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2019 11 05 La preghiera di Papa Francesco per le violenze in Etiopia

Fonte:
CulturaCattolica.it
La preghiera di Papa Francesco per le violenze in Etiopia IRAQ - Martiri della Chiesa irachena in cammino verso la santità

La preghiera di Papa Francesco per la fine delle violenze in Etiopia

Al termine della recita dell'Angelus, Papa Francesco ha espresso il proprio dolore e la sua personale vicinanza ai cristiani della Chiesa Ortodossa Tewahedo di Etiopia vittime di violenza e al Patriarca Abuna Matthias. Poi, l'invito a recitare insieme ai fedeli l'Ave Maria :

Sono addolorato per le violenze di cui sono vittime i cristiani della Chiesa Ortodossa Tewahedo di Etiopia. Esprimo la mia vicinanza a questa amata Chiesa e al suo Patriarca, il caro fratello Abuna Matthias, e vi chiedo di pregare per tutte le vittime di violenza in quella terra.

Il contesto del Paese africano
Drammatico quanto complesso il contesto in cui si sono verificati i disordini di questa settimana a Oromia, regione centrale e molto popolosa dell'Etiopia.
Secondo quanto riportato dal sito della rivista dei Padri Bianchi, Africa, "un alto prelato, Melakehiwot Aba Woldeyesus Seifu, ha dichiarato alla Bbc che oltre 60 fedeli sono stati uccisi". Tuttavia, è ancora difficile stabilire il bilancio delle vittime. "La Chiesa ortodossa, la più grande confessione religiosa in Etiopia - si legge dalla rivista Africa - ha più volte affermato che le sue istituzioni e i suoi seguaci sono presi di mira. E anche in questa occasione sarebbero finiti nel mirino i fedeli cristiani". (RV 03 11 2019)

ETIOPIA - Acs: L’appello del Papa per l’Etiopia ha permesso di accendere i riflettori su una situazione drammatica che rischiava di essere passata sotto silenzio

L’appello di Papa Francesco lanciato domenica scorsa al termine dell’Angelus per chiedere la cessazione delle violenze in Etiopia e la preghiera per tutte le vittime coinvolte, ha permesso al mondo di conoscere una drammatica situazione di scontri nel Paese, che altrimenti sarebbe passata sotto silenzio. O quasi. In queste ultime ore, un bilancio aggiornato riferisce di più di ottanta decessi in un’onda lunga di proteste che sta causando morti soprattutto tra i cristiani della Chiesa Ortodossa Tewahedo, al cui Patriarca il Pontefice ha fatto giungere il suo segno di vicinanza e di preghiera.

La preghiera di Papa Francesco per la fine delle violenze in Etiopia
Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia, conosce bene le dinamiche che si sono innescate in Etiopia: “Quelli a cui assistiamo – dice - sono conflitti etnici nei quali si innesta una strumentalizzazione religiosa”.

I cristiani in Etiopia sono maggioranza?
R. - Sì. Sono circa il 60% della popolazione e la chiesa maggiormente diffusa è quella ortodossa. Non bisogna dimenticarci che è un conflitto etnico, non possiamo parlare di fondamentalismo religioso come esiste in altri Paesi dell’Africa. In Etiopia c’è una determinata etnia che vuole sopraffare un’altra etnia composta maggiormente da cristiani. Non a caso Papa Francesco, nel suo appello, si è rivolto a tutti gli etiopi e ha chiesto di pregare per tutte le vittime del conflitto in corso.

Anche la comunità internazionale deve mantenere viva l’attenzione su questa drammatica situazione…
R. - Non c’è dubbio. Aiuto alla Chiesa che Soffre, la scorsa settimana, ha presentato un nuovo focus sulla persecuzione a danno dei cristiani. E’ importante che ognuno di noi si renda conto che sono 300 milioni i cristiani che vivono in terre di persecuzione. Un cristiano ogni sette soffre direttamente o indirettamente la persecuzione in odio alla fede. Inoltre, la disarticolazione militare dell’Isis nelle aree del Medioriente sta spostando sia l’ideologia politico-religiosa del gruppo terroristico che i suoi militanti proprio in Africa, in particolare nel Sahel, nell’Africa sub-sahariana. Ma anche nell’Asia meridionale ed orientale.
(RV 05 11 2019)

IRAQ - Martiri della Chiesa irachena in cammino verso la santità

La domenica di vigilia della Solennità di Tutti i Santi del 2010, un gruppo terroristico massacrò 48 cristiani nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad. 48 servi di Dio. Il postulatore don Luis Escalante: la chiamata alla santità e diventata “ambito martiriale” per i cristiani iracheni
Marco Guerra – Città del Vaticano

Domenica 31 ottobre del 2010 un gruppo terroristico faceva irruzione, durante la celebrazione della Messa, nella cattedrale siro-cattolica Nostra Signora del perpetuo soccorso di Baghdad, dove erano presenti 150 persone tra sacerdoti, diaconi, coro e fedeli. Il commando composto da cinque miliziani prese in ostaggio tutti i presenti, chiedendo la liberazione di esponenti di Al-Qaeda.
Il blitz delle forze di sicurezza irachene e dei soldati statunitensi finì in un massacro in cui perirono due sacerdoti e 46 laici. Oltre 70 i feriti che, in molti casi, riportarono gravissime amputazioni.

La dinamica dell’attacco
I primi ad essere uccisi furono due giovani preti, padre Thaer e padre Wassim, colpiti mentre cercavano di impedire al commando armato di entrare. Waseem era seduto nel confessionale in fondo alla Chiesa, vicino alle porte posteriori, e quando entrarono i terroristi provò a parlare con loro ma fu ucciso a sangue freddo. Padre Thaer, celebrava la Messa e scese dall’altare provando anche lui a parlare con i terroristi e dicendo a loro: "Che cosa volete?, parlate con me e lasciate i fedeli". Subito un terrorista gli sparò versando il suo sangue sull’altare. Secondo le testimonianze raccolte, dando l’ultimo respiro disse: "Tra le tue mani consegno il mio spirito”. Alcuni dei diaconi riuscirono portare mons. Raffael Quataimi nella sagrestia, e nascosero lì anche una cinquantina di fedeli. Quando i terroristi furono in Chiesa costrinsero i fedeli a sdraiarsi a terra seminando gli ordigni che esplodendo causarono la morte di decine di persone.

L’appello di Benedetto XVI
Ancora oggi è considerato il più sanguinoso attentato contro i cristiani in Iraq dalla caduta di Saddam Hussein. “Un'assurda” e “feroce violenza” contro “persone inermi” fu definita da Papa Benedetto XVI che fece appello alla comunità internazionale affinché fosse messa fine alle violenze nel Paese.

Conclusa la fase diocesana del processo di beatificazione
A nove anni esatti di distanza si conclude oggi a Baghdad la fase diocesana della Causa di Beatificazione e Dichiarazione di Martirio dei 48 servi di Dio, iniziata lo scorso gennaio. Si tratta dei sacerdoti Thaer Abdal e Wassim Kas Boutros, e 46 fratelli nella fede: famiglie intere molto giovani, madri e padri di tutte le età, una ragazzina di 11 anni, Adam di 3 anni, un neonato di soli 3 mesi e un bambino non nato, in grembo alla madre anche lei morta durante l'attentato.

Procedono le cause di altri martiri iracheni
Lo scorso settembre sono arrivate alla Congregazione delle Cause dei Santi i processi per il riconoscimento del martirio di suor Cecilia Moshi Hanna, uccisa a Baghdad nel 2002, e di padre Ragheed Ganni e dei sui tre diaconi della Chiesa caldea fermati e trucidati da un gruppo di terroristi a Mosul nel 2007. Padre Luis: da questo martirio segni di speranza
Postulature diocesano e romano, della causa dei 48 cristiani uccisi nella cattedrale di Baghdad, è don Luis Escalante parroco a Sant’Antonino a Fara Sabina, recentemente tornato da una visita in Iraq. Dalle sue parole conosciamo meglio la testimonianza di santità lasciata dal sacrificio di questi martiri del XXI secolo:

R. – Questa della Chiesa siro-cattolica è una causa molto numerosa e questo gruppo così numeroso ha a capo padre Saher, un sacerdote di soli 32 anni: non era lui, il parroco, ma quel giorno, domenica, toccava a lui presiedere la Santa Messa delle 17. Poi c’è un sacerdote ancora più giovane, di 27 anni, padre Ouassim, che in quel momento stava confessando, al fondo della chiesa. Poi, il resto, il gruppo dei 48 include 10 gruppi familiari di tutti i tipi: padre e figli, una famiglia intera … e rappresentano tutte le fasce d’età, piuttosto nella fascia giovane, possiamo dire: gli anziani sono di meno; perché i terroristi cercavano precisamente i più giovani e prevalentemente maschi. Tra i piccoli c’è un bambino non nato, perché la mamma era incinta. Rappresentano un gruppo di cristiani con una discreta situazione economica in un momento molto convulso: l’anno 2010.
Ci sono anche dei bambini e quindi si è voluto veramente annientare il cuore della Chiesa irachena, e anche rompere quel mosaico iracheno di convivenza con le altre religioni …

R. – Infatti. Questo attacco era stato preceduto da altri attacchi a diverse chiese cristiane, senza distinzione di rito. All’interno di questo gruppo c’è anche un membro caldeo che andava a Messa lì per abitudine, e i bambini sono molti: io lo chiamo un nuovo Daniele di Babilonia, un bambino di nome Adam. E’ una figura importantissima durante il massacro, perché lui è tra gli ultimi a morire e come una voce costante che richiama alla pace, che segna il crimine orrendo che si sta compiendo. Alla fine, per non sentirlo più parlare, lo uccidono in braccio alla madre.
Sono passati solo nove anni; purtroppo, i frutti ancora sono frutti del maligno, perché in seguito a questo attentato due terzi della comunità siro-cattolica hanno abbandonato l’Iraq: per quello è stato – ed è ancora – difficile trovare testimonianze riguardo ad alcuni dei martiri dei quali non si sa nemmeno se abbiano un parente vivo. Ma i frutti che nella diaspora e nelle testimonianze che l’istruttore, l’arcivescovo di Baghdad, è riuscito a fare è di grande speranza. Cioè è un frutto che – come diceva San Francesco di Sales – che cresce piccolo ai piedi della Croce.

Lei è appena tornato dall’Iraq, che è una terra che continua a soffrire e dove i cristiani continuano a subire una sistematica persecuzione. Può dirci cosa ha visto, qual è la situazione?
R. – La situazione è molto difficile, perché sconfitto il cosiddetto Daesh o califfato nella parte Nord dell’Iraq, i cristiani – chiamati dai pastori, dai vescovi – con un aiuto discreto – si nota l’aiuto dal mondo, soprattutto delle organizzazioni cattoliche, nella ricostruzione delle chiese, dei servizi … Il problema di quelli che già sono tornati dalla diaspora: tanti hanno vissuto nei campi di rifugiati in Giordania o in Turchia; tra quelli che avevano deciso di rientrare, più di una famiglia ha scelto di lasciare di nuovo il Paese perché si trovano che lo spirito che aveva accolto o che aveva permesso l’insediamento del cosiddetto califfato, quello spirito rimane: cioè, le persone che hanno accolto Daesh ancora stanno vivendo nei villaggi intorno a Mosul e a Baghdad. E quindi, le difficoltà nel lavoro, le costanti discriminazioni per non parlare delle minacce … creano la realtà del fatto che non è facile, tornare. (RV 31 10 2019)

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