa, si è dimostrata apparenza. Ma la gloria di Cristo, la gloria umile e disposta a soffrire, la gloria del suo amore non è tramontata e non tramonterà. Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che non costringe e che arriva fino a “rivolgersi contro se stesso”, fino alla Croce per salvare l’uomo, ogni uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell’uomo e, dall’altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell’amore: proprio questa totale gratuità dell’amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: “Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 1,28); e ancora: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1,28). L’Apostolo si identifica a tal punto con Cristo che anch’egli, benché in mezzo a tante prove, vive della fede del Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico dell’Apostolo diventa paradigmatico .

Rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore
San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall’altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E’ da questo “ministero della riconciliazione” che ogni schiavitù è ormai riscattata (1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo “ministero della riconciliazione”, che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore. San Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio nell’umiltà dell’amore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere in quel Dio del quale tutti possiamo dire: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”, sapendo che il futuro, il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge.
Nelle grandi composizioni della passione di Johann Sebastian Bach il tremendo avvenimento del venerdì santo è immerso in una bellezza trasfigurata e trasfigurante. Queste Passioni non parlano della risurrezione, terminano con la sepoltura di Gesù, ma nella loro trasparenza evangelica paolina della Croce vivono della certezza del giorno di Pasqua, si nutrono della certezza di quella speranza che non scompare neppure nella notte della morte. Peccato, invece, come questa fiduciosa tranquillità della fede, che non ha bisogno di parlare della risurrezione, perché vive e pensa in essa, rischia di non esserci più familiare.

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