2018 09 12 NIGERIA Pastore protestante bruciato vivo insieme alla moglie e ai tre figli
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NIGERIA - Pastore protestante bruciato vivo insieme alla moglie e ai tre figli
L’attacco nel villaggio di Abonong, nel quale otto persone sono morte e oltre 90 case sono state bruciate, sarebbe stato compiuto da pastori musulmani fulani, che a giugno hanno massacrato oltre 200 cristiani
Martedì 28 agosto un gruppo di uomini armati ha dato fuoco alla casa di un pastore protestante nel villaggio di Abonong, nello Stato nigeriano di Plateau, bruciando vivo lui insieme alla moglie e ai tre figli. Secondo quanto riportato dai media locali, gli autori dell’attacco sarebbero un gruppo di pastori musulmani fulani armati di machete e kalashnikov.
Secondo un testimone oculare, Isaac Choji, citato da The Nation, i criminali hanno aspettato fuori dalla porta della casa in fiamme fino a quando non è rimasto più nulla, per assicurarsi che il pastore, Adamu Gyang Wurim, e la sua famiglia non scappassero. Anche una vicina è stata ferita ma non è in pericolo di vita. Altre tre persone, invece, sono rimaste uccise nell’attacco, che è stato confermato dalle autorità locali.
Il villaggio, dove sono state bruciate oltre 90 case e i cui abitanti ora hanno paura e vivono nel panico, si trova nel distretto di Barkin Ladi, lo stesso che a giugno è stato preso di mira dai pastori musulmani in una serie di attacchi che hanno causato oltre 200 vittime.
Secondo il National Christian Elders Forum, «il cristianesimo in Nigeria è vicino all’estinzione. Realisticamente parlando, possiamo dire che i cristiani rischiano di sparire nei prossimi 25 anni, da qui al 2048. Potremmo essere noi l’ultima generazione di cristiani del paese se non cambieranno le cose. Centinaia di persone vengono uccise ogni giorno, mentre la sharia cresce sempre di più». Molti vescovi cattolici hanno parlato negli ultimi mesi di un tentativo di «islamizzare la Middle Belt nigeriana» e gli attacchi purtroppo non sembrano diminuire.
Tempi Settembre 2, 2018 Leone Grotti
NICARAGUA - Intimidazioni contro la Chiesa: scritte sulle mura della Cattedrale, disturbate le messe
Le mura della Cattedrale Metropolita di Managua sono state imbrattate con le scritte “Preti golpisti” o “Preti assassini”, firmate dall’FSLN (Frente Sandinista de Liberacion Nacional, il partito del governo). Si tratta dell’ennesimo episodio che testimonia la tensione esistente nel paese: dinanzi alle proteste popolari dei comuni cittadini, il governo invia gruppi di militari o estremisti a diffamare la Chiesa cattolica. Il rettore della Cattedrale, padre Luis Herrera, ha spiegato che ogni volta che passano le marce dei sostenitori del governo, nella strada che va dal Metrocentro alla collina di Tiscapa, i manifestanti gridano oscenità contro i religiosi e ormai quindi non sorprende che abbiano osato imbrattare le mura della Chiesa.
Da quando, il 20 aprile, la Cattedrale di Managua è stata rifugio per centinaia di giovani che erano stati attaccati dai sostenitori del governo e dalla polizia nazionale, gli atti di intimidazione e discredito contro la Chiesa non si sono mai fermati. In quella occasione, altri giovani erano arrivati al tempio cattolico con aiuti umanitari per gli studenti universitari che protestavano contro le riforme della legge sulla sicurezza sociale, ma il regime li aveva brutalmente attaccati per evitare di aiutare coloro che erano nelle università. Gli orteguisti spararono proiettili di piombo, proiettili di gomma e gas lacrimogeni anche in chiesa (vedi Fides 28/04/2018).
La situazione comincia a preoccupare tutta la comunità cattolica, e non solo. Fides ha ricevuto poche ore fa un messaggio di Mons. Silvio José Baez, Vescovo ausiliare di Managua, nel quale si legge: “Mio fratello, Mons. Jorge Solorzano, Vescovo di Granada, ha appena confermato la mancanza di rispetto dei gruppi del governo che sono entrati con violenza nel tempio di La Merced durante la celebrazione della messa domenicale. La mia solidarietà a lui e a questa cara diocesi”.
Purtroppo non è un caso isolato: padre Edwin Román, parroco della chiesa di San Miguel a Masaya, ha riferito che ieri pomeriggio, domenica, il commissario Ramón Avellán, nuovo vice direttore della polizia nazionale, insieme a molti poliziotti in tenuta antisommossa e simpatizzanti sandinisti, si sono messi davanti alla chiesa con un megafono nel momento in cui si celebrava la messa.
Il sacerdote, secondo messaggi arrivati a Fides, alle tre del pomeriggio, è andato personalmente a chiedere al commissario Ramón Avellán di abbassare il volume all’altoparlante, che trasmetteva musica a favore del partito governativo, perché disturbava il servizio religioso. La risposta è stata un colpo, una spinta violenta e un’aggressione verbale contro il sacerdote.
(CE) (Agenzia Fides, 10/09/2018)
TESTIMONIANZA
CENTRAFRICA - un sacerdote, il lavoro salva i giovani dal finire nei gruppi armati
Dopo la denuncia di Medici Senza Frontiere, che parla dell’aggravarsi della situazione a Bambari, in Centrafrica, uno dei parroci della città, don Félicien Endjimoyo, assicura: sacerdoti e suore vogliono rimanere nonostante il pericolo sia molto alto.
Dallo scoppio nel maggio scorso dell’ultima ondata di violenza che in Repubblica Centrafricana ha colpito Bambari, nella parte centrale del Paese, alle 40 mila persone che già vivevano all’interno dei campi per sfollati e nella periferia della città se ne sono aggiunte negli ultimi mesi altre 3 mila che hanno dovuto lasciare le loro case per fuggire dagli scontri. A testimoniarlo è Medici Senza Frontiere, che denuncia come a causa dell’insicurezza per gli attacchi di due gruppi armati si registrino feriti tra i civili, ci siano difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari e alcuni centri supportati da Msf siano rimasti chiusi per più di una settimana, subendo attacchi e furti di medicinali.
Sacerdoti costretti ad andare in zone più sicure
Don Félicien Endjimoyo, parroco della chiesa di San Giovanni a Bambari, racconta come nei mesi scorsi, dopo la morte a fine giugno del vicario della città, mons. Firmin Gbagoua, in seguito alle ferite riportate in un attacco di un gruppo ribelle, anche i sacerdoti siano stati costretti a spostarsi “in una zona per loro più sicura: di giorno escono per andare nelle parrocchie e per svolgere il loro ministero, mentre di pomeriggio sono costretti a recarsi nelle zone più sicure. Di conseguenza, da luglio fino ad oggi le attività pastorali sono state meno intense”. Ma aggiunge come ora sia il momento di “ritornare nelle nostre parrocchie”, perché sia i sacerdoti, sia le suore nonostante il pericolo sia “molto alto” non se ne vogliono andare.
Il ritorno delle violenze
A cinque anni dallo scoppio nel 2013 del conflitto nel Paese africano per i continui scontri tra milizie Séléka e gruppi anti Balaka, che nel tempo hanno perso d’intensità, ad agire ora sono gruppi combattenti riconducibili alle medesime fazioni di allora, spiega il sacerdote: “l’Onu ha fatto tanto per far sì che i ribelli uscissero da Bambari, ma a poco a poco sono ritornati in città e sono sempre quelli, i Séléka e gli anti Balaka che si scontrano. Se la prendono con la popolazione civile, rubano, saccheggiano in cerca di cibo, creando proprio delle situazioni di guerra”. Attaccano i quartieri centrali, come anche le zone più periferiche, o quelle in cui si trovano i campi di sfollati: “a Bambari ne abbiamo cinque, la maggioranza della popolazione vive lì, mentre soltanto la minoranza abita ancora nei quartieri” della città.
Un antidoto ai combattimenti
A maggio e giugno scorsi, prosegue il parroco di San Giovanni, si è vissuta dunque “una situazione bruttissima”, “nella paura della violenza”. Tuttavia, assicura, “ci sono stati tanti incontri tra il governo e i gruppi armati e la situazione si è un po’ calmata. Ora hanno annunciato una manifestazione nazionale in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione, il 16 ottobre. E per questo stanno mobilitando la popolazione civile e cercando di controllare i gruppi armati affinché non vengano compiuti atti di violenza, ma si faccia in modo che la manifestazione aiuti la gente a ritrovare l’equilibrio della vita normale. Proprio per questo - spiega - alcune agenzie umanitarie hanno impiegato gruppi di giovani per i lavori pubblici: in questo modo, lavorano e non hanno la possibilità di entrare nei movimenti armati. Lavorano per sistemare le strade o per costruire un monumento. In questo modo possono impegnarsi per il bene pubblico, invece di finire a rubare e a commettere violenze”.
Il viaggio di Papa Francesco
In questo quadro, non cessa - conclude don Félicien - quella speranza portata dalla visita di Papa Francesco in Centrafrica, nel novembre 2015, con un “messaggio che conduce proprio alla ricerca della pace, anche oggi”. RV 05 09 2018 Giada Aquilino - Città del Vaticano