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Fuggite l’idolatria

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Tentazione di idolatrare un passato che non esiste più, dimenticandone le carenze; tentazione d’idolatrare un futuro che non esiste ancora, credendo che l’uomo, con le sole sue forze, possa realizzare la felicità eterna sulla terra!

«La Lettera di san Paolo, indirizzata ai Corinzi, ci fa scoprire, in quest’anno paolino, aperto il 28 giugno scorso, quanto i consigli dati dall’Apostolo restino attuali. “Fuggite l’idolatria” (1 Cor 10, 14), scrive ad una comunità molto segnata dal paganesimo e divisa tra l’adesione alla novità del Vangelo e l’osservanza delle antiche pratiche ereditate dagli avi. Fuggire gli idoli, questo allora voleva dire cessare di onorare le divinità dell’Olimpo, cessare di offrire loro sacrifici cruenti. Fuggire gli idoli, era mettersi alla scuola dei profeti dell’Antico Testamento, che denunciavano la tendenza dello spirito umano a forgiarsi della false rappresentazioni di Dio. Come dice il Salmo 113 a proposito delle statue degli idoli, esse non sono che “argento e ora, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano” (vv. 4-5). A parte il popolo d’Israele che aveva ricevuto la rivelazione del Dio unico, il mondo antico era asservito al culto degli idoli. Molto presenti a Corinto, gli errori del paganesimo dovevano essere denunciati, perché costituivano una potente alienazione e distoglievano l’uomo dal suo vero destino (come sempre l’idolatria non è solo una questione religiosa cioè chi è Dio ma anche antropologica chi è l’uomo). Essi gli impedivano di riconoscere che Cristo è il solo e vero Salvatore, il solo che indica ad ogni uomo la strada verso Dio (cioè verso la via umana alla Verità e alla Vita veramente vita, al sentirsi amati).
Questo invito a fuggire gli idoli resta valido anche oggi. Il mondo contemporaneo non si è forse creato degli idoli? Non ha forse imitato, magari a sua insaputa, i pagani dell’antichità, distogliendo l’uomo dal suo vero fine, dalla felicità di vivere eternamente con Dio (dalla speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente)? E’ questa una domanda che ogni uomo, onesto con se stesso, non può non porsi. Che cosa è importante nella mia vita? Che cosa mette l’io al primo posto? La parola “idolo”deriva dal greco e significa “immagine”, “figura”, “rappresentazione”, ma anche “spettro”, “fantasma”, “vana apparenza”. L’idolo è un inganno perché distoglie dalla realtà chi lo serve per confinarlo nel regno dell’apparenza. Ora, non è questa una tentazione propria della nostra epoca, che è la sola sulla quale noi possiamo agire efficacemente? Tentazione di idolatrare un passato che non esiste più, dimenticandone le carenze; tentazione d’idolatrare un futuro che non esiste ancora, credendo che l’uomo, con le sue sole forze possa realizzare la felicità eterna sulla terra! San Paolo spiega ai Colossesi che la cupidigia insaziabile è una idolatria (3,5), e ricorda al suo discepolo Timoteo che la brama del denaro è la radice di tutti i mali. Per esserci abbandonati, precisa, “alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori” (1 Tm 6,10). Il denaro, la sete dell’avere, del potere e persino del sapere non hanno forse distolto l’uomo dal suo Fine vero dalla sua propria verità?» [Benedetto XVI, Omelia all’Esplanade des Invalides, 13 settembre 2008].

Accanto al rischio di idolatrare il passato e il futuro c’è anche la tentazione di idolatrare il presente per questo breve momento della vita prendendo tutto quanto ci possibile prendere, per cui vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Forte, però, è anche l’idolatria del progresso e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro storico: è un pregiudizio diffuso e coltivato, difficile da smascherare. Di grande aiuto è la liturgia di ogni giorno cioè la fede celebrata ereditata dai nostri Padri nella fede, in particolare da san Paolo stesso (1 Cor 11,23). San Paolo condanna severamente l’idolatria come una “colpa grave”, uno “scandalo”, addirittura una “peste”. Questa condanna radicale dell’idolatria non è mai condanna della persona idolatra. Mai, nei nostri giudizi, dobbiamo confondere il peccato, che è inaccettabile anche a costo di rimetterci tutto, e il peccatore del quale non possiamo mai giudicare lo stato di coscienza e che, in ogni caso, fino al momento terminale della vita è sempre suscettibile di conversione e di perdono. San Paolo non vuole costringere e si appella alla ragione dei suoi lettori: “Parlo come a persone intelligenti: giudicate voi stessi quello che dico” (1 Cor 10,15). Mai Dio domanda all’uomo di fare sacrificio della sua ragione! Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede! L’unico Dio - Padre, Figlio e Spirito Santo - ha creato la nostra ragione e ci dona la fede, anche nella ragione, proponendo alla nostra libertà di riceverla con un dono prezioso, come un suo fondamento. E’ il culto degli idoli che distoglie l’uomo da questa prospettiva, e la ragione stessa può forgiarsi degli idoli. “Domandiamo - ha chiesto Benedetto XVI -, dunque, a Dio che ci vede e ci ascolta di aiutarci a purificarci da tutti gli idoli, per accedere (alla realtà in tutti i fattori senza gonfiarne od escluderne qualcuno) cioè per accedere al nostro (e altrui, come di tutto quello che ci circonda) essere (dono del Donatore divino), per accedere alla verità del suo Essere infinito (tutto in atto, Donatore di ogni essere dono).

Come giungere a Dio cioè alla verità del Donatore divino di ogni essere dono venuto o che viene all’esistenza? Come giungere a trovare o ritrovare Colui che ogni uomo, ogni io cerca nel più profondo di se stesso, pur dimenticandoLo così sovente perché Dio, che è Amore, non può costringere mai perché impedirebbe una risposta di amore, l’unica vera per chi creato spirito libero a sua immagine e somiglianza?
San Paolo ci domanda di fare uso non solamente della nostra ragione, ma soprattutto della nostra fede per scoprirlo: la fede e la ragione, la conoscenza indiretta e diretta, sono come le due ali con le quali ogni spirito umano si innalza verso la contemplazione della realtà in tutti i fattori cioè della verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza. E’ Dio stesso ad aver posto originariamente, naturalmente nel cuore di ogni uomo il desiderio di conoscere la verità. E, in definitiva, di conoscere Lui perché conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso, sul proprio e altrui essere dono, come di tutto il mondo, di tutta la storia che lo circonda. Ora che cosa dice la fede cioè l’avvenimento della conoscenza indiretta? Il pane che noi spezziamo è comunione al Corpo di Cristo; il calice di ringraziamento che noi benediciamo è comunione al Sangue di Cristo. Rivelazione straordinaria, che ci viene da Cristo e ci è trasmessa dagli Apostoli e in continuità o Tradizione da tutta la Chiesa da quasi duemila anni. Cristo ha istituito il sacramento dell’Eucaristia il Giovedì Santo. Egli ha voluto che il suo sacrificio fosse nuovamente, continuamente presentato, in modo incruento, ogni volta che un sacerdote ridice le parole della consacrazione sul pane e sul vino. Milioni di volte da venti secoli, nelle più umili cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o della cattedrali, il Signore risorto si è mostrato, si è donato, si è sacrificato al suo popolo, divenendo così nell’incontro, nella comunione con Lui “più intimo a noi che noi medesimi” (Confess. III, 6.11), assimilandoci a Lui come figli nel Figlio e quindi fratelli, amanti con il suo amore dato in dono dal Suo Spirito. “Fratelli e sorelle - ha pastoralmente cioè amorevolmente gridato Benedetto XVI -, circondiamo della più grande venerazione il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il Santissimo Sacramento della presenza reale del Signore alla sua Chiesa e all’intera umanità (com’è un fatto reale avvenuto nella storia la risurrezione, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova che abbiamo ricevuto nel Battesimo). Non trascuriamo nulla per manifestarGli il nostro rispetto ed il nostro amore! DiamoGli i più grandi segni d’onore! Mediante le nostre parole, i nostri silenzi e i nostri gesti, non accettiamo mai che in noi e attorno a noi si appanni la fede nel Cristo risorto, presente nell’Eucaristia. Come dice magnificamente lo stesso san Giovanni Crisostomo: “Passiamo in rassegna gli ineffabili benefici di Dio e tutti i beni di cui Egli ci fa gioire, quando noi gli offriamo questo calice, quando noi ci comunichiamo, ringraziandolo di aver liberato il genere umano dall’errore (dalla paura di Satana), di aver avvicinato a sé coloro che se ne erano allontanati, di aver fatto di disperati e atei di questo mondo un popolo di fratelli, di coeredi del Figlio di Dio” (Omelia 24 sulla Prima Lettera ai Corinzi, 1). In effetti, egli prosegue, “ciò che è nel calice è precisamente ciò che è colato dal suo costato ed è a questo che noi partecipiamo (ibid.) Non c’è soltanto partecipazione e condivisione, c’è anche “unione”, egli dice”.

La Messa è il sacrificio d’azione di grazie per eccellenza, quello che ci permette d’unire la nostra azione di grazie a quella del Salvatore, il Figlio eterno del Padre nello Spirito Santo
Proprio in se stessa, per la sua natura la Messa ci invita anche a fuggire gli idoli, perché, è san Paolo ad insistervi, “non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni” (1 Cor 10,21). La Messa ci invita a discernere ciò che in noi, nel nostro io, nel nostro cuore, nella nostra anima, obbedisce allo Spirito di Dio e ciò che, in noi, resta in ascolto dello spirito del male. Sapendo e pensando, nella Messa noi non vogliamo appartenere che al Cristo e riprendiamo con gratitudine - con “azione di grazie” cioè eucaristicamente - il grido del Salmista: “Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?” (Sal 116,12). Sì, come rendere grazie al Signore per la vita che Egli mi ha donato? La risposta alla domanda del Salmista, che è originariamente nel nostro io senza di noi, si trova nel Salmo stesso, perché la Parola di Dio, Dio che parla qui e ora come ha parlato allora, risponde misericordiosamente essa stessa alle domande che pone e che possiamo continuamente cogliere se siamo vigilanti, attenti. Come rendere grazie al Signore per tutto il bene che Egli ci fa, se non attenendoci alle stesse sue parole: “Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore” (Sal 116,13)?
Alzare, sapendo e pensando, il calice della salvezza e invocare il nome del Signore non è forse precisamente il mezzo migliore di “fuggire gli idoli”, come ci chiede san Paolo? Occorre continuamente ravvivare a livello soggettivo la consapevolezza che a livello oggettivo ogni volta che una Messa è celebrata, ogni volta che il Cristo si rende sacramentalmente presente nella sua Chiesa rendendo attuali qui e ora incarnazione, passione, morte, risurrezione, ascensione, invio dello Spirito, è l’opera della nostra salvezza che si compie. Celebrare l’Eucaristia, sapendolo, pensandolo, volendolo, significa perciò riconoscere che Dio solo è in grado di donarci la felicità in pienezza, di insegnarci i veri valori o possibilità di divenire quello che siamo, i valori eterni che non conosceranno mai tramonto. Dio si mostra persona, è presente sull’altare, ma Egli si mostra persona, Tu, è pure presente sull’altare del nostro e altrui cuore quando, comunicandoci, noi lo riceviamo, in grazia di Dio e sapendo e pensando chi riceviamo, nel Sacramento eucaristico. Lui solo ci insegna e ci dà la forza per far fuggire gli idoli, miraggi del nostro pensiero, istigati da Satana.

Chi può elevare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore per conto dell’intero popolo di Dio, se non il sacerdote ordinato per questo scopo dal Vescovo? Niente rimpiazzerà mai il ministero dei sacerdoti nella vita della Chiesa. Niente rimpiazzerà mai una Messa per la salvezza del mondo!
“Qui, cari abitanti di Parigi e della regione parigina - altro grido di amore di Benedetto XVI -, ma anche voi tutti che siete venuti dall’intera Francia e da altri Paesi confinanti, permettetemi di lanciare un appello pieno di fiducia nella fede e nella generosità dei giovani, che si pongono la domanda sulla vocazione religiosa o sacerdotale: Non abbiate paura! Non abbiate paura di donare la vostra vita a Cristo! Niente rimpiazzerà mai il ministero dei sacerdoti nella vita della Chiesa. Niente rimpiazzerà mai una Messa per la salvezza del mondo! Cari giovani o meno giovani che mi ascoltate, non lasciate senza risposta la chiamata di Cristo. San Giovanni Crisostomo, nel suo Trattato sul sacerdozio, ha mostrato quanto la risposta dell’uomo possa essere lenta a venire, ma egli è l’esempio vivente dell’azione di Dio su una liberà umana che si lascia modellare dalla sua grazia”.

Cristo in persona ci ha insegnato a fuggire l’idolatria, cui ci spinge Satana, invitandoci a costruire la nostra casa “sulla roccia” (Lc 6,48), su Lui stesso, sul suo Corpo, sulla Chiesa
I nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni acquistano la loro vera dimensione solo se le riferiamo al messaggio del Vangelo: “La bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45). Quando parliamo, cerchiamo noi il bene del nostro interlocutore, abbiamo simpatia con lui nel quale vediamo Cristo? Quando pensiamo, cerchiamo di mettere il nostro pensiero in sintonia con il pensiero di Dio in modo che ogni conoscenza sia un avvenimento religioso? Quando agiamo, cerchiamo di diffondere l’Amore che fa vivere la vita “veramente” vita che non finisce mai, l’unica speranza affidabile, in virtù della quale affrontare il presente anche faticoso, la fatica del cammino? San Giovanni Crisostomo dice ancora: “Ora, se noi partecipiamo tutti del medesimo pane e se tutti diveniamo questa stessa sostanza, perché non mostriamo la medesima carità? Perché, per la stessa ragione, non diventiamo un unico tutt’uno?... O uomo, è il Cristo che è venuto a cercarti, a cercare te che eri così lontano da lui, per unirsi a te; e tu non ti vuoi unire al tuo fratello?” (Omelia 24 sulla Prima Lettera ai Corinti, 2).
La speranza affidabile resterà sempre la più forte! La Chiesa, costruita sulla roccia di Cristo, possiede le promesse della vita eterna non perché i suoi membri siano più santi degli altri uomini, ma perché Cristo ha fatto questa promessa a Pietro: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). “In questa speranza indefettibile - ha concluso Benedetto XVI - nella presenza eterna di Dio in ciascuna delle nostre anime, in questa gioia di sapere che Cristo è con noi fino alla fine dei tempi, in questa forza che lo Spirito dona a tutti gli uomini e a tutte le donne che accettano di lasciarsi afferrare da Lui, io vi affido, cari cristiani di Parigi e di Francia all’azione potente e misericordiosa del Dio d’amore che è morto per noi sulla Croce e risorto vittoriosamente al mattino di Pasqua. A tutti gli uomini di buona volontà che mi ascoltano, io ridico con san Paolo: Fuggite il culto degli idoli, non smettete di fare il bene”.

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