Fede, ragione, amore
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«Come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est, all’inizio dell’essere cristiano - e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti - non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1) (rivelando in pienezza sia chi è Dio e sia chi è ogni uomo, da dove veniamo e dove andiamo). La fecondità di questo incontro si manifesta, in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo - che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico - suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. E’ questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza» [Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona].
Antonio Livi, decano della pontificia Università Lateranense dove insegna Filosofia della conoscenza, in un articolo su Studi Cattolici maggio 2008, delinea una mappa dell’essenza razionale del cristianesimo come emerge in Papa Ratzinger. Rifacendomi liberamente ai contenuti di tale qualificato intervento ritengo utile riproporlo per arginare le molteplici derive relativistiche conseguenti a una cultura e a una vita pubblica in cui Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo ed estraneo e l’uomo considerato un semplice prodotto della natura e quindi come tale non realmente libero perché incapace di verità e quindi di amare e di essere amato. Si tratta, all’interno del “progetto culturale” della Chiesa in Italia, di porre le condizioni perché l’azione pastorale della Chiesa possa dispiegarsi attraverso l’evangelizzazione, la catechesi, la fede celebrata, vissuta e pregata superando anche i rischi del fideismo.
In tutti gli interventi magisteriali di Benedetto XVI ma soprattutto in quello pronunciato all’Università di Ratisbona, in quello che doveva essere pronunciato all’Università di Roma “La Sapienza”, in particolare in quello di Verona, confermano come l’attuale Pontefice punti all’esigenza di mettere in luce, di fronte alla sfiducia riguardo alla possibilità, per l’uomo, di conoscere la verità su Dio e su se stesso e i dubbi che le scienze moderne, naturali e storiche, sollevano riguardo ai contenuti e alle origini del cristianesimo, la dimensione veritativa della fede cristiana alla ragione del nostro tempo. Non si tratta solo e prioritariamente di una esigenza teoretica ma di una esigenza squisitamente pastorale circa la “verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo” poiché all’inizio del terzo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa e in Occidente, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa di verità e quindi di universalità, di cattolicità di fronte alla dittatura e alle nebbie del relativismo e di una ragione rinchiusa nell’empiricamente verificabile.
La Provvidenza orienta anche nella scelta di chi succede a Pietro, dandoci un uomo adeguato alle attuali necessità per una naturale continuità tra le convinzioni di Joseph Ratzinger, prima come teologo e filosofo, poi come vescovo, cardinale, prefetto della Congregazione della fede e infine come Papa. Tale continuità dimostra che tutti i temi teologici riguardanti la Rivelazione e la fede (che non devono essere ristretti alla teologia fondamentale, perché si ritrovano anche nella teologia trinitaria, nella cristologia e nell’ecclesiologia e quindi pastoralmente nella evangelizzazione, nella fede celebrata e nella catechesi) implicano la chiara consapevolezza che di sua natura la fede fa appello all’intelligenza, perché svela ad ogni uomo chi è nel proprio e altrui essere dono del Donatore divino e nel mondo che lo circonda, nella storia con la presenza del male, la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo liberamente, responsabilmente cioè per amore nel rischio di rifiutarlo. Anche se la verità rivelata nella testimonianza biblica è superiore ad ogni nostro dire e i nostri concetti sono imperfetti di fronte alla sua grandezza ultimamente insondabile (Ef 3,19), essa tuttavia, per la sua struttura logica di base, invita la ragione - dono di Dio fatto per conoscere la realtà in tutti i fattori cioè la verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza - ad entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una certa misura quanto ha creduto. E la mediazione della scienza teologica, rispondendo all’invito della voce della verità, cerca l’intelligenza della fede e aiuta il Popolo di Dio, secondo il comandamento dell’apostolo (1 Pt 3,15), a rendere conto della speranza a coloro che lo richiedono e offre il suo contributo perché la fede divenga comunicabile, e l’intelligenza di coloro che non conoscono ancora il Cristo possa ricercarlo e trovarlo. In comunione con il Magistero la mediazione della scienza teologica, che obbedisce all’impulso della verità che tende a comunicarsi, nasce anche dall’amore e dal suo dinamismo: nell’atto di fede, l’uomo giunge a conoscere la bontà di Dio, non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano, che ci ha amati ogni singolo e l’umanità nel suo insieme, anzi che è Amore e comincia ad amarlo, ma l’amore desidera conoscere sempre meglio colui che ama. Ma tale struttura logica di base non può essere adeguatamente compresa se non alla luce della riflessione filosofica, senza però confondere lo strumento scientifico dell’indagine, che è appunto la scienza filosofica, con l’oggetto dell’indagine stessa, che non è la razionalità nella mediazione scientifica propria della filosofia, bensì la razionalità essenziale che è patrimonio comune della coscienza umana, quella che la filosofia moderna denomina “senso comune”, mentre il magistero ecclesiastico preferisce parlare di “filosofia implicita” (Fides et ratio, 14). Ecco perché Gesù ha effettuato l’emancipazione dei semplici, rivendicando anche per loro, la facoltà di essere, nel vero senso della parola, “filosofi” cioè capaci della verità di Dio e delle cose divine e umane.
Non si tratta di questioni secondarie o addirittura estranee alla pastorale: al contrario, si tratta proprio di quelle certezze teologiche che dovrebbero sorreggere ogni iniziativa nel campo della catechesi e dell’evangelizzazione, della fede celebrata e vissuta e dell’insegnamento della religione nelle scuole: questo l’orientamento dottrinale e il criterio operativo che viene dagli insegnamenti e dall’esempio di Benedetto XVI. Comprendere - annota Antonio Livi - nel loro valore pastorale questi suoi insegnamenti e questo suo esempio servirà a farci ripensare la fede che professiamo e che dobbiamo propagare, riscoprendo in termini attuali quale sia nella sua verità la parola di Dio, quale sia nella sua verità la missione apostolica conferita da Cristo alla Chiesa, quale sia nella sua verità la risposta di fede che Dio si aspetta dagli “uditori della Parola” in vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata.
L’accentuazione della verità salvifica, nel magistero di Benedetto XVI, è il suo grande impegno proprio per il connubio verità, libertà, amore della fede cristiana nell’attuale situazione storica sia in rapporto a forme autolimitantesi di razionalità oggi prevalenti e sia a forme di pretesa libertà e amore senza verità. E questo vale non solo nell’opera di evangelizzazione, ossia nel dialogo con i “non credenti”, ai quali occorre comunicare il Vangelo in modo che risulti comprensibile e credibile oltre che umanamente significativo, ma anche nella catechesi alle diverse categorie di fedeli, perché occorre consolidare la fede cristiana di tante persone sotto l’influsso di una cultura secolarizzata e che vivono in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo ed estraneo.
Come accedere e proporre la verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo
La “razionalità della fede” o una “fede pensata” può essere intesa in riferimento agli enunciati di verità contenuti nella Rivelazione divina (fides quae creditur), oppure in riferimento all’atto di fede, conseguente all’avvenimento dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo nella Sua Chiesa che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva (fides qua creditur). Benedetto XVI è attento a tutti e due gli ambiti grazie al suo acume di teologo, ma soprattutto da Vescovo e da Papa grazie alla sua sensibilità di Pastore. Per lui urge inserire il discorso sulle ragioni intrinseche all’atto di fede conseguente all’incontro con la Persona di Gesù Cristo nella Sua Chiesa in un più ampio discorso sulla possibilità, per ogni uomo, di conoscere la verità su Dio e sulle cose divine e di rispondere ai dubbi che le scienze moderne, naturali e storiche, hanno sollevato riguardo ai contenuti e alle origini del cristianesimo. La rivendicazione della razionalità della fede cioè la pretesa di verità del cristianesimo è connessa in modo assolutamente coerente con la piena accettazione dell’istanza moderna della razionalità come essenza costitutiva della natura umana e come fondamento della dignità di ogni uomo e della sua libertà di coscienza. Evita sempre l’equivoco di parlare di una “logica della fede” come di qualcosa di diverso dalla logica come tale. La logica riguardante l’assenso a una qualsiasi ipotesi che si presenti come verità (episteme) esige che il soggetto abbia chiara coscienza dei motivi per cui lui personalmente, liberamente cioè per amore “prende per vero” quell’asserto, quella realtà. Se la “logica della fede” fosse qualcosa di diverso dalla “logica come tale”, non sarebbe più in assoluto una “logica”, e così non si potrebbe più rivendicare al cristianesimo la pretesa fin dalle origini di “religione vera”, pubblica, cioè una razionalità in senso proprio. Benedetto XVI, richiamandosi al magistero ecclesiastico degli ultimi due secoli (Dalla Costituzione dogmatica Dei Filius del Vaticano I all’enciclica Fides et ratio), ha insistito e insiste nel rifiuto di ogni fideismo in ogni sua forma. Il connubio o sapere sintetico di Essere, Logos, Agape fan parte della natura originaria del cristianesimo. E’ certamente vero che all’inizio dell’essere cristiani non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’avvenimento dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva, ma è altrettanto vero che l’opzione per il logos, e non per il mito, ha caratterizzato fin dall’inizio lo stesso cristianesimo, anzi la stessa Rivelazione. Ben prima della nascita di Cristo la critica dei miti religiosi compiuta dalla filosofia greca - critica che può definirsi come l’illuminismo filosofico dell’antichità - ha trovato un corrispettivo nella critica agli dei falsi condotta dai profeti di Israele e poi nell’incontro tra fede giudaica e filosofia greca dell’Antico Testamento dei “settanta”, che è più di una semplice traduzione e rappresenta uno specifico importante passo della storia della Rivelazione. Pertanto l’affermazione “In principio era il Logos”, con cui inizia il prologo del Vangelo di Giovanni, costituisce la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. Benedetto XVI cita la frase di Tertulliano:”Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine”. Il cristianesimo si qualifica pertanto fin dalle origini come “religione vera”, a differenza delle religioni pagane prive di verità agli occhi della stessa razionalità precristiana, e realizza rispetto ad esse un’opera di “demitizzazione”. In questo senso, l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero filosofico greco non è stato un semplice caso, ma la concretizzazione storica del rapporto intrinseco tra rivelazione e razionalità. E proprio la forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico - romano. Ma occorre anche sottolineare la novità radicale e la diversità profonda della rivelazione biblica rispetto alla mediazione della scienza razionale greca anzitutto sul tema centrale della religione, che è chiaramente Dio che liberamente crea e interviene per amore. Ratzinger mostra che l’“Io sono” che Gesù applica a se stesso nel Vangelo di Giovanni, l’unico Dio dell’Antico e del Nuovo testamento, è l’Essere che esiste da se stesso, tutto in atto fondamento dell’atto d’essere di ogni ente che viene all’esistenza ricercato logicamente dai filosofi. Ma questa autorivelazione di Dio nel suo essere supera radicalmente ciò che i filosofi erano giunti ad argomentare di Lui. Dio è nettamente distinto dalla natura, dal mondo che egli ha liberamente creato: così la “fisica” e la “metafisica” giungono a una chiara distinzione l’una dall’altra.
E soprattutto questo Dio non è una realtà inaccessibile, che noi non possiamo incontrare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera, come argomentavano i filosofi greci. Al contrario, il Dio biblico ama l’uomo, ogni uomo e per questo entra nella nostra storia, dà vita ad una autentica storia d’amore con Israele, suo popolo, e poi in Gesù Cristo, non solo dilata questa storia d’amore per tutti e per tutto e di salvezza dell’intera umanità ma la conduce all’estremo nella croce del proprio Figlio, per rialzare l’uomo e salvarlo, chiamandolo a quell’unione di amore con Lui che culmina nell’Eucaristia, Luce e Amore che illuminano tutta la storia ed aiutano a trovare la via verso il futuro. In questo modo il Dio che è l’Essere dei filosofi e il Verbo fatto carne è anche identicamente l’Agape, l’Amore originario e la misura dell’amore autentico, che proprio per amore ha creato, redento liberamente l’universo e l’uomo. Così Dio, per la fede cristiana attraverso la testimonianza biblica che risuona continuamente nella Chiesa, è dunque l’Essere Assoluto, tutto in Atto, il Dio della metafisica, ma è anche identicamente, il Dio della storia, il Dio che entra nella storia e nel più intimo rapporto con noi, con ogni persona e il suo regno non è un al di là immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è già inizialmente presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e con la ragione argomentiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita. E’ questa l’unica risposta adeguata alla questione del Dio della fede e del Dio dei filosofi, espressione di quel connubio, di quel sapere sintetico fede- ragione - agape, tipico della tradizione cattolica.
Benedetto XVI, denunciando i limiti di un arbitrario razionalismo astorico che riduce la ragione alla comprensione concettuale idealistica, alla funzione dimostrativa o alla verifica solo empirica, ha cercato sempre di mostrare come la “razionalità” correttamente intesa in rapporto alla realtà in tutti gli ambiti sia costituita anche di esperienza vitale, di vaglio delle testimonianze storiche, di radicamento della sapienza delle grandi tradizioni religiose e tra queste in una tradizione riconosciuta: insomma, una razionalità non riduttiva, e ciò nonostante, anzi proprio per questo, una razionalità autentica.
Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità mantenendo desta la sensibilità per la verità, invitando sempre la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e percepire in Gesù Cristo le ragioni del credere nella sua verità salvifica. Di fronte ad una ragione a-storica propria di un arbitrario razionalismo che riduce la ragione solo alla comprensione concettuale, alla funzione dimostrativa o alla verifica solo empirica, la sapienza dell’umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose costituite anche di esperienza vitale, di percezione di valori, di comunicazione del sapere, di vaglio di testimonianze storiche, di radicamento in una tradizione riconosciuta - è da valorizzare come realtà in tutti fattori, come verità che non si può impunemente gettare nel cestino della storia: insomma, una razionalità non riduttiva della realtà, e ciò nonostante, anzi per questo, una razionalità autentica.
Proprio per questa sua nozione di razionalità umana “aperta” o “comprensiva”, Benedetto XVI ha esplicitamente connesso la rivendicazione della razionalità, della verità del cristianesimo all’apertura delle grandi questioni del vero e del bene, al recupero delle verità di ordine “naturale”, soprattutto quelle riguardanti l’ordine morale (quindi il necessario consenso sui principi della legge naturale) e soprattutto la ricerca di Dio (quindi il diritto fondamentale di ogni persona e di ogni popolo alla libertà religiosa). Queste verità riguardano la natura umana e la sua razionalità costitutiva, e pertanto i Pastori, il dialogo ecumenico cristiano e tra religioni, non possono permettere che queste verità siano offuscate, nella coscienza degli uomini del nostro tempo, dalla pressione delle ideologie relativistiche. Salvare la retta ragione tra tutti gli uomini del nostro tempo, destare continuamente la sensibilità per la verità, anche attraverso la dottrina sociale della Chiesa, non è una operazione di tipo politico, quasi che la Chiesa volesse mirare ad una egemonia imponendo la “sua” morale ad una società secolarizzata, in uno Stato geloso della sua “laicità”: è una esigenza pastorale perché senza le premesse di una ragione alla ricerca del vero, del bene, di Dio non è possibile percepire Gesù Cristo come via alla Verità, come Luce che illumina la storia, come aiuto a trovare la via verso il futuro.
“Dittatura del relativismo” e la “canonizzazione del relativismo”
Benedetto XVI, alla luce del Concilio Vaticano II, continua a ripetere di non cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà ma di vincere la sfiducia riguardo alla possibilità originaria, naturale per ogni uomo di conoscere il vero, il bene, Dio e quindi di poter percepire l’annuncio della fede cioè della verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo insidiata dalla “dittatura del relativismo” e dalla sua canonizzazione in una laicità negativa. Fa ricorso a queste espressioni sintetiche e icastiche nella convinzione che esse servano a mantenere e a sviluppare sempre più il dialogo pastorale con quella cultura che gode oggi di una posizione egemone, dominante negli ambienti scientifici e accademici e che orienta decisamente, attraverso la divulgazione operata dai mass media, la cultura di massa. Esiste il pericolo che la filosofia non sentendosi capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - tutta presa dalla sua presunta purezza - diventa sorda di fronte alla realtà che le viene dal grande messaggio della fede cristiana e della sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola, non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma. Questa cultura, che ai nostri giorni si può dire “globalizzata” in senso secolaristico, manifesta sempre più un atteggiamento scettico pur con una nostalgia dei valori religiosi perché la coscienza delle singole persone non è mai del tutto sorda ai richiami della verità sul mondo, sull’anima e su Dio (le certezze che Kant considera dei meri “postulati” e che invece hanno il valore di fondamento che Vico attribuisce al “senso comune”). Benedetto XVI si rivolge con fiducia alla coscienza di ogni persona e alle sue convinzioni di fondo, utilizzando anche la mediazione dei filosofi oggi più ascoltati, anche malgrado la loro chiusura al dialogo. Perché terreno di incontro, ossia - in termini strettamente logici -le premesse del dialogo sono nella comune ragione naturale, nei comandamenti, nei valori non negoziabili. Catechesi ed evangelizzazione sono unite in questa ricerca delle premesse comunicanti e comunicabili: comunicanti in quanto già sono presenti e operanti nella coscienza di tutti gli uomini prima di ogni legalizzazione, e costituiscono quella sapienza naturale, quella “filosofia implicita” o “senso comune” che la filosofia “esplicita”, ossia la sapienza che si esprime in forma di scienza sistematica, non può non assumere come riferimento reale, come punto di partenza; poi comunicabili in quanto il comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo consente l’intesa e il consenso, ossia appunto la comunicazione tra persone, tra religioni, tra confessioni, tra culture o sistemi di pensiero.
Storicamente la frattura della sintesi tra fede - ragione - amore è il dramma progressivo dei tempi moderni
Fin da giovane il futuro Papa Benedetto XVI ha tentato e teorizzato la necessità del dialogo tra fede professata, celebrata, vissuta, pregata e ragione filosofica, e si è sempre mostrato egli stesso disponibile in prima persona a un confronto critico, pronto ad apprezzare tutto ciò che di valido poteva scorgere nelle proposte filosofiche del nostro tempo in rapporto con ciò che si dimostra “ragionevole” nella comunità credente, nella quale durante i secoli è maturata una determinata sapienza della vita, che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità.
E’ possibile documentare questo suo atteggiamento di studioso a partire dalla sua prima prolusione accademica o lezione di inizio carriera tenuta all’Università di Bonn, dove era stato nominato ordinario di Teologia fondamentale: era il 24 giugno 1959, e il trentaduenne professor Ratzinger cominciava allora il suo percorso accademico che lo porterà poi ad insegnare a Munster (nel 1963), a Tubinga (nel 1966) e infine a Ratisbona (nel 1969). Scelse il tema Il Dio della fede e il Dio dei filosofi. Quella era la questione che già durante gli studi a Monaco di Baviera aveva approfondito con un appassionato lavoro di ricerca e che continuerà ad approfondire fino ad oggi; egli stesso lo scriveva nella prefazione dell’ultima edizione tedesca del libro, un anno prima di essere Papa: “Le domande poste allora sono rimaste fino ad oggi, per così dire, il filo conduttore del mio pensiero”. Ecco perché il testo recentissimo della prolusione all’Università di Ratisbona è significativo in quanto vi si possono rilevare, in positivo, gli argomenti teologici a favore di una considerazione della fede cristiana come capace di una logica riguardante l’assenso a tutte le ipotesi che si presentino come verità, e in negativo la critica del fideismo in tutte le sue forme.
Nella prolusione a Bonn, infatti, Joseph Ratzinger partiva da Pascal e dalla sua celebre distinzione, spesso abusata, tra “il Dio dei filosofi” e “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, tra il Dio che parla all’uomo e il Dio di Descartes, che Pascal ritiene “inutile e incerto”, concepito solo per sostenere razionalisticamente un sistema di pensiero, ma del tutto irrilevante per la vita degli uomini, perché non è il vero Dio, che è Amore e misericordia.. Il giovane docente non intende però seguire Pascal, seconda la consueta e arbitraria interpretazione fideistica: egli non accetta di relegare la religione nella sfera del sentimento né collocare la fede cristiana al di fuori della razionalità o ragionevolezza. Ecco il ragionamento sul Logos, che Ratzinger poi riproporrà anche a Ratisbona, cioè sull’archetipo interpretativo della filosofia ellenica, che “la sintesi operata dai Padri della Chiesa tra la fede biblica e lo spirito ellenico …fu non solo legittima, ma anche necessaria, per dare espressione alla piena esigenza e a tutta la serietà della fede biblica”.
Ratzinger, che pure ha sempre preferito meditare i testi di Platone, di Agostino e di Bonaventura piuttosto che quelli di Aristotele e di Tommaso d’Aquino, non esita a ispirarsi proprio alla teologia tommasiana nel discorso che avrebbe dovuto tenere alla Sapienza: “l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione e senza separazione”. “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione di cammino”. Per cui si può affermare che “Dio della religione e Dio dei filosofi coincidono pienamente”, anche se il primo “aggiunge qualcosa” al secondo. Per questo è possibile superare la contrapposizione tra linguaggio della fede e linguaggio della ragione, tra ricerca filosofica e accoglienza della Rivelazione cristiana. Il futuro Papa spiegava infatti che il Dio d’Israele non è uno “dei consueti dèi delle nazioni”, né “alcuna delle forze sotterranee della fecondità”, ma è, invece, “lo stesso Principio assoluto del mondo”. Ogni ricerca filosofica che non escluda l’Assoluto riconosce l’esistenza di un Principio che non è ancora il Dio della rivelazione ebraica e cristiana, ma è razionalmente compatibile con esso. La conclusione di quella prima lezione è che “la sintesi operata dai Padri della Chiesa tra la fede biblica e lo spirito ellenico, in quanto rappresentante in quel momento dello spirito filosofico in genere, fu non solo legittima, ma anche necessaria, per dare espressione alla piena esigenza e a tutta la serietà della fede biblica”.
E’ appunto ciò che Ratzinger, già Papa, ha ribadito nel famoso discorso di Ratisbona e successivamente nel discorso che voleva pronunciare alla “Sapienza”. In quest’ultima occasione Benedetto XVI si riferisce in modo ancora più esplicito alla questione della giustificazione della logica riguardante l’assenso alla fede cristiana e della sua naturale connessione con la logica della ricerca umana della verità sul mondo, sui valori morali e su Dio: “I cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivistico né come via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio dal volto umano che è Ragione creatrice e al contempo Ragione - Amore sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Per questo, l’interrogarsi “della ragione sul Dio più grande”, come sulla vera natura dell’essere umano “era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma recava parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi”. Rifacendosi poi alla razionalità greca, all’arte “maieutica” di quel Socrate che aveva conosciuto leggendo Platone, Ratzinger insiste sulla connessione logica tra critica filosofica per una religiosità più profonda e più pura e ragionevolezza, razionalità della fede cristiana cioè i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita di desideri non appagati; l’hanno presa come dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è ragione creatrice e al contempo Ragione - Amore: “Non avevano bisogno quindi di scegliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità tutta intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università”.
Ecco: della filosofia greca i primi pensatori cristiani non presero certamente la pretesa razionalistica di un sapere umano autosufficiente e pago di sé, ma proprio quel sapere che non rinnega le evidenze originarie circa la realtà del mondo che dipende da un primo Principio (metafisica) e dell’uomo che cerca la felicità (etica), ma la problematizza, cercando appunto la “verità intera”. E non trascura di notare, Ratzinger, che il “suo” Platone ben comprese ed espresse la possibilità (da lui soltanto vagheggiata) che la “verità intera” cioè quel Dio che ha assunto un volto umano e che ci ha amati sino alla fine giungesse all’uomo dalla Trascendenza.
Quarantacinque anni dopo, nella prefazione scritta per una nuova edizione di quel testo, Ratzinger spiegherà come “le domande poste allora siano rimaste fino ad oggi, per così dire, il filo conduttore del mio pensiero”. La questione “urgente” culturalmente e pastoralmente e decisiva con cui fin dall’inizio il Professore allora e adesso Papa si misura è la drammatica separazione tra fede e ragione, tra Vangelo e cultura, che vede la religione confinata nell’ambito del tutto estraneo alla ragione, dunque sentimentale, intimistico, soggettivo, con una speranza solo individualistica, senza alcuna rilevanza pubblica. Una religione contrapposta al pregiudizio razionalistico per il quale, a partire da Kant, si insiste nel negare a priori ogni possibilità di conoscere Dio e le cose divine.
Non un sistema filosofico, ma la “filosofia implicita” può e deve essere lo strumento razionale per cogliere la ragionevolezza della fede
Proprio per la logica riguardante l’assenso a una qualsiasi ipotesi che si presenti come verità e che regola ogni coscienza umana in ogni campo di conoscenza Ratzinger non poteva non tener conto delle proposte che vengono dalla ragione filosofica, sia che si tratti del pensiero precristiano sia che si tratti del pensiero cristiano o di quello attuale postcristiano. E per gli stessi motivi, però, egli non ha fondato la sua teologia su una particolare concezione filosofica (e al Concilio fu d’accordo nel riferimento a Tommaso come guida cattolica per il metodo teologico, non come sistema filosofico unico), perché non ha ritenuto che alcuna concezione filosofica fosse di per sé lo strumento esaustivo adatto ad interpretare la verità rivelata che la Chiesa propone nei dogmi della fede. Riconosce, però, come merito storico di san Tommaso d’Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che si interroga in base alle proprie forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il “sì” alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’Università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaqso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza.
Il personale convincimento filosofico di Benedetto XVI è che non un sistema filosofico, ma la “filosofia implicita”, il senso comune universale, possa e debba essere lo strumento razionale per cogliere la razionalità della fede. Le dottrine dei filosofi vanno tutte vagliate, senza fanatismi ideologici e senza pregiudizi, alla luce della verità naturale che costituisce la sapienza dei popoli e di ogni individuo, e alla luce della verità rivelata. Da un punto di vista culturale, la simpatia di Ratzinger è stata per Platone (citato anche nella Spe salvi), per sant’Agostino e per san Bonaventura; sappiamo annota Antonio Livi - anche che ha espresso un garbato dissenso per certe rigidezze della Neoscolastica nella sua pur necessaria opposizione al modernismo cattolico, condannato da san Pio X nell’enciclica Pascendi dominaci gregis e nel decreto Lamentabili. Ma questa sua personale traiettoria non comporta mai l’adesione a una delle tante espressioni contemporanee a dare il primato all’irrazionalismo, al caso, alla necessità e a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà; esprime piuttosto un approccio aperto, non sistematico, che tende a valorizzare tutto ciò che è valorizzabile, dovunque si trovi, anche nel marxismo: “con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie della rivoluzione - non solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal manifesto del 1848, l’ha anche concretamente avviata. La sua promessa, grazie all’acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale, ha affascinato e affascina tuttora sempre di nuovo. La rivoluzione poi si è anche verificata nel modo più radicale in Russia” (Spe salvi n.28). Questo approccio ha indotto Ratzinger a fare ai suoi studenti tesi su Marx, Nietzsche e Camus, oltre che su Newman, il convertito inglese - poi cardinale - grande cantore della coscienza personale. Il marxismo, per lui, ha tragicamente fallito. “Infatti”, scriverà Ratzinger, “proprio nell’ambito del materialismo, nel campo della sua applicazione prima, si è rivelato incapace di dare risposte”. E’ dunque necessario - così diceva all’indomani della caduta del Muro di Berlino - riproporre la vera “razionalità”, cioè la ricerca della verità in senso forte.
Il recupero dell’elemento razionale della fede allargando gli spazi della nostra razionalità, riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene, contro le derive magiche e irrazionali così tipiche dell’epoca contemporanea, ha portato Ratzinger a guardare con grande attenzione anche ai progressi della scienza e al modo con cui la scienza riflette su se stessa. E proprio alla riflessione sui limiti della scienza erano riferite le citazioni della famosa conferenza del futuro Papa, nella quale si citava il caso Galileo, che sono all’origine della polemica in occasione della prevista visita alla!Sapienza”; in quel testo, infatti, Ratzinger prendeva le mosse dal pensiero di Ernst Bloch (filosofo marxista, da lui incontrato a Tubinga negli anni turbolenti del Sessantotto) e arrivava poi a Paul Feyerabend (epistemologo agnostico e libertario), citando una sua intelligente e onesta osservazione storiografica (ossia che all’epoca del processo di Galileo la Chiesa si era attenuta alle norme della ragione critica più che lo stesso Galileo, il quale pretendeva che la teoria copernicana fosse accettata da tutti come l’unica vera, mentre non era ancora scientificamente provata e dunque non poteva esibire una adeguata giustificazione epistemica). Una lettura di questo testo da parte di scienziati prevenuti e faziosi ha fatto pensare che la citazione di Feyerabend dovesse servire a difendere ancora una volta l’operato dell’autorità ecclesiastica in quell’occasione, mentre Ratzinger prendeva spunto dalle osservazioni dell’epistemologo tedesco proprio per dire che la Chiesa ha tutti i requisiti per presentarsi come legittima espressione delle esigenze razionali con le quali Ratzinger precisava il suo pensiero: “Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni un frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande. Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che evidenzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia interessato oggi la scienza e la tecnica”. E nel testo che avrebbe letto alla “Sapienza”: “Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e ci confondono. Ma allo stessa tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla base della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. E’ vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una “comprehensive religious doctrine” nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi”.
Una ragionevolezza più grande
Curiosità, apertura, dialogo con mondi diversi e lontani, perché “la fede non elimina le domande”. Rientrano in questa attitudine gli annuali incontri dell’ex professore con il gruppo di ex allievi (Schulerkreis). Ha fatto discutere quello dedicato al tema “Creazione ed evoluzione”, che si è tenuto a Castelgandolfo nel settembre 2006, al quale hanno partecipato anche il professor Peter Schuster, dell’Istituto di Chimica teorica dell’Università di Vienna, e il filosofo tedesco Robert Spaemann.
“In ultima analisi”, aveva osservato Benedetto XVI, “si va a finire nell’alternativa su che cosa stia in principio: la ragione creatrice, lo Spirito creatore, che opera e lascia svilupparsi ogni cosa, o l’irrazionale, che in modo irragionevole produce stranamente un cosmo matematicamente ordinato e anche l’uomo e la sua ragione. Ma quest’ultima, allora, sarebbe solo un caso dell’evoluzione e quindi, alla fine, un qualcosa di irrazionale. Noi cristiani diciamo: io credo in Dio, creatore del cielo e della terra - nello Spirito creatore. Noi crediamo che all’inizio stia la Parola eterna (la persona del Verbo fatta carne, della Ragione creativa), la ragione, la ragione e non l’irrazionale”.
Un altro elemento originale e di particolare efficacia dialettica nel dialogo di Benedetto con la cultura contemporanea è l’esplicita inclusione della conoscenza per testimonianza nell’ambito della razionalità, della ragionevolezza che interessa la fede cristiana nella Rivelazione divina. E qui si ritrova con Luigi Giussani. “La fede è un modo di conoscenza. Chi è che conosce? La mia ragione; si chiama “ragione” quell’energia propria dell’uomo per cui l’uomo conosce. Allora la fede è un metodo - un modo per - della ragione, un modo di conoscenza della ragione o, più brevemente, un metodo di conoscenza. Che metodo di conoscenza è? E’ un metodo di conoscenza indiretto. Perché indiretto? Perché filtra, è mediato dal fatto che la ragione s’appoggia a un testimone: non vede direttamente, immediatamente lei l’oggetto, ma viene a sapere dell’oggetto attraverso un testimone. Abbiamo detto che questo metodo è il più importante di tutti i metodi della ragione, molto più dell’evidenza che si basa sui sensi, e molto più della scienza che si basa sull’analisi e sulla dialettica” (Si può vivere così?, pp.37-38). La logica, la ragionevolezza della testimonianza, insegna il Papa attuale riprendendo il discorso avviato da Giovanni Paolo II, è l’espressione della razionalità umana che non trascura alcun fattore della realtà per assicurarsi un approccio adeguato alla verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza; quando l’incontro con la Persona di Gesù Cristo attraverso la mediazione sacramentale la paragoni con il tuo cuore con un giudizio, riconoscendo che la cosa corrisponde al tuo cuore, al tuo io, lo riconosci, è un riconoscimento, è una conoscenza, è un fattore della realtà; allora quando i fatti e le nozioni non sono oggetto di diretta conoscenza da parte di qualcuno, costui può e deve rivolgersi a chi si presenta come testimone attendibile o come maestro autorevole. E’ del tutto conforme alla natura dell’uomo, infatti, cercare la realtà in tutti i fattori cioè la verità non solo individualmente e autonomamente, ma anche socialmente, storicamente e quindi ecclesialmente in continuità diacronica (attraverso tutti i tempi) e sincronica (in tutti i luoghi) e solidamente; ed è razionale, ragionevole accettare una testimonianza credibile (dopo aver vagliato criticamente la credibilità), così come invece è irrazionale rifiutare tutto ciò che non sia esclusiva conquista della ragione individuale.
La sapienza dell’umanità
Con questa consapevolezza, con questo criterio epistemico cioè logica riguardante l’assenso a una qualsiasi ipotesi che si presenti come una verità Benedetto XVI si rivolgeva ai docenti dell’Università di Roma, “La Sapienza”, citando le riflessioni del filosofo americano John Rawls sullo spazio che le religioni meritano nella vita sociale: “Che cos’è la ragione? Come può una affermazione - soprattutto una norma morale - di mostrarsi ragionevole”? John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione pubblica, vede tuttavia nella loro ragione “non pubblica” almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una secolarità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano in continuità da una tradizione responsabile umanamente significativa e motivata in rapporto alle esigenze del proprio cuore, del proprio io, della propria anima, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione c’è il riconoscimento dello strumento più grande della comunicazione del vero nella vita della Chiesa cioè la sua stessa continuità o tradizione cioè il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte a una ragione astorica che cerca di autocostruirsi soltanto una razionalità astorica, sull’essere possibile, virtuale senza il fondamento dell’essere continuo, la sapienza dinamica dell’umanità come tale nel rapporto fra ciò che è e quindi è possibile - la sapienza delle grandi tradizioni religiose e tra queste le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana percependo come Gesù Cristo è Luce che illumina la storia e aiuta a trovare per tutti il senso verso il futuro - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Anche in questa affermazione della razionalità della fede in quanto pienamente rispondente alla via indiretta del conoscere attraverso la “logica della testimonianza”, Benedetto ha continuato a operare una sapiente pastorale dell’intelligenza in continuità con Giovanni Paolo II: “L’uomo non è fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società. Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui quasi istintivamente crede. La crescita e la maturazione personale, comunque, implicano che queste stesse verità possano essere messe in dubbio o vagliate attraverso la peculiare attività critica del pensiero” (Fides et ratio, n. 31). Il tema della razionalità integrale, che non esclude, ma presuppone la ricerca della verità cioè della realtà in tutti i fattori da parte di ogni uomo, anche con ricorso alle risorse della vita in società, ecclesialmente in vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata, ossia delle conoscenze indirette utili che possono essere fornite dalla tradizione, dalla storia, dalla scienza spinge a uscire dalla dittatura di una ragione ristretta al solo empiricamente verificabile, astorica, allargando gli spazi della nostra razionalità, riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro nelle nostre università la teologia, la filosofia e le scienze. E’ questo, per Benedetto XVI cioè per l’attuale magistero della Chiesa, pastoralmente per la nuova evangelizzazione e catechesi, un compito che sta davanti a noi, una avventura affascinante del kairos che viviamo e nel quale merita spendersi, per dare nuovo slancio globale alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza.