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Imparare da San Paolo

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Come è avvenuto l’incontro di un essere umano con Cristo ai tempi di Paolo e come può avvenire oggi?

«Da questa rapida carrellata sull’ambiente culturale del primo secolo dell’era cristiana appare chiaro che non è possibile comprendere adeguatamente san Paolo senza collocarsi sullo sfondo tanto giudaico quanto pagano del suo tempo. In questo modo la sua figura acquista in spessore storico e ideale, rivelando insieme condivisione e originalità nei confronti dell’ambiente. Ma ciò vale analogamente anche per il cristianesimo in generale, di cui appunto Paolo apostolo è un paradigma di prim’ordine, dal quale tutti noi abbiamo ancora sempre molto da imparare. E’ questo lo scopo dell’Anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo, imparare infine la strada della retta vita» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 2 luglio 2008].

L’anno paolino va dalla festa liturgica dei Santi Pietro e Paolo del 29 giugno 2008 fino alla stessa festa del 2009. Si tratta di porci davanti l’apostolo Paolo, figura eccelsa e pressoché inimitabile, ma comunque stimolante come esempio di totale dedizione al Signore e alla sua Chiesa, oltre che di grande apertura all’umanità e alle sue culture. Giusto riservargli un posto particolare, non solo nella nostra venerazione, ma anche nello sforzo di comprendere ciò che egli ha da dire anche noi, cristiani di oggi. Innanzitutto occorre soffermarci a considerare l’ambiente nel quale si trovò a vivere e operare, un mondo che sembra lontano, di duemila anni fa. E tuttavia ciò è vero solo apparentemente, comunque in parte, poiché possiamo constatare che, sotto vari aspetti, il contesto socio - culturale di oggi non differisce poi molto da quello di allora.

Rapporto tra l’ambiente in cui Paolo nasce e si sviluppa e il contesto globale in cui successivamente si inserisce
Paolo viene da una cultura ben precisa e circoscritta, certamente minoritaria, che è quella del popolo di Israele e della sua tradizione.
Nel mondo antico e segnatamente all’interno dell’impero romano, come ci insegnano gli studiosi della materia, gli ebrei dovevano aggirarsi attorno al 10%; a Roma il loro numero era in un rapporto ancora minore, raggiungendo al massimo il 3% degli abitanti della città.
Le credenze del popolo di Israele e il loro stile di vita, come succede ancora oggi, li distinguevano nettamente dall’ambiente circostante; e questo poteva avere due risultati: o la derisione, che poteva portare all’intolleranza, oppure l’ammirazione, che si esprimeva in forme varie di simpatia come nel caso dei “timorati di Dio” e dei “proseliti”, pagani che si associavano alla Sinagoga e condividevano la fede nel Dio di Israele. Come esempi concreti di questo doppio atteggiamento possiamo citare, da una parte, il giudizio tagliente di un oratore quale fu Cicerone, che disprezzava la loro religione e persino la città di Gerusalemme (Pro Flacco, 66 - 69), e, dall’altra, l’atteggiamento della moglie di Nerone, Poppea, che viene ricordata da Flavio Giuseppe come “simpatizzante” dei Giudei (Vita, 16), per non dire che già Giulio Cesare aveva ufficialmente riconosciuto loro dei diritti particolari che ci sono tramandati da Flavio Giuseppe. Certo è che il numero degli ebrei, come del resto avviene ancora oggi, era molto maggiore fuori della terra di Israele, cioè nella diaspora, che non nel territorio che gli altri chiamavano Palestina. Non meraviglia quindi, che Paolo stesso come ebreo cristiano, sia stato oggetto della doppia, contrastante valutazione.

Il particolarismo della cultura e della religione giudaica trovava tranquillamente posto all’interno di un’istituzione onnipervadente quale era l’impero romano.
Ma più difficile e sofferta sarà la posizione del gruppo di coloro, ebrei o gentili, che aderiranno con fede alla persona di Gesù di Nazaret, nella misura in cui essi si distingueranno sia dal giudaismo sia dal paganesimo imperante. In ogni caso, due fattori favorirono l’impegno di Paolo. Il primo fu la cultura greca o meglio ellenistica, che dopo Alessandro Magno era diventata patrimonio comune almeno del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente, sia pure integrando in sé molti elementi delle culture di popoli tradizionalmente giudicati barbari. Uno scrittore del tempo afferma, al riguardo, che Alessandro “ordinò che tutti ritenessero come patria l’intero ecumene… e che il Greco e il Barbaro non si distinguessero più” (Plutarco, De Alexandri Magni fortuna aut virtute, §§ 6.8). Il secondo fattore fu la struttura politico - amministrativa dell’impero romano, che garantiva pace e stabilità dalla Britannia fino all’Egitto meridionale, unificando un territorio dalle dimensioni mai viste prima. In questo spazio ci si poteva muovere con sufficiente libertà e sicurezza, usufruendo tra l’altro di un sistema stradale straordinario, e trovando in ogni punto di arrivo caratteristiche culturali di base che, senza andare a scapito dei valori locali, rappresentavano comunque un tessuto comune di unificazione super partes, tanto che il filosofo ebreo Filone Alessandrino, contemporaneo dello stesso Paolo, loda l’imperatore Augusto perché “ha composto in armonia tutti i popoli selvaggi…facendosi guardiano della pace” (Legatio ad Caium, §§ 146 - 147).

Paolo “uomo di tre culture”
La visione universalistica tipica della personalità di san Paolo, almeno del Paolo cristiano successivo all’evento della strada di Damasco, deve certamente il suo impulso di base alla fede in Gesù Cristo, in quanto la figura del Risorto si pone ormai al di là di ogni ristrettezza particolaristica; infatti, per l’Apostolo “non c’è più Giudeo o greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più maschio né femmina, ma tutti siete uno solo in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Tuttavia, anche la situazione storico - culturale del suo tempo e del suo ambiente non può non aver avuto un influsso sulle sue scelte e sul suo impegno. Qualcuno ha definito Paolo “uomo di tre culture”, tenendo conto della sua matrice giudaica, della sua lingua greca, e della sua prerogativa di “civis romanus”, come attesta anche il nome di origine latina. Va ricordata in specie la filosofia stoica, che era dominante al tempo di Paolo e che influì, se pur in misura marginale, anche sul cristianesimo. A questo punto non possiamo tacere alcuni nomi di filosofi come gli iniziatori Zenone e Cleante, e poi quelli cronologicamente più vicini a Paolo come Seneca, Musonio ed Epitteto: in essi si trovano valori altissimi di umanità e di sapienza, che saranno naturalmente recepiti nel cristianesimo. Come scrive ottimamente uno studioso della materia, “la Stoa… annunciò un nuovo ideale, che imponeva sì all’uomo dei doveri verso i suoi simili, ma nello stesso tempo lo liberava da tutti i legami fisici e nazionali e ne faceva un essere puramente spirituale” (M. Pohlenz, La Stoa, I, Firenze 2 1978, pagg. 565s). Si pensi, per esempio, alla dottrina dell’universo inteso come un unico grande corpo armonioso, e conseguentemente alla dottrina dell’uguaglianza tra tutti gli uomini senza distinzioni sociali, all’equiparazione almeno di principio tra l’uomo e la donna, e poi all’ideale della frugalità, della giusta misura e del dominio di sé per evitare ogni eccesso. Quando Paolo scrive ai Filippesi: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8), non fa che riprendere, nel connubio di fede - ragione - amore, come di Gerusalemme - Atene, una concezione prettamente umanistica propria di quella sapienza filosofica.

“Dio non dimora in templi costruiti da mani d’uomo… ma in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,24.28)
Al tempo di san Paolo era in atto anche una crisi della religione tradizionale, almeno nei suoi aspetti mitologici e anche civici. Paolo ricorda agli Efesini come prima del loro incontro con Cristo, fossero “senza speranza e senza Dio nel mondo” (Ef 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano “senza Dio” e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. Dopo che Lucrezio, già un secolo prima, aveva polemicamente sentenziato che “la religione ha condotto a tanti misfatti” (De rerum natura, 1, 101), un filosofo come Seneca, andando ben al di là di ogni ritualismo esterioristico, insegnava che “Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te” (Lettere a Lucilio, 41,1). Analogamente, quando Paolo si rivolge a un uditorio di filosofi epicurei e stoici illuministi dell’Areopago di Atene, dice testualmente che “Dio non dimora in templi costruiti da mani d’uomo… ma in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,24.28). Con ciò egli riecheggia certamente la fede giudaica in un Dio non rappresentabile in termini antropomorfici, ma si pone anche su di una lunghezza d’onda religiosa che i suoi uditori conoscevano bene. Dobbiamo inoltre tenere conto del fatto che ormai molti culti pagani prescindevano dai templi ufficiali della città, e si svolgevano in luoghi privati che favorivano nella conoscenza l’iniziazione degli adepti. Non costituiva perciò motivo di meraviglia che anche le riunioni cristiane (le ekklesìai), come ci attestano soprattutto le Lettere paoline, avvenissero in case private. Al momento, del resto, non esisteva ancora alcun edificio pubblico. Pertanto i raduni dei cristiani doveva apparire ai contemporanei come una semplice variante di questa loro prassi religiosa più intima. Comunque, le differenze tra i culti pagani e il culto cristiano non sono di poco conto e riguardano tanto la coscienza identitaria dei partecipanti quanto la partecipazione in comune di uomini e donne,schiavi e liberi, ricchi e poveri,alla celebrazione della “cena del Signore” e alla lettura delle Scritture.

“Lo scopo dell’Anno Paolino: imparare la fede, imparare il Cristo, imparare infine la strada della retta vita”
Da questa rapida carrellata sull’ambiente culturale del primo secolo dell’era cristiana appare chiaro, per Benedetto XVI, che non è possibile comprendere adeguatamente san Paolo senza collocarlo sullo sfondo, tanto giudaico quanto pagano, tanto greco quanto romano, del suo tempo. E in questo modo la sua figura acquista un spessore storico e ideale, rivelando, nel rapporto fede - ragione, natura - soprannatura, insieme condivisione e originalità nei confronti dell’ambiente. Ma ciò vale analogamente per il cristianesimo in continuità fino a noi, di cui appunto l’apostolo Paolo è un paradigma di prim’ordine, dal quale tutti abbiamo ancora sempre molto da imparare. Nella Catechesi del 25-10-2006 Papa Benedetto leggeva la parabola spirituale di san Paolo a partire da una domanda molto semplice e che tutti, di fronte all’urgenza di una nuova evangelizzazione di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, non possiamo non porci: “Come avviene l’incontro di un essere umano con Cristo anche oggi?”. Nel narrare l’avvenimento dell’incontro di Paolo con la Persona di Gesù Cristo emerge come può avvenire, pur in modalità diverse, l’essere cristiani anche oggi. Non è il risultato di un ragionamento, figlio di una logica solo umana, ma il frutto dell’intervento divino, di “una imprevedibile grazia divina” che fa appello all’intelligenza, perché svela all’uomo la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Narrando il cambiamento di Paolo ci si trova di fronte “a questo non cercarsi da sé ma riceversi da Cristo” (Catechesi, 8-11-2006), che rappresenta la prima caratteristica dell’identità cristiana. Paolo, che prima del cambiamento “non era stato un uomo lontano da Dio e dalla sua Legge” e anzi “era un osservante, con una osservanza fedele fino al fanatismo”, alla luce dell’incontro con Cristo, capisce che aveva cercato, come faceva la filosofia greca, solo se stesso e la propria giustizia. L’esperienza di Paolo sulla via di Damasco ci invita perciò a riconoscere prioritaria l’azione di Dio, o attraverso il suo popolo o l’interrogarsi della filosofia ellenistica come di altre culture, nella nostra vita e a prendere sempre più consapevolezza di questo ininterrotto movimento di Dio verso ogni uomo, anche di oggi, che esprime il dato più universale, cattolico della fede. “Infatti ciò che noi siamo - commenta papa Benedetto nella Catechesi dell’8-11-2006 - in quanto cristiani lo dobbiamo solo a Dio e alla sua grazia”. E’ evidente la conseguenza antroplogica anche sull’uomo di oggi abituato a fare affidamento solo sulle sue forze e a credersi unico artefice del proprio destino, oggi con la tecnoscienza e la politica. All’homo faber tentato di non ammettere che non tutto dipende da lui e che non è la scienza che lo redime ma l’amore che viene da Dio in Cristo, a quest’uomo Paolo insegna che si può giungere a una speranza affidabile solo in Dio, non in un dio qualsiasi, ma incontrando quel Dio che possiede un volto umano, che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. E il suo regno non è un al di là immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è già presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge e noi ce ne rendiamo conto. Dio non solo ama, ma è Amore, grazia e quindi non tutto dipende da noi. La prima mossa la fa sempre Lui e noi, attraverso testimoni che evangelizzano, siamo spinti a rendercene conto. E’ Dio che chiama. E’ Dio che sceglie. E’ Dio che è sempre all’opera: “E’ Lui che ci ha amati per primo”, scrive l’evangelista Giovanni (1 Gv 4,19), e noi, attraverso testimonianze, possiamo solo coglierlo e entrare in questo movimento e assecondarlo, sforzandoci di comprenderlo sempre più profondamente per aderire alla sua chiamata, alla sua volontà e al desiderio del cuore di ogni uomo, anche dell’uomo secolarizzato.
Come, allora, oggi evangelizzare rivelando insieme condivisione con la scienza che può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità e originalità di fronte al rischio che essa può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa? Purtroppo il cristianesimo moderno, pur avendo fatto e continuando a fare molto nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza personale. Come riaprire l’orizzonte della sua speranza e riconoscere sufficientemente anche la grandezza del suo compito di grande apertura all’umanità e alle sue culture nel contesto socio - culturale di oggi che non differisce poi molto da quello di allora, da quello di Paolo? L’Anno Paolino può essere una grande occasione di rinnovamento.

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