Che cosa aspettiamo a parlare di educazione?

fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza»
(Dante, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)
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Il passato
Primo maggio, festa del lavoro. E io mi interrogo sul mio, di lavoro. Sul senso.
Insegno dal 1987. Tredici anni di precariato, prima di approdare al liceo in cui sono ora. Tredici anni di supplenze o incarichi temporanei in tutte le scuole medie e superiori del circondario.
Era nato da poco il secondogenito e per qualche mese ho insegnato al triennio di un Istituto professionale.
Primo giorno in quarta, dopo un lungo colloquio con il preside che, registro tra le mani, mi mostra, a campione, un po’ delle note ricevute dai ragazzi e mi avverte dei “casi umani” più numerosi lì che nelle altre quarte.
Entro. Un giovanottone pluribocciato – presumo si tratti di uno dei “segnalati” – mi squadra dalla testa ai piedi con quell’espressione che glielo leggi in faccia che sta pregustando qualcosa.
Faccio l’appello, mi presento, chiedo che mi dicano qualcosa di loro, poi mi informo per sapere dove sono arrivati con il programma e comincio a spiegare cosa faremo insieme.
Mentre parlo, mi accorgo che “il solito” tamburella con una penna su un pacchetto di sigarette che teneva nella tasca anteriore dei jeans. Fingo di non sentire ma capisco che si sta spazientendo perché non lo bado. I compagni intanto ridacchiano: è il bullo e gli vanno dietro. Continuo a parlare senza scompormi. La finirà, penso. Ad un tratto mi punta gli occhi in faccia e mi dice: «Lo senti come è duro?»
Alcuni ridono, altri si bloccano. Sembrano cani in ferma tra cacciatore e preda. Cosa accadrà, ora? Che ne sarà della supplente?
Non saprei dire cosa mi è frullato nel cervello in quegli attimi. Una nota? Il preside? Richiesta di provvedimenti disciplinari? Fingo ancora di non sentire e continuo a spiegare? Mi alzo e me ne vado sbattendo la porta?
E’ veloce, il cervello, e chissà cos’altro ha macchinato in quegli istanti (compreso cercare nelle tasche l’anello fatato di Angelica che mi rendesse invisibile, un buono per il teletrasporto, un paio di pizzicotti sogno-o-son-desta ed altri escamotage che non ricordo).
So che l’ho guardato fisso negli occhi. Uno sguardo più forte del suo.
Senti un po’, ragazzino. Se vuoi davvero che parliamo di peni, vagine, petting, rapporti orali, anali, completi… o, se preferisci, di cazzi, fighe, scopate, pompini… sono una donna sposata, ho due figli e ne so sicuramente più di te. Potremmo anche mettere tutti i maschi in fila e fare una gara per vedere chi in questa classe ce l’ha più bello e più duro. Potremmo cercare sul dizionario tutti i modi possibili per nominare i nostri organi genitali in italiano e nelle varianti regionali. O leggere il Kamasutra. Ma tutto questo, credimi, sarebbe di una noia mortale. Sono robe che sappiamo e che sapete, che trovate sulle riviste porno, nei film hard, al computer… Se avete pazienza, se vi fidate, sono qui a raccontarvi di più, a farvi conoscere di più, a stupirvi davvero.
Provate a immaginare le reazioni della classe. Lui, il bullo, pietrificato. Gli altri a darsi gomitate, le facce a dire è proprio tosta, questa qui. Ed è calato il silenzio. Mi sono stati a sentire. Tutti.
Volete sapere poi come è andata, nei mesi successivi? Mi hanno dato retta, hanno accettato la sfida. E alla fine dell’anno, quando con una pizza di classe ci siamo salutati, hanno ricordato questo nostro primo giorno insieme e mi hanno ringraziata. Anche il bullo, che ha un nome e si chiama Lucio e con me non ha mai preso una nota. Le pagine sull’amore che abbiamo letto insieme erano davvero “di più”. Più di quel che vedevano in tivù, delle barzellette che circolavano a ricreazione, delle esperienze affettivamente e sessualmente arruffate che si comunicavano tra coetanei. Più di quel che gli avevano tecnicamente spiegato gli “esperti” durante le ore di educazione sessuale. Più di quel che vedevano vivere intorno a loro.
Il presente
Racconto questo perché ogni mattina, a scuola, l’insegnante è chiamato a decidere. Può scendere al livello dei ragazzi, della cronaca, del così va il mondo, del relativismo dilagante, del nichilismo imperante, de politically correct, oppure, muovendo dalla realtà e dalle sue ferite, partendo dai tentativi maldestri degli uomini e dei personaggi della letteratura per trovare la strada della felicità, interrogarsi per rispondere insieme all’unica domanda che vale davvero: «Quid animo satis?»
Se la cronaca racconta di baby prostitute, di giovani che passano il tempo su You Porn, di ragazzine che in cambio di una ricarica di cellulare offrono sesso orale nei bagni delle scuola… Se va di moda la compravendita di ovuli, o gente (molto abbiente) affitta uteri altrui e donne (solitamente bisognose di denaro) li danno ai maggiori offerenti e accettano di essere chiamate «portatrici»… Se le Femen vogliono farci credere che «le tette non sono tette ma un messaggio politico»… Se «loveislove» e non si discute… Se un sessantenne è stato trovato a letto con una undicenne «ma era amore»… Se nei social le ragazzine postano le loro foto di nudo e questa generalizzata mercificazione del corpo pare essere diventata la normalità… Aggiungeteci pure tutti i se che nascono dalla vita, tutti i se che volete.
Compito della scuola è darsi una scrollata di spalle e prendere atto che questa è la realtà, facciamocene una ragione, o la scuola può (ancora) aiutare i giovani ad usare il cervello e a porsi criticamente delle domande? «Quid animo satis?» E’ felicità, quella? Che la felicità vera non si accontenta dei surrogati, lo dice il cuore (e lo racconta splendidamente la letteratura cos’è lo spleen, il tedio, la noia, il male di vivere…) Appunto. Al biennio e al triennio incontriamo autori e testi della letteratura italiana e straniera che bastano e avanzano come occasioni per confrontarsi con i problemi del presente e con tutti i temi della vita: del nascere e del morire, dell’amore e del dolore, della felicità... Sono testi di qualità su cui discutere, aiuti preziosi per educare i giovani al valore e alla dignità di ogni uomo e di ogni vita sempre; per aiutarli a comprendere che non esistono persone di serie A e di serie B.
Cosa è accaduto negli anni e nei nostri cervelli se siamo disposti a barattare la grande letteratura con gli autoruncoli? Se anziché lanciare ai ragazzi sfide alte ed incontri con i grandi – esperienze che per qualcuno non si ripeteranno più –, anche a scuola ri-proponiamo l’ideologia a buon mercato che imperversa ad ogni angolo? Se abbassiamo l’asticella: i contenuti, il messaggio, il linguaggio, tutto?
Svecchiare la scuola non è «distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo…», come dicevano i Futuristi. (Noi potremmo aggiungerci l’omofobia, il femminicidio, gli stereotipi di genere e quel che più aggrada alle mode, al ministero, all’Unar) Svecchiare la scuola è aiutare i ragazzi a capire che la grande letteratura, anche quella di ieri, c’entra con la vita, con l’oggi, con le domande del cuore.
Primo maggio: festa del lavoro. Pure vivere è un mestiere, ce l’ha ricordato Pavese. Un mestiere non si improvvisa. Oggi più di ieri servono maestri.