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Apostoli perché?

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Tutti, per grazia, possiamo, dobbiamo divenire apostoli, protagonisti della nostra salvezza: la fede si rafforza donandola con gioia

«Cari fratelli e sorelle, mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici con il titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 10 settembre 2008]: annunciare il vangelo è annunciare la rivelazione che Dio è padre e vuole la salvezza dell’intera umanità, dell’universo in cieli nuovi e terra nuova, la rivelazione di chi è ogni uomo nel suo essere dono del Donatore divino cioè persona, centro del mondo e protagonista della sua salvezza, come fu inteso all’atto della creazione ed è in virtù dell’incarnazione del Figlio di Dio e in virtù della crocifissione, resurrezione, ascensione e invio dello Spirito del Risorto che dona ad ogni cuore, ad ogni io, ad ogni persona il desiderio della verità, della via alla Verità e alla Vita cioè dell’incontro con Cristo e la disponibilità ad amare con il suo amore cooperando per la salvezza di tutti e di tutto. Mantenendo presente nel più profondo della propria essenza quest’ultima apertura alla via umana, ecclesiale alla Verità e alla Vita cioè al Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo, al suo amore che perdona, ognuno può giungere alla salvezza evitando di distruggere in se stesso ciò che non è più rimediabile: è questo che si indica con la parola inferno. Nelle concrete scelte di vita questo desiderio della verità cioè di Cristo e questa disponibilità ad amare con il suo amore, sono ricoperti da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la disponibilità a lasciarsi assimilare a Cristo e ad essere totalmente aperti al prossimo, di cui, tuttavia è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima. Che cosa avviene di simili individui, la gran parte degli uomini, di noi quando compariamo davanti al Giudice secondo la lieta notizia del Vangelo? Paolo dice dell’esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, su questa buona notizia, il Vangelo ci fa conoscere l’avvenimento, la realtà che questo fondamento non ci può essere sottratto neppure nella morte. “Se – ci garantisce Paolo -, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Cor 3,12-15). La salvezza degli uomini può avere forme diverse; per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il “fuoco” per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell’eterno banchetto nuziale. Il fuoco che brucia e insieme salva è Cristo stesso, il Giudice e il Salvatore. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. E’ l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria, vuoto protagonismo e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa “come attraverso il fuoco”. E’, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e di grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già bruciata nella passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia…Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L’incarnazione di Dio in Cristo e quindi la sua unione in qualche modo con ogni uomo ha collegato talmente l’uno all’altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza “con timore e tremore (Fil 2,12) Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro “avvocato”, paracletos (1 Gv 2,1) (Spe salvi 46, 47). Questo è il Vangelo, questo è evangelizzare cioè essere apostoli.

Il concetto di apostolato che Paolo aveva andava oltre a quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra i “Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi beneficiari della apparizioni del Risorto (14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio (cioè il Corpo del Risorto). Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia, che pure si sente apostolo: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese cioè di corpi di Cristo risorto: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!
Cos’è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli anche oggi? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo.
- la prima è di avere “visto il Signore”, averLo incontrato, essere cristiani (1 Cor 9,1);
- la seconda caratteristica è di “essere stati inviati”, agire come incaricato e rappresentante di un mandante;
- il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese.

Avere “visto il Signore” cioè aver incontrato la Persona di Gesù Cristo
Nella Lettera ai Galati (1,15-16) Paolo afferma di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi in continuità al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (rom 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica, aver visto il Signore, essersi incontrati con la Persona di Gesù Cristo dando alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva e sentirsi chiamati da lui.

“Essere stati inviati” cioè ambasciatori e portatori di un messaggio: agire come incaricati e rappresentanti del mandato del Risorto attraverso il vissuto fraterno di comunione ecclesiale
E’ per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo”, del Risorto nel suo corpo che è la Chiesa, cioè suo delegato, posto al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui attraverso il Corpo del risorto cioè della Chiesa, quindi iniziativa di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati per amore senza essere costretti; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale.

L’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese
Quello di “apostolo” non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (2,2-3).

Paolo definisce gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo infatti ha evidenziato come l’annuncio del croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione e il rifiuto. Ciò avveniva già a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: questa è l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatticchiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino ad oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della via apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.
Paolo, peraltro nell’inculturazione della fede nell’ambiente ellenico romano, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8, 35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana, il regno di Dio che si fa presente e la speranza della vita veramente vita dove il suo amore ci raggiunge.
Come si vede – conclude Benedetto XVI -, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia”.

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