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L’uomo senza Dio intristisce

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
Il sacerdote deve tener sveglio il mondo per Dio e a Lui servire

«…il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli. Essi erano “lieti di essere oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5,41)» [Benedetto XVI, Omelia della Messa Crismale, 20 marzo 2008].

L’uomo senza Dio intristisce
L’uomo è “senza Dio” quando non è più capace di rivolgergli la parola. Per questa ragione, il “pregare” non è uno “sport” riservato alle anime deboli, che, per questo motivo, non dovrebbe convenire a quelli che di un simile “rifugio” non sembrano avvertire il bisogno.
Nell’atto del pregare in privato e in pubblico è in gioco qualcosa che concerne essenzialmente il futuro dell’uomo e la sua stessa umanità. Se pubblicamente il mondo è addormentato per Dio, se ogni uomo non si protende oltre il proprio e altrui essere dono, tendendo al Donatore divino, egli diviene un “altro” da sé, più gretto e meschino. Allora gli si atrofizzano organi, di cui non può fare a meno. Diviene spiritualmente più rozzo e perde di sensibilità e acume; e alla fine non riesce più ad amare gli altri nel loro essere dono del Donatore divino, come di tutto il mondo che lo circonda, anzi, nemmeno se stesso senza la consapevolezza del propria e altrui verità cioè del proprio e altrui essere dono del Donatore divino. Si possono amare gli uomini, solo nella verità cioè cogliendoli nel proprio e altrui, come in tutto il mondo, essere dono del Donatore divino.
Ma come possiamo vedere Dio, se non lo conosciamo? E come conoscerlo senza incontrarlo, se non si dà alcun contatto tra noi e lui, se abbiamo disimparato a parlare con Lui in privato e in pubblico? Urge imparare di nuovo a dialogare con lui e a valorizzare anche la più alta possibilità del linguaggio, che consiste nel parlare con Dio.
Il cardinale Nguyen Van Thuan durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza. Nella sua vita c’erano stati lunghi periodi di incapacità di pregare ed egli si è aggrappato alle parole di preghiera della Chiesa: al Padre nostro, all’Ave Maria e alle preghiere della Chiesa. Nel pregare deve esserci sempre questo intreccio tra preghiera pubblica e preghiera personale. Così possiamo parlare a Dio, così Dio parla a noi. In questo modo si realizzano in noi le purificazioni, mediante le quali diventiamo capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini.
Ma che cosa ha portato Gesù veramente? Ha portato Dio. Quel Dio, il cui volto si era manifestato a poco a poco da Abramo fino alla lettura sapienziale, passando per Mosé e i Profeti - quel Dio che solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era onorato nel mondo delle genti - questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio vero Egli ha portato ai popoli della terra. Ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza; la fede, la speranza e l’amore. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, non spettacolare per non rischiare un rapporto costretto con Lui, senza libertà e senza amore quindi, ma è il potere vero, duraturo. La causa di Dio sembra trovarsi continuamente come in agonia. Ma si dimostra sempre come ciò che veramente permane e salva. I regni del mondo, che Satana poté allora mostrare al Signore, nel frattempo sono tutti crollati. La loro gloria, la loro doxa, si è dimostrata apparenza. Ma la gloria di Cristo, la gloria umile e disposta a soffrire, la gloria del suo amore non è tramontata e non tramonta.
A cosa ha detto “sì” il sacerdote e che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Rifacendosi al Libro del Deuteronomio (18,5.7) e all’essenza del sacerdozio vetero testamentario, Benedetto XVI dice: “in primo luogo stare davanti al Signore…vivere di Dio e per Dio…guardare a Lui, esserci per Lui…mantenere il mondo aperto verso Dio…vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale…il sacerdote deve essere uno che vigila. Deva stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore”.

Tener sveglio il mondo per Dio attraverso il servizio del culto
“Con l’assunzione della parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato - conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. E’ allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte di celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” - il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida”.

Servire significa vicinanza con Dio, richiede familiarità e obbedienza
Nessuno è più vicino al signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita e richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine, senza più meraviglia e stupore. Si spegne così il timor reverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così saremmo liberi; che solo grazie a una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa.
Nel suo discorso d’addio, il Signore descrive la natura dello Spirito santo in questi termini: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16,1\3). Qui lo Spirito diviene icona della Chiesa; con la descrizione dello Spirito Santo il Signore illumina ciò che la chiesa è e come essa deve vivere per essere davvero se stessa.
Il parlare e l’agire in senso cristiano si attuano in questo modo: “io” non sono mai soltanto “me stesso”. Essere cristiani significa: accogliere in sé tutta la Chiesa, o meglio: lasciarsi intimamente incorporare a essa. Quando io parlo, penso e agisco, lo faccio - in quanto cristiano - sempre a partire dalla totalità e nella totalità: in questo modo lo Spirito si fa parola e gli uomini si incontrano l’un l’altro. Ed essi si incontrano davvero realmente, solo se prima hanno colmato interiormente la distanza che li separa. Cioè: se io, interiormente, sono diventato sensibile, aperto, magnanimo, se ho accolto in me l’altra persona con una fiducia e un amore che l’hanno per così dire “accompagnata”, solo così non sono mai più “solo” ma piuttosto tutto il mio essere è segnato da questa “condivisione” dell’altro. Proprio il fatto della fraternità sacramentale dei preti e quindi di agire in questo modo, lo Spirito santo introduce alla verità tutta intera, in ciò che neppure Cristo ha ancora del tutto “proclamato”; ed esattamente in questo modo annuncia le cose future.
Per tutti, ma soprattutto per sacerdoti non è mediante “l’auto isolamento” dell’io che ci è dato di conoscere cose nuove. La verità si dischiude soltanto nell’atto in cui il nostro pensiero indaga ciò che già prima di noi è stato oggetto di conoscenza. La grandezza di una persona dipende dalla sua capacità di appartenere e partecipare al tutto; è solo nel farsi piccola, e nel suo prendere posto nella totalità, che essa diviene grande.

Egli, che come Figlio era ed è Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto
Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. E’ la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera “elevazione” dell’uomo.
La croce è rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, bensì Dio e l’uomo. Ci attesta che è Dio e com’è fatto l’uomo. Nella filosofia greca è presente una singolare anticipazione di tale stato di cose: l’immagine dl giusto crocifisso, tracciata da Platone. Nella su opera dedicata allo Stato ideale, il grande filosofo si domanda come dovrebbe svolgersi la vicenda di un uomo giusto e incorrotto in questo mondo; giunge alla conclusione che la rettitudine di un uomo risulterebbe davvero perfetta e collaudata solo allorché egli accettasse su di sé ogni possibile imputazione di ingiustizia (e, così accettasse di passare agli occhi di tutti come il “reo” per eccellenza), poiché solamente allora sarebbe davvero evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, ma l’evidenza della realtà allineandosi alla giustizia unicamente per amore di quets’ultima. Sicché, secondo Platone, il vero giusto deve necessariamente essere misconosciuto e un perseguitato in questo mondo. Anzi, Platone ha l’ardire di scrivere: “Stando così le cose, dovremmo dire che il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato con il ferro rovente, e infine, dopo tutto questo scempio, finirà per essere crocifisso…”.
Questo passo, scritto ben quattrocento anni prima di Cristo, continuerà sempre a commuovere un cristiano. Sulla base della serietà e dell’acume intuitivo del pensiero filosofico, qui si presagisce che il perfetto “giusto”, nel mondo, non potrà essere che il giusto crocifisso. Si ha il presentimento di quella rivelazione dell’uomo che si è attuata sulla croce. L’evangelista Giovanni ha compendiato tutto ciò nell’espressione: “Ecce homo”, sulla bocca di Pilato. Essa vuole appunto dire: ecco come stanno le cose: questa è la vera fisionomia dell’uomo.

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