La familiarità della speranza
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«L’obiettivo che ci siamo proposti per il prossimo anno pastorale, (di fronte a quella “emergenza educativa” che rappresenta per tutti una grande e ineludibile sfida), fa ancora riferimento all’educazione nell’ottica della speranza teologale, che si nutre della fede e della fiducia nel Dio che in Gesù Cristo si è rivelato come il vero amico dell’uomo. “Gesù è risorto: educare alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza”… Gesù risorto dai morti è veramente il fondamento indefettibile su cui poggia la nostra fede e la nostra speranza. Lo è fin dall’inizio, fin dagli Apostoli, che sono stati testimoni diretti della sua risurrezione e l’hanno annunciata al mondo al prezzo della loro vita. Lo è oggi e lo sarà sempre. Come scrive l’Apostolo Paolo nel capitolo XV della prima Lettera ai Corinzi, “se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (v. 14), se “noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (v. 19). Ripeto a voi ciò che dissi il 19 ottobre 2006 al Convegno ecclesiale di Verona: “La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo versa una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazaret, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo”.
Nella luce di Gesù risorto dai morti possiamo dunque comprendere le vere dimensioni della fede cristiana, come “speranza che trasforma e sorregge la nostra vita” (Spe salvi, 10), liberandoci da quegli equivoci e da quelle false alternative che nel corso dei secoli hanno ristretto e indebolito il respiro della nostra speranza. In concreto, la speranza di chi crede nel Dio che ha risuscitato Gesù dai morti si protende con tutta se stessa verso quella felicità e quella gioia piena e totale che noi chiamiamo vita eterna, ma proprio per questo investe, anima e trasforma la nostra quotidiana esistenza terrena, dà un orientamento e un significato non effimero alle nostre piccole speranze come agli sforzi che noi compiamo per cambiare e rendere meno ingiusto il mondo nel quale viviamo. Analogamente, la speranza cristiana riguarda certo in modo personale ciascuno di noi, la salvezza eterna del nostro io e la sua vita in questo mondo, ma è anche speranza comunitaria, speranza per la Chiesa e per l’intera famiglia umana, è cioè sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me» [Benedetto XVI, Apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma sul tema: “Gesù è Risorto: educare alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza”, 9 giugno 2008].
Nella società e nella cultura di oggi non è facile tramandare tra generazioni quella speranza affidabile che ci è offerta solo dalla redenzione, speranza in virtù della quale i giovani possono affrontare il futuro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere da loro vissuto ed accettato con entusiasmo se vedono che conduce verso una meta e se di questa meta, sulla testimonianza di chi educa, possono giungere ad essere sicuri, se colgono che questa meta è così sicura e così grande da giustificare la fatica del cammino.
Ma nella società, nel modo comune di pensare e quindi nella cultura di oggi non è facile vivere nel segno della speranza cristiana e partire da essa per ogni scelta. Da una parte, infatti, prevalgono spesso atteggiamenti di sfiducia, delusione e rassegnazione, che contraddicono e tolgono la certezza della “grande speranza” della fede, ma anche distolgono anche da quelle “piccole speranze” di cui abbiamo bisogno e che, giorno, per giorno, ci mantengono in cammino, ci confortano nello sforzo di raggiungere gli obiettivi dandoci la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio di qualificare in meglio il mondo, la storia che per loro natura sono imperfetti. E’ sempre più diffusa la sensazione che, per l’Italia come per l’Europa, addirittura per l’Occidente, gli anni migliori siano ormai alle spalle e che un destino di precarietà e di incertezza attenda le nuove generazioni. Dall’altra parte, le aspettative di grandi novità e miglioramenti si concentrano sulle scienze e sulle tecnologie, quindi sulle forze e le scoperte dell’uomo, come se da esse potessero venire la soluzione di tutti i problemi. Sarebbe insensato negare o minimizzare l’enorme contributo delle scienze e tecnologie alla trasformazione del mondo e delle nostre concrete condizioni di vita, ma sarebbe altrettanto miope ignorare che i loro progressi mettono nelle mani dell’uomo anche abissali possibilità di male e che, in ogni caso, non sono le scienze e le tecnologie a poter dare un senso alla nostra vita e a poterci insegnare a distinguere il bene dal male. Anche a livello personale l’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze - più piccole e più grandi - diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa professione, dell’uno o dell’altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto che il cuore attendeva. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato, con una drammatica frattura tra Vangelo e cultura, la speranza dell’instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza, della tecnica (rivoluzione borghese del 1789) e ad una politica scientificamente fondata (rivoluzione proletaria avviata da Marx nel 1848 e verificata nel modo più radicale in Russia), sembrava essere diventata realizzabile. Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero “regno di Dio”. Questa sembrava finalmente la speranza grande e realistica, di cui l’uomo ha bisogno. Essa era in grado di mobilitare - per un certo tempo - tutte le energie dell’uomo, a cominciare soprattutto dai giovani; il grande obiettivo sembrava meritevole di ogni impegno, seducendo soprattutto i giovani e provocando spesso una frattura fra generazioni. Ma oggi stiamo constatando e cogliendo il motivo più profondo e decisivo della speranza nel mondo in cui viviamo. La drammatica frattura tra fede e vita, tra Vangelo e cultura, tra storia e interrogativi ultimi e la crisi delle due ideologie moderne sono a monte dell’emergenza educativa, come si fosse spezzato il tramandare, il racconto tra padri e figli. Se il tramandare ai figli, ai giovani piccole o grandi speranze di qualificare in meglio la storia si interrompe, sono come sradicati, orfani di una dimora spirituale poiché la sapienza delle grandi tradizioni religiose, delle radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente sono gettate, dalla attuale dittature relativistica, nel cestino della storia creando una mentalità comune cioè una cultura senza verità e libertà: in questa cultura l’educazione non diventa difficile, ma impossibile. L’atto educativo stesso è percepito quasi come un sopruso: “deciderà lui - dicono i genitori -, quando sarà grande” e così si creano non degli uomini liberi ma degli schiavi. Per Benedetto XVI, dopo venti secoli in questa Europa che crebbe sugli scritti dei Padri della Chiesa e in essa la massima espressione dell’arte era ispirata e intrisa di cristianesimo e in cui la carità diede forma alla vita civile, alla assistenza dei malati, della famiglia, si ritorna - è questo un giudizio di Benedetto XVI da condividere - alla situazione descritta dall’Apostolo Paolo ai cristiani di Efeso, quando ricordava loro che, prima di incontrare Cristo, erano “senza speranza e senza Dio nel mondo” (Ef 2,12). Anche chi con fatica e buona volontà tenta di educare i figli, e trasmettere “ valori” - ma è possibile trasmettere “valori” senza incontrare Cristo e la possibilità ecclesiale di vivere in comunione? - spesso si accorge di parlare nel vuoto, in solitudine. Molti si chiedono: siamo onesti, lavoriamo, perché di tutto questo così poco sembra riuscire a “passare” ai nostri figli? La nostra civiltà e la nostra cultura Europea, Occidentale, che pure hanno incontrato Cristo ormai in continuità da due mila anni sarebbero irriconoscibili senza la sua speranza, tendono tuttavia troppo spesso a mettere Dio tra parentesi, ad organizzare senza di Lui la vita personale e sociale, ed anche a ritenere che di Dio non si possa conoscere nulla, o perfino a negare la sua esistenza. Nell’attuale globalizzazione popoli di altre culture sono entusiasti di fronte all’enorme contributo occidentale delle scienze e delle tecnologie, quindi delle scoperte per la soluzione di tanti problemi, ma trovano difficoltà di fronte all’abbinamento secolaristico per cui Dio è lasciato da parte per cui nessuna delle cose che veramente premono in ogni io umano trovano una stabile collocazione e quindi tutte le grandi e piccole speranze poggiano sul vuoto, creano solitudine. Certo molti cristiani, osserva Benedetto XVI, non sono preparati a una vera comprensione della modernità ma non si può, in questo momento, disattendere il desiderio di una pienezza di umanità: vediamo allora come educarci concretamente alla speranza, rivolgendo la nostra attenzione ad alcuni “luoghi” del suo pratico apprendimento ed effettivo esercizio,già individuati nella Spe salvi.
Educare alla speranza nelle preghiera, nell’azione, nella sofferenza
Primo essenziale luogo di apprendimento della speranza è la preghiera, con la quale ci apriamo personalmente e com’unitariamente e ci rivolgiamo a Colui che è l’origine e il fondamento della nostra speranza. La persona che prega non è mai totalmente sola perché Dio è l’unico che, in ogni situazione e in qualunque prova, è sempre in grado di ascoltarla e di aiutarla. Attraverso la perseveranza nella preghiera il Signore allarga il nostro desiderio e dilata il nostro animo, rendendoci più capaci di accoglierlo in noi. Il giusto modo di pregare è pertanto un processo di purificazione interiore. Dobbiamo esporci allo sguardo di Dio, a Dio stesso e così nella luce del volto di Dio cadono le menzogne, le ipocrisie, le false speranze. Questo esporsi nella preghiera al volto di Dio è realmente una purificazione che ci rinnova, ci libera e ci apre non solo a Dio, ma anche ai fratelli. La preghiera è dunque l’opposto di una fuga dalle nostre responsabilità verso il prossimo. Al contrario, attraverso la preghiera impariamo a tenere il mondo aperto a Dio e a diventare ministri della speranza per altri. Perché parlando con Dio vediamo tutta la comunità della Chiesa, comunità umana, tutti i fratelli, e impariamo così la responsabilità per gli altri e anche la speranza che Dio ci aiuta nel nostro cammino. Educare alla preghiera, apprendere “l’arte della preghiera” dalle labbra del Maestro divino, come i primi discepoli che gli chiedevano “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1), è pertanto un compito essenziale. Imparando la preghiera, impariamo a vivere e la preghiera guidata ed illuminata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi, dalla preghiera liturgica, nella quale il Signore ci insegna continuamente a pregare nel modo giusto arriviamo a vivere meglio. Benedetto XVI rinnova l’invito della Lettera apostolica Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II “le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprime soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore” (n. 33): così la speranza crescerà in noi. E crescerà con la speranza l’amore di Dio e del prossimo.
Ma “Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto” (Spe salvi, n. 35). Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole e più grandi: risolvere questo o quell’altro compito che per l’ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno di discepoli di Cristo partecipiamo con gioia allo sforzo di rendere più bello, più umano e fraterno il volto del nostro ambiente di vita e di lavoro, per rinvigorire la speranza e la gioia di un’appartenenza comune. La consapevolezza acuta e diffusa dei mali e dei problemi attuali non può non risvegliare la volontà di un bene umano vero cioè un bene, uno sforzo comune, condiviso poiché gli interessi solo individuali dividono. Si tratta della educazione e della formazione di ogni persona, della promozione di una cultura e quindi di una organizzazione sociale più favorevoli alla famiglia e all’accoglienza della vita, oltre che della valorizzazione delle persone anziane. Si tratta di lavorare per dare risposta a quei bisogni primari che sono il lavoro e la casa, soprattutto per i giovani, di rendere più sicura e più vivibile la città e perché essa lo sia per tutti, per i più poveri e per l’immigrato che viene tra noi con l’intenzione di trovare spazio di vita nel rispetto delle nostre leggi.
Ma qual è l’atteggiamento e lo stile proprio di chi lavora, di chi si impegna per il bene umano vero cioè comune ponendo anzitutto la speranza in Dio? E’ un atteggiamento di umiltà, che non pretende di avere sempre successo, o di essere sempre in grado di risolvere ogni problema con le proprie forze. E tuttavia è un atteggiamento di fiducia nel tentare e ritentare con speranza e coraggio: il credente sa infatti che, nonostante tutte le difficoltà e i fallimenti, la sua vita, il suo operare e la storia nel suo insieme sono custoditi nel potere indistruttibile dell’amore di Dio che vede e provvede con una onnipotenza più grande delle nostre necessità: quello che viviamo è il tempo migliore della storia; operare e storia non sono mai senza frutto e privi di senso. In questo orizzonte si può comprendere più facilmente che la speranza cristiana vive anche nella sofferenza, anzi, che proprio la sofferenza educa e fortifica a titolo speciale la nostra speranza. Certo “dobbiamo fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psiche” (Spe salvi, 36) e grandi progressi sono stati effettivamente compiuti, in particolare nella lotta contro il dolore fisico, meno sulle ferite psichiche. Ma non possiamo permettere l’illusione di poter eliminare del tutto la sofferenza dal mondo, perché non è in nostro potere prosciugare le sue fonti: la finitezza del nostro essere e il potere del male e della colpa. Benedetto XVI constata che la sofferenza degli innocenti e anche i disagi psichici tendono purtroppo a crescere nel mondo. “In realtà - afferma Benedetto XVI - l’esperienza umana di oggi e di sempre, in particolare l’esperienza dei Santi e dei Martiri, conferma la grande verità cristiana che non la fuga davanti al dolore guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e di maturare in essa, trovandovi un senso mediante l’unione a Cristo. Nel rapporto con la sofferenza e con le persone sofferenti si determina pertanto la misura della nostra umanità, per ciascuno di noi come per la società in cui viviamo. Alla fede cristiana spetta questo merito storico, di aver suscitato nell’uomo, in maniera nuova e a una profondità nuova, la capacità di condividere anche interiormente la sofferenza dell’altro, che così non è più solo nella sua sofferenza, e anche di soffrire per amore del bene, della verità e della giustizia: tutto questo sta molto al di sopra delle nostre forze, ma diventa possibile a partire dal com-patire di Dio per amore dell’uomo nella passione di Cristo”. Per educarci ogni giorno alla speranza che matura nella sofferenza, soprattutto quando siamo colpiti personalmente da una grave malattia o da una qualche altra dura prova urge raccogliere l’invocazione di salvezza che ogni uomo consapevolmente o no rivolge alla Chiesa: ridateci la possibilità di vivere una vera comunione attraverso l’aiuto concreto e la vicinanza quotidiana alla sofferenza sia dei nostri vicini e familiari e sia di ogni persona che è il nostro prossimo. Cristo è venuto e viene in ogni incontro proprio per questo, per raccogliere divisi, indifferenti gli uni agli altri, dispersi, soli. E’ la sfida di evangelizzazione a partire dall’attuale situazione concreta per offrire al Dio ricco di misericordia le piccole fatiche dell’esistenza quotidiana, inserendole umilmente nel grande “com-patire” di Gesù, in quel tesoro di compassione di cui ha bisogno il genere umano.
Non è più possibile quella fede che si accontenta di essere esclamata, professata, anche celebrata e pregata senza essere pensata, per avere la possibilità di guidare l’uomo verso gli interrogativi ultimi. “La speranza dei credenti in Cristo - conclude Benedetto XVI - non può, comunque, fermarsi a questo mondo, ma è intrinsecamente orientata verso al comunione piena ed eterna con il Signore. Perciò verso la fine della mia Enciclica mi sono soffermato sul Giudizio di Dio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza. Ho cercato così di rendere di nuovo in qualche modo familiare e comprensibile all’umanità e alla cultura del nostro tempo la salvezza che ci è promessa nel mondo al di là della morte, sebbene di quel mondo non possiamo avere quaggiù una vera e propria esperienza. Per restituire all’educazione alla speranza le sue vere dimensioni e la sua motivazione decisiva, noi tutti, a cominciare dai sacerdoti e dai catechisti, dobbiamo rimettere al centro la proposta della fede questa grande verità, che ha la sua “primizia” in Gesù Cristo risorto dai morti (1 Cor 15,20-23)”.