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Pirandello e la fede

In una grande intervista del 1936, Pirandello dà conto della propria visione del mondo, giudicando il proprio teatro ed esplicitando la propria fede cristiana. Sipario sul senso religioso

Intervista a Luigi Pirandello di Giovanni Cavicchioli, «Termini», 1936


Lo vado a trovare all'albergo. Mattiniero, già vestito, pronto per andare alla prova: mi ha dato un appuntamento che scombussola un po' le abitudi­ni: sveglia, caffè anticipato, piani serali come per una partenza di buon mattino: «si gira».
Eccolo davanti a me, il Pirandello vi­vo, quello che scappa ai suoi imbalsama­tori, che non gliela perdonano. Ecco la sua voce acre e fredda, da diagnostico, da gran medico chiamato al nostro ca­pezzale di sedentari, malati di tutte le malattie del sedentarismo. Eppure, nei toni più bassi, specialmente quando par­la abbassando la voce, per entrare nel denso dell'argomento (come nel mondo fisico si abbassa la testa per entrare da una porta bassa) la voce si rivela fredda, incisiva, a lama di coltello proprio per questa anatomia della nostra vita psichi­ca, per recidere tumori e tessuti necrotiz­zati: una volontà religiosa, inflessibil­mente religiosa e morale presiede a que­ste anatomie, a queste operazioni d'alta chirurgia.
- Teatro serio, il mio - dice Pirandello - vuole tutta la partecipazione dell'enti­tà morale uomo. Non è un teatro comodo.
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Sì - confermo - ma capisco che il borghese, non più protetto dalla «beata infanzia», e non ancora adulto, non an­cora cresciuto al «problema» ne rifugga temendo per l'incolumità personale. Il pericolo è la dissociazione della persona­lità quando manchi un forte centro unificatore.
- Teatro difficile, diciamo, teatro pericoloso- aggiunge Pirandello. - Nietzsche diceva che i Greci alzavano bian­che statue contro il nero abisso, per na­sconderlo. Sono finiti quei tempi. Io le scrollo, invece, per rivelarlo.
«In questo nulla spero di trovare il tutto» dice Faust avventurandosi alla regione inferna delle madri. Per poter scendere in fondo all'abisso ci vuole al­meno la speranza di trovarci Elena... Bisogna abituarsi a vedere nel buio.
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Certo è un teatro assolutamente antiborghese, e nello stesso tempo il più adatto al borghese per venirci a fare i suoi esercizi spirituali.
- La difficoltà - risponde Pirandello - è tutta nell'esecuzione che dovrebbe es­sere pari alle difficoltà proposte. È la tragedia dell'anima moderna. Bisogna farla discendere dal palcoscenico fra questo pubblico. L'esecuzione dovrebbe avere appunto un carattere religioso: si tratta di un «mistero» moderno. Se l'ese­cuzione fosse come la voglio, come la ve­do, il pubblico, sono certo, seguirebbe, entrerebbe nel mio giro.
- In tempi d'azione e di rivoluzione questo teatro è teatro di rivoluzione e di esecuzioni capitali. In questo senso lo considero teatro del mio tempo. La distruzione esige una ricostruzione. Fa ta­bula rasa perché appaiano nuovi valori. - Esso chiama a raccolta perciò, le più profonde forze vitali dell'uomo.
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Ma in che senso il suo teatro rispon­de alle esigenze dell'arte moderna? E, anzitutto, a suo parere, quali sono le ne­cessità della nostra epoca, in fatto d'ar­te?
- Non ci sono programmi, non ci pos­sono, non ci devono essere preformazioni e imbrigliamenti. L'arte, libera vita dello spirito, deve essere assolutamente libera, per manifestare se stessa. Tutto il mio teatro riconosce solo una necessi­tà, proprio nel senso greco, una duplice contraddittoria necessità primordiale della vita: essa deve consistere e nello stesso tempo, fruire. La vita ha pur da consistere in qualche cosa se vuole esse­re afferrata. Per consistere le occorre una forma, deve darsi una forma. D'al­tra parte questa forma è la sua morte perché l'arresta, I'imprigiona, le toglie il divenire. Il problema è questo, per la vita: non restar vittima della forma. E' qui tutto il tragico dissidio della storia della libertà. Nietzsche, Weininger, Mi­chelstädter vollero far coincidere asso­lutamente a ogni istante, forma e so­stanza, e furono spezzati e travolti.
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Questo dissidio era anche alla base della vita spirituale greca: Parmenide, fi­losofo dell'ente immobile, dell'Uno: Era­clito, il proclamatore della trasformazio­ne, della instabilità, dell'eterno fluire. In lei, forse per le profonde radici della raz­za, riappaiono le due esigenze, ma si uni­ficano e prendono coscienza di sé come antagoniste. Quale soluzione pone lei al conflitto?
- Questo: non lasciar soffocare dalla forma la vita. Esiste in noi un punto fondamentale, un nucleo di sostanza vitale che non può essere impunemente chiuso e soffocato. Nei grandi momenti della vita lo sentiamo in pericolo e allora lo difendiamo.
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Il Lazaro - domando - vuole dare una risposta in questo senso?
- Sì. Nel Lazaro do la risposta più net­ta al dissidio fondamentale, nel mio tea­tro, in quanto fatto religioso e sociale.
Se all'uomo non libero togliete la forma, in quanto legame spirituale, subito egli ricasca fra le bestie, e il primo atto della sua così detta libertà è una fucilata contro un altro uomo, contro l'Adamo nuo­vo che vive in pace con la sua Eva. Il fi­glio allora si sacrifica, rientra nell'ordi­ne, indossa ancora la veste sacerdotale per coloro a cui è necessaria. La sua fe­de razionale conduceva alla rovina, e non era che forma essa pure. Cristo è ca­rità, amore. Solo dall'amore che com­prende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è ri­solto il conflitto. Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. Della mia opera nulla è all'indice. La
Civiltà Cattolica ne ha par­lato a fondo, in tre articoli che formano addirittura un volume, e conviene della sua perfetta ortodossia. Voglio dire che uno degli aspetti della mia opera è que­sto: perfetta ortodossia in quanto posi­zione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristia­na.

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