2025 02 19 MYANMAR - Ucciso un prete cattolico nell’arcidiocesi di Mandalay

MYANMAR - Ucciso un prete cattolico nell’arcidiocesi di Mandalay
BURKINA FASO - Due catechisti assassinati
CRISTIANI IN CISGIORDANIA: testimonianze P. Bashar (Taybeh) e Fr. Jubran (Jenin)
Fonte:
CulturaCattolica.it ©
Vai a "Cristiani perseguitati. Memoria e preghiera"

MYANMAR - Ucciso un prete cattolico nell’arcidiocesi di Mandalay
Un sacerdote di 44 anni colpito a morte da una banda armata in un villaggio della regione del Sagaing. La Conferenza episcopale: “Vittima della guerra come innumerevoli persone innocenti”. L’arcivescovo di Mandalay mons. Marco Tin Win: “Questa straziante tragedia inviti tutti a destarsi”

Don Donald Martin, 44enne sacerdote diocesano dell’Arcidiocesi di Mandalay, è primo prete cattolico birmano ucciso nel conflitto civile che insanguina il paese. Il suo corpo senza vita, mutilato e sfigurato con colpi di arma da taglio, è stato ritrovato il 14 febbraio alle 6 del mattino, da alcuni parrocchiani nel complesso della parrocchia di Nostra Signora di Lourdes, dove era parroco. La chiesa si trova nel villaggio di Kan Gyi Taw, nel territorio del distretto di Shwe Bo, parte della regione di Sagaing. L’uomo, riferiscono fonti di Fides, è stato colpito con violenza e accanimento da numerosi colpi di arma da taglio. Le cruente modalità dell’omicidio fanno pensare a un’aggressione mirata per motivi che sono ancora da investigare, così come sono da individuare gli assassini: il che non sarà facile in un contesto di violenza generalizzata, mentre infuriano gli scontri tra i miliziani delle forze di opposizione e l’esercito birmano.
La notizia ha creato shock e profonda tristezza nella comunità locale. I fedeli si sono attivati per cercare di capire le cause dell’omicidio e l’identità dei killer. La zona di Sagaing, nel Nord del Myanmar, è una di quelle dove sono quotidiani i combattimenti e gli scontri tra le Forze di difesa popolare e l’esercito birmano.
P. Donald Martin, 44 anni, era stato ordinato prete nel 2018. Nel tempo di guerra civile svolgeva con zelo, con fede e obbedienza il suo compito di pastore di anime, amministrando i sacramenti nella parrocchia e cercando di essere vicino alla comunità sofferente. Inoltre, come tanti altri sacerdoti, si dedicava all’assistenza umanitaria agli sfollati sparsi nel territorio portando loro consolazione spirituale e aiuti materiali.
(PA) (Agenzia Fides 15/2/2025)

I vescovi: ‘Interceda per la fine della violenza’

La Conferenza episcopale del Myanmar ha espresso oggi la sua condanna per la brutale uccisione di p. Donald Martin Ye Naing Win, sacerdote cattolico di 44 anni, avvenuta la sera del 14 febbraio nella regione del Sagaing, una di quelle più duramente ferite dalla guerra che dura ormai da oltre quattro anni.
P. Donald Martin, del clero dell’arcidiocesi di Mandalay, situata nella parte centrale del Myanmar, è stato ucciso mentre svolgeva il suo ministero pastorale nella parrocchia a lui assegnata, la chiesa di Nostra Signora di Lourdes, nel villaggio di Kan-Gyi-Daw, nella township di Shwebo. La parrocchia conta ben 38 famiglie cattoliche che fanno capo alla chiesa di Nostra Signora di Lourdes. Il sacerdote è stato ucciso da un commando di uomini armati che avrebbero anche infierito sulle sue spoglie, ma non è ancora chiaro a quale milizia appartenessero.

“Che il sangue e i sacrifici di innumerevoli persone innocenti, come p. Donald Martin Ye Naing Win, possa servire come offerta per porre fine alla violenza che ferisce tutta la nazione. Imparando da queste esperienze strazianti che abbiamo vissuto, risveglino lo spirito fraterno ed eleviamo un accorato appello per porre fine alla violenza.”, scrive la Conferenza episcopale in una nota firmata a loro nome dal card. arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo.
Esprimendo la loro profonda angoscia e tristezza, i vescovi del Myanmar aggiungono: “Mentre la Chiesa prega per la giustizia, esortiamo i responsabili ad assumersi la piena responsabilità per l’uccisione di p. Donald Martin e ad assicurare che simili tragedie non si ripetano”. “Possa l’anima di p. Donald Martin Ye Naing Win riposare nella pace eterna grazie alla misericordia di Dio”, conclude la Conferenza episcopale birmana.

P. Donald Martin era nato l’11 novembre 1981 ed era stato ordinato sacerdote il 20 marzo 2018 nella chiesa dell’Assunzione di Pyin Oo Lwin. In questi anni ha vissuto il suo servizio con fede incrollabile e coraggio, incarnando il suo motto sacerdotale tratto dal Vangelo di Giovanni “Mi ami tu più di costoro? Pasci le mie pecore” (Gv 21,15).
Commentando la sua morte, l’arcivescovo di Mandalay Marco Tin Win ha detto: “Traiamo insegnamento da questa straziante tragedia. Invitiamo tutti i fratelli e le sorelle a destarsi e a porre fine alla violenza”. (16/02/2025 di Santosh Digal AsiaNews)

Oltre 5.000 presenti al funerale, nel villaggio natio

Oltre 5.000 persone si sono riunite, nonostante i pericoli e la violenza generalizzata, nel villaggio di Pyin Oo Lwin per rendere l’ultimo saluto e pregare per il sacerdote don Donald Martin Ye Naing Win, barbaramente ucciso da un gruppo di 10 aggressori il 14 febbraio nella sua parrocchia di Nostra Signora di Lourdes nell’Arcidiocesi di Mandalay (vedi Fides 15/2/2025). Il villaggio montano di Pyin Oo Lwin è il luogo natio di p. Donald, dove vive la sua famiglia. Lì, salendo sulla montagna, si sono riversati sacerdoti, religiosi, fedeli e l’Arcivescovo di Mandalay, Marco Tin Win: tutti si sono riuniti nella chiesa cattolica dell’Assunzione di Maria per celebrare la messa funebre, donare conforto e consolazione alla famiglia di padre Donald, presente nel luogo, e provvedere alla sepoltura del sacerdote. (…)

Le cause dell’omicidio
La comunità locale domanda di conoscere le cause dell’omicidio insensato di un prete che si dedicava con ardore al prossimo. In particolare, riferiscono fonti locali, p. Donald era impegnato a organizzare l’opera informale di istruzione di bambini e ragazzi nel territorio della sua parrocchia di Nostra Signora di Lourdes, dove era il primo parroco, e dove vivono una quarantina di famiglie cattoliche. Infatti, dato il conflitto civile, la violenza e lo sfollamento, le scuole sono chiuse, non ci sono insegnanti e solo lezioni informali dispensate volontariamente da preti, religiosi, catechisti cercano di garantire un minimo di continuità nel percorso educativo dei piccoli e dei giovani.

Fermati dieci aggressori di don Donald Martin
Sta di fatto che nell’area non c’è presenza dell’esercito birmano e che il territorio è controllato dalle Forze di Difesa Popolari (PDF), che si oppongono alla giunta militare. Ai vertici di quelle Forze è stato chiesto di indagare sui gruppi armati che hanno aggredito e ucciso con accanimento il sacerdote. Le milizie hanno fermato circa dieci uomini, “vigilantes” locali del villaggio di Kan Gyi Taw, dove padre Donald è stato ucciso, per comprendere le ragioni e la dinamica dell’accaduto. Le Forze di Difesa Popolari, notano fonti di Fides, hanno tutto l’interesse a fare chiarezza, a individuare e punire i colpevoli, e hanno trasferito i fermati al tribunale istituito dalle stesse PDF, in quelle che vengono attualmente definite “zone liberate”, cioè non sotto il controllo del governo birmano.
(PA) (Agenzia Fides 17/2/2025)

TESTIMONIANZA
Massacrato Don Donald, prete cattolico: anche qui è venuto il tempo del martirio

Caro direttore,
devo purtroppo interrompere il mio silenzio dal Myanmar perché è accaduto un fatto drammatico che ci ha sconvolto. Colpiscono in questa vicenda: la figura che è stata assassinata, il luogo, la tempistica e la violenza con cui si è infierito.
Per la prima volta da quando è iniziata la guerra civile in Myanmar è stato ucciso un sacerdote cattolico. Era don Donald Martin. Aveva 44 anni. Era parroco del Santuario della Madonna di Lourdes nel villaggio di Kan Gyi Taw, diocesi di Mandalay.
Il santuario in questi anni era diventato luogo di ospitalità per i profughi. Prima ospitava coloro che, fuggendo dalle campagne, cercavano un “luogo sicuro”, ora dalle città. Infatti, se all’inizio le violenze dell’esercito erano concentrate sui villaggi di campagna, ora – data per persa la periferia – i bombardamenti e le violenze dei militari si concentrano sulle città, provocando un controesodo verso le zone dell’interno.
Il corpo è stato ritrovato il 14 febbraio, ma non si sa quando realmente sia avvenuto l’assassinio. Ad aggiungere dramma al dramma c’è il fatto che non si tratta di un “normale” omicidio. Dentro questo gesto c’è una violenza inaudita: il corpo è stato mutilato e sfigurato con coltelli o accette per poi essere gettato. Ovviamente, nel caos che regna, sarà difficile individuare il o i colpevoli. E certamente è impensabile supporre che l’autorità giudiziaria svolga un’indagine seria ed imparziale.

Un dato è però evidente: alla festa della Madonna di Lourdes (11 febbraio) vi era molta gente al santuario. La vicinanza tra le due date è lapalissiana. Domanda: a chi dava fastidio questo? A chi interessava uccidere don Donald o “don Don” come lo chiamavano gli amici? All’esercito, alla guerriglia o a un ladro o un ubriaco?
Certo nella zona non esiste controllo: i combattimenti sono all’ordine del giorno. È come se foste in Italia dopo l’8 settembre 1943; è terra di nessuno. Noi non abbiamo molti dubbi.

Per completare il quadro, alcune riflessioni.
È stato imposto l’arruolamento obbligatorio, così che i giovani fuggono – ma le frontiere sono chiuse – o si arruolano per poi disertare. Siamo un Paese allo sbando e senza una generazione a cui consegnare il testimone.
Le chiese e le pagode erano sempre state considerate “luoghi sicuri”: ora non più. Il messaggio è chiaro. Se neanche il Santuario della Madonna di Lourdes (Regina della Pace) è rispettato, è facile trarre le conclusioni.
Questa violenza, in un Paese buddista, ha origini ben chiare.
Infine: perché l’Europa, senza aspettare gli Usa in tutt’altre faccende affaccendati, non batte un colpo?
(Un lettore dal Myanmar - Lettera firmata, ilSussidiario 17 Febbraio 2025)

BURKINA FASO - Due catechisti assassinati mentre rientravano da un corso di formazione: lutto nella Diocesi di Dédougou

Dolore, lacrime e preghiere. La Diocesi di Dédougou, in Burkina Faso, è in lutto per l’assassinio di due catechisti, uccisi mentre erano di ritorno da un corso di formazione. I fatti risalgono a sabato 25 gennaio.
Secondo quanto riferiscono fonti della Diocesi di Dédougou, raggiunte telefonicamente da Fides, i due, di nome Mathias Zongo e Christian Tientga, viaggiavano su una motocicletta. Con loro, a bordo di un’altra moto, altri due catechisti. Appartenenti tutti alla parrocchia di Ouakara, i quattro operatori pastorali sarebbero stati assaliti da un gruppo di uomini armati mentre erano nei pressi della cittadina di Bondokuy. I due catechisti superstiti sarebbero riusciti a fuggire trovando rifugio nella foresta. Allertato il parroco, questi ha ritrovato i corpi senza vita dei due trucidati. All’arrivo del sacerdote, sul luogo del delitto erano già presenti gli agenti delle forze di polizia che hanno aperto un’indagine.
Nei giorni scorsi i corpi dei due catechisti sono stati riconsegnati alle famiglie (uno era padre di tre figli, l’altro di sette) e nel fine settimana appena trascorso sono stati celebrati solenni funerali.
La polizia, che sta continuando a indagare sui fatti, ha reso noto che quanto avvenuto a fine gennaio è il quarto agguato mortale che si verifica in poco tempo sempre nello stesso luogo. In tutto il Burkina Faso si registra da tempo un’escalation di violenze, alimentate anche dalla presenza di diversi gruppi jihadisti in lotta fra di loro per il controllo del territorio che ha portato anche alla fuga di circa due milioni di persone. (F.B.) (Agenzia Fides 17/2/2025)

CRISTIANI IN CISGIORDANIA: testimonianze P. Bashar (Taybeh) e Fr. Jubran (Jenin)

P. Bashar: a Taybeh bloccati e sotto attacco. La Cisgiordania ‘una seconda Gaza’
La testimonianza ad AsiaNews del parroco che racconta un clima di “impunità” a fronte degli attacchi dei coloni e delle chiusure dell’esercito. Almeno 10 famiglie della comunità fuggite negli Stati Uniti non per motivi economici, ma in cerca di pace e sicurezza. Chiusure anche a Tammoun e nel campo profughi di al-Far’a, interrotta la fornitura di acqua e le comunicazioni.

“Speriamo che quanto successo a Gaza non si ripeta anche in Cisgiordania” perché “siamo al cospetto di fanatici. Noi siamo palestinesi, siamo nati in questa terra e qui vogliamo vivere, non certo andarcene, ma restare fino alla fine. Nessuno ci può cacciare e, come cristiani palestinesi, preghiamo perché un giorno queste sfide e difficoltà siano cancellate”. È quanto racconta ad AsiaNews p. Bashar Fawadleh, parroco di Taybeh in Cisgiordania, villaggio di circa 1500 abitanti con tre chiese 30 km a nord di Gerusalemme e a est di Ramallah, conosciuto per essere l’ultimo palestinese abitato interamente da cristiani. Tra i residenti oltre 600 sono cattolici latini, mentre i restanti si distribuiscono tra greco-ortodossi e cattolici greco-melchiti, anche se da qualche tempo è in atto una diaspora alimentata da attacchi di coloni e raid dell’esercito. “Sono fanatici, non si è mai visto nulla di simile nemmeno ai tempi della Seconda intifada” nei primi anni Duemila, “e non sappiamo cosa fare di fronte a questo governo di fanatici”.

Taybeh, riferisce il sacerdote, è “una piccola cittadina” con un numero ridotto di persone, ma situato “in una vasta porzione di territorio” che si estende sino a 24 km2. “Una buona parte - prosegue - è usata per la coltivazione dei campi, soprattutto per gli uliveti”. Nell’ultima stagione di raccolta, afferma p. Bashar, “si sono registrati continui attacchi dei coloni” che hanno preso di mira “le terre e le famiglie, colpiscono le persone e non disdegnano l’uso di armi da fuoco, anche se finora siamo stati fortunati e non abbiamo avuto vittime”. Negli ultimi mesi, denuncia, i coloni spalleggiati dall’esercito hanno causato “difficoltà enormi”.
A questo si aggiungono i numerosi checkpoint militari, che stanno disegnando “un nuovo panorama, soprattutto negli ultimi 10 giorni” denuncia il sacerdote. “Ci siamo svegliati una mattina e abbiamo trovato blocchi agli ingressi di città e villaggi palestinesi in Cisgiordania. Per la prima volta anche qui a Taybeh, non era mai successo dal 1967 - richiamando il tempo della Guerra dei sei giorni - mentre ora ci sono posti di blocco e controlli ovunque”. Le vie di collegamento con Nablus, Ramallah e Gerico “sono chiuse, non possiamo muoverci, la situazione è difficile e le criticità numerose”.

Intanto, per il sesto giorno consecutivo le forze di sicurezza israeliane hanno assaltato la città palestinese di Tammoun e il campo profughi di al-Far’a, nella provincia di Tubas. L’agenzia Wafa riferisce che i militari hanno fatto irruzione in numerose abitazioni in entrambe le zone, devastando proprietà e sottoponendo gli abitanti a interrogatori sul campo e perquisizioni domiciliari. Fonti locali parlano di un “rafforzamento” della presenza di soldati e crescenti distruzioni di infrastrutture, strade e proprietà private, oltre al blocco agli accessi sia della città che del campo profughi, così come l’ingresso meridionale alla città di Tubas.
Fonti di AsiaNews ad al-Far’a racontano che “l’acqua è stata completamente tagliata dal campo a causa della distruzione delle linee di rete interne” e “le forze di occupazione [militari israeliani, ndr] ne impediscono la riparazione”. Alcune linee elettriche “sono state distrutte e la loro riparazione è vietata” prosegue, mentre “le comunicazioni e la rete internet interna al campo sono state completamente oscurate e non è possibile parlare con le persone all’interno. Molte case non hanno più cibo, assorbenti igienici per donne e bambini o latte per i più piccoli”. I soldati hanno anche evacuato “un intero blocco residenziale” appartenente alla famiglia al-Muslimani che “contiene più di dieci case, hanno cacciato gli abitanti e ne hanno assunto il controllo, allestendo una caserma militare al suo interno”. Infine, conclude la fonte, l’esercito “ha schierato i cecchini sugli edifici e spara a tutto ciò che si muove”.
Tammoun è stata sottoposta a coprifuoco negli ultimi due giorni, mentre la circolazione nel campo di Al-Far’a è ferma a causa del diffuso dispiegamento di truppe in strade e vicoli. Inoltre, i soldati con la stella di David starebbero impedendo in maniera deliberata il lavoro di medici e giornalisti in entrambi i teatri delle operazioni, causando fra l’altro carenza di medicinali essenziali, in particolare per malati cronici, e di scorte alimentari per numerose famiglie rimaste senza cibo.

“Niente acqua, rete internet bloccata, strade interrotte, infrastrutture distrutte” sono la realtà quotidiana oggi in Cisgiordania. “Gli attacchi - riprende il sacerdote - sono aumentati con la guerra a Gaza. Il conflitto nella Striscia ha tracciato uno scenario totalmente nuovo” favorito anche dalla presenza nell’esecutivo di due esponenti della galassia delle colonie: l’ex ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, dimessosi da poco perché contrario all’accordo sulla tregua e scambio di prigionieri con Hamas, e il titolare delle Finanze Bezalel Smotrich. “Non vogliono - afferma p. Bashar - che i palestinesi vivano nella loro terra”. Dal 7 ottobre 2023 “abbiamo perso 10 famiglie, che sono emigrate negli Stati Uniti non per mancanza di lavoro e bassi salari, ma solo per cercare pace, sicurezza. Questo è il punto: alla base non vi è un fattore economico, perché qui abbiamo lavoro e buoni stipendi, almeno prima della guerra. Non sappiamo più come difenderci da questi attacchi - conclude - che vengono compiuti dai coloni in un clima di impunità. Anzi, sono spalleggiati e sostenuti dall’esercito, fra i due fronti non vi è più alcuna differenza”.
(di Dario Salvi AsiaNews 07/02/2025)

Fr. Jubran: i residenti di Jenin restano barricati in casa nella città della Cisgiordania
Mentre i soldati israeliani continuano a occupare la città palestinese di Jenin, in Cisgiordania, padre Amer Jubran, parroco della parrocchia cattolica di rito latino della città, condivide le preoccupazioni dei residenti locali sulla loro situazione e chiede preghiere
.

Padre Amer Jubran è il parroco della Chiesa cattolica latina di Jenin, nella Cisgiordania occupata. Originario di Nazareth, è stato formatore presso il Seminario del Patriarcato latino di Gerusalemme a Beit Jala prima di essere trasferito a Jenin.
Padre Jubran ha parlato a L’Osservatore Romano della situazione nella tormentata città palestinese.
“Siamo ormai al 17° giorno di occupazione della città da parte dell’esercito israeliano”, ha detto. “Continuiamo a vivere barricati nelle nostre case, spaventati persino di uscire per comprare cibo”.
I soldati israeliani sono entrati a Jenin il 21 gennaio, praticamente in concomitanza con l’inizio del cessate il fuoco a Gaza.
La tempistica ha portato molti osservatori a credere che il governo israeliano abbia lanciato l’operazione per placare le fazioni più estremiste della sua maggioranza, che si opponevano al cessate il fuoco e minacciavano di far cadere il governo.
Prima dell’incursione israeliana, Jenin era già stata teatro per settimane di continui scontri tra le fazioni armate nel campo profughi e le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

“La nostra è l’unica chiesa cristiana ancora aperta a Jenin. Nei villaggi circostanti ci sono anche comunità melchite e ortodosse”, ha spiegato padre Jubran. “Siamo una piccola comunità di sole 80 famiglie, ma sono tutte profondamente attaccate alla loro identità e molto devote. Non è la prima volta che le forze israeliane occupano Jenin. Lo scorso agosto, l’IDF è entrata in città per dieci giorni, ma ciò che ora preoccupa di più non è solo l’intensità degli scontri, ma anche la loro durata. C’è un timore reale che questa occupazione possa diventare permanente”.

D: Padre Amer, chi guida queste milizie: Hamas, la Jihad islamica o la cosiddetta Brigata Jenin?
Non ne abbiamo idea, semplicemente perché noi cristiani restiamo completamente al di fuori di queste dinamiche. Vogliamo solo vivere in pace, proprio come la stragrande maggioranza degli abitanti di Jenin.

D: Quali sono le sofferenze attuali della gente?
È molto grave. Circa 20.000 persone sono fuggite dalle loro case in cerca di sicurezza nei villaggi vicini. Molti non sono in grado di lavorare, perché i posti di blocco a nord e a ovest, verso la Galilea, dove di solito lavorano, sono chiusi. L’unico posto di blocco aperto è a sud, verso Gerico, il che significa che per coloro che hanno bisogno di andare a nord, anche con il permesso, il viaggio dura ore.
Molte case sono prive di acqua perché i serbatoi di riserva sono stati distrutti, insieme a gran parte delle infrastrutture, e le strade sono state bloccate. Finora, circa 180 case sono state distrutte o demolite, tra cui due appartenenti a famiglie cristiane.
Uscire è estremamente pericoloso: io stesso evito di uscire se non è assolutamente necessario. Tuttavia, questo non mi impedisce di rimanere vicino al mio gregge, poiché rimango in contatto costante con loro tramite Zoom e WhatsApp. La nostra parrocchia dista solo circa un chilometro dal campo profughi, che è l’epicentro dei combattimenti.
Nonostante tutto, continuo a celebrare la Messa nelle sere delle feste, durante la settimana e, quando possibile, anche nei villaggi vicini, ospitato da altre comunità cristiane.

D: Padre Amer, cosa si aspetta per i prossimi giorni?
Questa volta c’è molta incertezza. Gli ultimi sviluppi politici non sono incoraggianti. Ma una cosa è certa: non me ne andrò. Ho intenzione di condividere pienamente questa tragica esperienza con le persone che stanno soffrendo.
E a quelli di voi che guardano da lontano, chiedo: pregate per noi. Pregate per noi, non smettete mai di pregare per noi. Perché ne abbiamo bisogno. E perché è l’unica cosa veramente utile che potete fare per noi in questo momento.
(Vatican News Di Roberto Cetera 06 febbraio 2025)