Comunicato stampa sulla vicenda di Eluana Englaro
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo utile intervento:UNIONE GIURISTI CATTOLICI DI FORLI’ CESENA
“SAMUELE ANDREUCCI”
Piazza del Popolo, 44 - Cesena
Tel. 0547.611878
- Curatore:
- Fonte:
Siamo un gruppo di giuristi di Forlì e Cesena, che da poco hanno dato vita ad una sezione locale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani.
La delicata decisione assunta dal padre di Eluana Englaro di sospendere l’alimentazione e l’idratazione della figlia in situazione di coma persistente;
le modalità con cui detta decisione è stata avallata dai giudici, specie con la sentenza della Corte di Cassazione 21748/2007, a cui è seguito il decreto della Corte di Appello di Milano 9 luglio 2008, con cui la prima sezione civile ha accolto il ricorso proposto da Beppino Englaro, ed ha autorizzato l’interruzione del trattamento di sostegno vitale di Eluana, sulla base di un “presunto” consenso che avrebbe espresso la figlia a suo tempo, tratto peraltro dal suo “stile di vita”;
la recentissima sentenza del T.A.R. Lombardia, secondo la quale – una volta affermato il diritto – sarebbe obbligo dell’Amministrazione Sanitaria addirittura “indicare la struttura sanitaria dotata di requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi” tali da attuare il suo “diritto assoluto a rifiutare il trattamento sanitario”, al fine di apprestare “tutte le misure, suggerite dagli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, atte a garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona, durante tutto il periodo successivo alla sospensione del trattamento di sostegno vitale”;
ma soprattutto l’odierna decisione di attuare quanto sopra presso la clinica (anzi, Azienda pubblica per i Servizi alla Persona) “La Quiete” di Udine, sicché Eluana sarà la prima persona a morire per fame e per sete in Italia (epperò con la garanzia di un “adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio”);
tutto ciò ci porta a far sentire forte la nostra voce dissenziente, anche e soprattutto dal punto di vista dell’operazione giuridica che è stata realizzata.
Nonostante quanto dichiarato dal Presidente Grechi della Corte d’Appello di Milano, secondo cui i giudici “non hanno invaso territori altrui” e consapevoli che qualunque decisione giudiziaria può essere legittimamente criticata, ci permettiamo di considerare come i magistrati abbiano – in questa vicenda – quanto meno forzato la mano: aspettando una legge sull’eutanasia che non arrivava, hanno ritenuto che ci fossero già sin d’ora le condizioni per stabilire un diritto della persona ad abbreviare la propria vita, con una decisione del tipo di quelle che si sogliono chiamare “creatrici di diritto”.
Ma vi sono, nel nostro ordinamento, norme espresse (gli articoli 579 e 580 del codice penale, che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio; o l’art. 5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica) che dicono tutto il contrario
In primo luogo, quindi, non pare legittimo che la drammatica vicenda – dirompente per tutti, per le profonde questioni umane e di fede che pone – possa essere affrontata con l’introduzione per via giudiziale di un principio che (non solo in una situazione di vuoto legislativo, ma in presenza addirittura di norme penali di segno opposto) si presenta formulato come un vero e proprio comma di legge (una sorta di esimente o di deroga alle ipotesi di reato previste, riguardante una condotta legittimata dall’autorizzazione del giudice in presenza di date condizioni).
In secondo luogo, queste decisioni ci appaiono profondamente ingiuste perché vanno oltre il principio da loro stesse affermato.
Infatti, se è vero che è diritto di ogni persona quel¬lo di non essere sottoposta a trattamenti sanitari obbligatori (se non nei casi previsti dalla legge), perché questo (ma questo soltanto!) dispone l’ar¬ticolo 32, secondo comma, della Costituzione, non è però vero che questo diritto possa automaticamen¬te essere interpretato come un diritto ad ottenere presta¬zioni mediche che favoriscano l’eutanasia.
In particolare, si ritiene che il diritto di rifiuto delle cure sia un diritto di libertà negativa, che impedisce intrusioni altrui nella propria scelta (espressa, attuale ed informata).
Detto diritto (anche portato alle estreme conseguenze del cd. lasciarsi morire, ossia dell’eutanasia passiva, che comunque anch’essa non si ritiene rinvenibile nell’ordinamento giuridico, art. 5 richiamato) non può mai trasmutare in pretesa di un comportamento “attivo” nei confronti di terzi, chiamati a realizzare la scelta dell’interessato (quando quest’ultimo sia impossibilitato), perché detta eventuale azione di intervento attivo del terzo è (oltre che contrastante con i sacrosanti principi di deontologia medica, per cui la finalità del medico è quella di curare e salvare la vita delle persone) integrativa delle fattispecie vietate sopra richiamate.
Non può poi non accennarsi alla parte più debole delle sentenze, riguardante l’assoluta “presunzione” del consenso che è stato ritenuto valido per sospendere l’alimentazione e l’idratazione di Eluana, individuato “ricostruendo – dice la Cassazione – la decisione ipotetica che il paziente avrebbe assunto ove fosse stato capace, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti” (si pensi che ciò si riferisce alla decisione di morire; ed ora si pensi a ciò che succederebbe se la decisione di lasciare a Tizio o a Caio una parte del patrimonio fosse desunta dalla personalità o dallo stile di vita del testatore…).
Allo stesso modo deve rilevarsi l’assoluta insufficienza di una tale presunta volontà, anche così ricostruita, a legittimare un atto di disposizione di quei “diritti personalissimi” (come quello alla vita), considerati dalla stessa giurisprudenza indisponibili ed intrasmissibili.
Ma ciò che più sconcerta, a parte le analisi tecnico giuridiche che hanno segnato il caso, è il fatto che i magistrati che sono intervenuti nel merito del caso paiono giocare con le parole.
Si ha un bel dire – sia da parte della Corte di Cassazione, che da parte del T.A.R. Lombardia – che «tale ipotesi non costituisce, secondo il nostro ordinamento, una forma di eutanasia, bensì la scelta insindacabile del malato a che la malattia segua il suo corso naturale fino all’inesorabile exitus».
Qui non si è meramente di fronte al rispetto di una scelta personalissima (come quella di non farsi curare). Rispettare una scelta, infatti, non comporta il dovere di cooperare con chi la compie per aiutarlo nel realizzarla, quando si ri¬tiene che tale scelta sia eti¬camente e socialmente e deontologicamente cri¬ticabile (e soprattutto quando non si sappia con certezza se la scelta sia veramente tale).
Fermo restando poi che nel caso di Eluana Englaro non vi è alcuna condizione di malattia, né alcun trattamento terapeutico (e tanto meno “accanimento” in tal senso) in atto. Come autorevoli fonti hanno, e non solo in questi giorni, ma già da tempo, spiegato e chiarito, Eluana è perfettamente sana, ancorché in condizioni di grave disabilità e non autosufficienza. E difatti ella non abbisogna di alcuna cura o medicinale, ha regolari ritmi veglia-sonno, non ha necessità di ausilio di alcun macchinario. Semplicemente, durante le ore notturne, riceve l’alimentazione e l’idratazione attraverso un sondino (significativo, in proposito, l’articolo pubblicato su Avvenire del 3.2.2009, dal titolo “Se questa è una donna che va portata a morire”, dove viene descritta dettagliatamente la giornata di Eluana). Né si può considerare, al contrario di quanto artatamente e contraddittoriamente sostenuto dalla Corte d’Appello di Milano e dal T.A.R. Lombardina, che mai e poi mai l’alimentazione e l’idratazione, ancorché somministrati mediante sondino naso-gastrico o “p.e.g.”, possono essere considerati “atto terapeutico” o “accanimento terapeutico”: dare da mangiare e da bere ad una persona non autosufficiente non costituisce mai, senza tema di smentita e nonostante le diverse e superficiali affermazioni contenute nei provvedimenti giudiziari succedutisi, una “cura”, ma è un semplice e naturale gesto di soddisfazione di un bisogno primario di ogni individuo. Come non si può non riflettere sul dato terrificante, reso noto ieri, che la procurata morte per fame e per sete è prevista, per Eluana, nel volgere di tre settimane?! Immaginiamo solo per un momento, o proviamo a farlo, per quanto ci è dato nella nostra condizione, la sofferenza di una persona costretta per tre settimane senza cibo e acqua. Ma Eluana avverte cosa accade attorno a lei? Sente quello che viene detto? Nessuno lo sa, né lo può dire. Nessun neurologo, nessuno scienziato ha mai saputo varcare la soglia misteriosa e valutare quanta coscienza resti a persone in queste condizioni. Loro, quando ne escono, raccontano: « Sentivamo tutto, non sapevamo dirvelo».
E se anche Eluana sentisse tutto, e non sapesse dirlo?
In conclusione, la scrivente Unione locale dei giuristi cattolici italiani auspica che immediatamente vi sia ripensamento, da parte dei genitori di Eluana Englaro nonché degli amministratori dell’ASP La Quiete di Udine, sulla decisione di porre fine alla vita di Eluana procurandole la morte per fame e per sete; che altrettanto immediatamente vi sia presa di coscienza, da parte di ogni Autorità e/o amministrazione competente, che il nostro ordinamento, nonostante la “creativa” visione di alcuni giudici, non consente una conclusione della vita di Eluana come quella che si sta purtroppo delineando; che sia posto pertanto immediatamente in atto qualsiasi legittimo strumento idoneo ad impedire il compiersi di tale tragico evento; che infine il Parlamento intervenga con la massima rapidità per approvare una legge sulla fine della vita umana e sulle dichiara¬zioni anticipate di trattamento (peraltro da dimostrarsi rigorosamente), che ri¬sponda a minimi requisiti di giustizia e che, nel riconoscere il diritto al di¬chiarante di chiedere o rifiutare specifici tratta¬menti sanitari, escluda quelli che comportino eutanasia attiva o passiva (e la sospensione dell’ali¬mentazione e dell’idratazione è eutanasia!).
La Sezione U.G.C.I. di Forlì Cesena