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Concilio Vaticano II ed età moderna

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it

“Il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz’altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti.
San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dare risposta (apologia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l’interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l’affinità tra loro nell’unica ragione donata da Dio (Benedetto XVI a “La Sapienza”: “Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti… Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?... In questa domanda apparentemente poco devota - che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, e come via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione-creatrice e al contempo Ragione-amore”).
Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medioevale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d’Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo (Benedetto XVI a “La Sapienza”: “L’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione e senza separazione”. “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuamente attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve mai chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino…Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di auto costruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee”).
La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma con il Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione attende da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica (l’ ermeneutica della continuità e della riforma è l’unica ad avere piena cittadinanza nella Chiesa cattolica), esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa” (Benedetto alla Curia Romana, 22 dicembre 2005). (Benedetto XVI a “La Sapienza”: ‘Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche ed umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo auto costruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma. Che cosa ha da fare e da dire il Papa all’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore della Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere utili luci lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro’). Benedetto XVI a Verona: ‘Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. E’ questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza’.

Benedetto XVI, nell’impegno di nuova evangelizzazione, punta a proporre la verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo per ridarle fiducia sulla possibilità, per l’uomo, di ricercare il vero, il bene, Dio, e così, come Chiesa, essere voce della ragione etica dell’umanità senza della quale la scienza, che può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità, può anche distruggere l’uomo e il mondo. D’altra parte anche il cristianesimo moderno è chiamato ad una autocritica. Di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza consentendo una progressiva ateizzazione confessionale dello spazio pubblico e culturale.
Ma Benedetto XVI, con una acuta capacità critica sul capolinea a cui conduce un’idea e un’esperienza corrotta di laicità, rivela una grande volontà costruttiva e anche una simpatia sull’Italia e oggi, sulla Francia con i discorsi del presidente francese al Laterano e a Riad, come terreni favorevoli per una nuova laicità positiva.
La sapienza delle grandi tradizioni religiose, soprattutto ebraiche, islamiche e in particolare cristiane sono un’istanza per la ragione pubblica
Musulmani, ebrei e cristiani - il Presidente francese a Riad davanti al Consiglio saudita il 16 gennaio 2008, riproponendo alla post modernità l’avvento di una laicità positiva con la valorizzazione dell’eredità “civilizzatrice” anche della religione oltre che della scienza e della tecnica: tra virgolette riportiamo il Presidente francese, tra parentesi Benedetto XVI al “La Sapienza” - non credono in Dio allo stesso modo. Non hanno lo stesso modo di venerare Dio, di pregarlo, di servirlo. Ma chi può negare… che sia esattamente lo stesso bisogno di credere? Lo stesso bisogno di sperare che li fa volgere con lo sguardo e le mani al Cielo per implorare la misericordia di Dio, il Dio della Bibbia, il Dio dei Vangeli e il Dio del Corano”. (“Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di auto costruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee… Il Papa parla (all’università “La Sapienza”) come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienze etiche, che risulta importante per l’intera umanità; in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica”).
“Il Dio trascendente che sta nel pensiero e nel cuore di ogni uomo. Il Dio che non rende schiavo l’uomo, ma lo libera. Il Dio baluardo contro l’orgoglio smisurato e la follia degli uomini. Il Dio che, al di là di tutte le differenze, continua ad inviare agli uomini un messaggio di umiltà e amore, di pace e fraternità, di tolleranza e rispetto. Questo messaggio spesso è stato snaturato. E’ stato travisato. Molti crimini nella storia sono stati commessi in nome della religione, crimini che con essa in realtà nulla avevano a che vedere, che negavano, tradivano la religione. I crimini commessi in nome della religione non erano dettati dalla pietà, non erano dettati dal senso religioso, non erano dettati dalla fede. Erano dettati dal settarismo, dal fanatismo, dalla brama di potere illimitato. Spesso il senso religioso è stato strumentalizzato, spesso è servito da pretesto per raggiungere altri obiettivi e soddisfare altri interessi. E oggi, ancora, lo affermo davanti a voi, il pericolo non è il senso religioso. Ma il suo uso a fini politici regressivi, al servizio di una nuova barbarie.
Tutti questi eccessi, tutte queste derive devono indurci a condannare la religione? Io dico e rispondo di no, perché il rimedio (l’ateizzazione confessionale dello spazio pubblico) sarebbe peggiore del male. Il sentimento religioso non può essere condannato a causa del fanatismo come il sentimento nazionale non può esserlo a causa del nazionalismo. (“Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla base della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. E’ vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una “comprehensive religious doctrine” nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi”).
“In qualità di capo di uno stato che si fonda sul principio della separazione tra stato e chiesa, non devo esprimere la mia preferenza per una fede piuttosto che per un’altra. Devo rispettarle tutte, devo garantire che ciascuno possa liberamente credere o non credere, che ciascuno possa praticare il proprio culto con dignità. Rispetto chi crede nel Cielo così come chi non vi crede. Ho il dovere di far sì che ciascuno, che sia ebreo, cattolico, protestante, musulmano, ateo, massone o razionalista sia felice di vivere in Francia, si senta libero, si senta rispettato nelle sue convinzioni, nei suoi valori, nelle sue origini. Ma ho anche il dovere di preservare l’eredità di una storia lunga, di una cultura e, oso dire, di una civiltà”. A questo punto non possiamo non ricordare uno dei documenti conciliari più attuali la Dignitatis humanae dove solo i principi esprimono l’aspetto duraturo di continuità, mentre le forme concrete che dipendono dalla situazione storica possono essere sottoposte a mutamenti e quindi a discontinuità. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’ uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza e non libero, com’è ogni credente cattolico. Una cosa completamente diversa è invece considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo di convincimento. Il Concilio Vaticano II, con il confronto più difficile per la diversità di come si affrontava il problema, riconoscendo e facendo suo il Decreto sulla libertà religiosa, un principio essenziale di laicità positiva dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l’insegnamento di Gesù stesso (Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto e deve sempre respingere chiaramente la religione di Stato, ogni confessionalizzazione degli spazi pubblici. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede - una professione che da nessun Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza: “Che cosa ha da fare e da dire il Papa all’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere donata solo in libertà”. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli perché è la stessa ragione del suo essere e del suo operare, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano - una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l’unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli. E’ ciò che la Nota dottrinale sull’Evangelizzazione della Congregazione della fede richiama alla luce del Concilio nel suo rapporto con la modernità.

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