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La catastrofe dei "valori comuni": dall'aborto all'infanticidio

Fonte:
CulturaCattolica.it

Due notizie nel mese di febbraio 2012 hanno suscitato, anche se con un risalto differente, una vera indignazione per quanto teorizzavano in merito al tema della vita.

Grande enfasi grazie anche al giornale Avvenire, ha suscitato l’articolo di due ricercatori italiani pubblicato anche sul Journal of Medical Ethics sulla possibilità di eliminare un bambino appena nato se si presentano quelle stesse condizioni che nella nostra società contemplano la legittimità dell’aborto: «quando per esempio una donna dice che un bambino disabile potrebbe rappresentare un rischio per la propria salute mentale». Stiamo parlando di infanticidio, ma c’è già chi sta introducendo un nuovo termine propedeutico all’affievolimento del rifiuto di questa pratica: “aborto post-natale”. Questo modo di usare i termini ci dovrebbe allarmare visto che il termine aborto sembra essere ormai politically correct al punto di essere usato per mascherare l’infanticidio che richiama orrore. Si tratta in pratica di indicare la possibilità di equiparare un neonato a un feto, non in senso positivo a favore del feto, ma in senso peggiorativo in termini di difesa della vita, per il neonato. Prendere cioè in considerazione la possibilità di infanticidio quando un neonato al momento della nascita non riceve ossigeno subendo danni cerebrali irreparabili, oppure nel caso in cui alcune patologie siano conclamate e diagnosticate solo dopo la nascita. Infatti viene riconosciuto che gravi patologie non sempre vengono diagnosticate prima della nascita. I due studiosi italiani sostengono che «Dopo la nascita di questi bambini, non c’è alcuna alternativa per i genitori, se non quella di tenere i bambini, che a volte è proprio ciò che probabilmente non avrebbero fatto se la malattia fosse stata diagnosticata prima della nascita». In pratica ciò che suggeriscono è l’eutanasia infantile, purtroppo già applicata in Olanda, dove è in vigore il Protocollo Groningen che dal 2002 consente di porre fine alla vita di un neonato attraverso una decisione assunta dai medici e dai genitori. Oltre alla drammaticità della tesi preoccupa che nessun limite sia fissato per queste pratiche, intendendo quindi che la vita è sempre disponibile nel momento in cui perde quelle caratteristiche di “normalità” rispetto al senso comune. Ci si domanda chi sia a deciderlo. Purtroppo l’articolo di questi due ricercatori andava anche al di là di questo scenario eugenetico, abbracciando l’utilitarismo più spinto che permette di scegliere chi è persona e quindi chi può vivere in base a criteri di scelta utile alla volontà, in questo caso della madre o della società, senza neanche presupporre motivi di salute. Ancora più preoccupante la tesi che un neonato è equiparabile a un feto «nel senso che entrambi mancano di quelle proprietà che giustificano l’attribuzione di un diritto a vivere dell’individuo». Sono naturalmente entrambi esseri umani e delle persone in potenza, ma nessuno dei due è strettamente una “persona” nel senso di essere il “soggetto di un diritto morale a vivere”. Questa sarebbe la fine dell' umanesimo sul quale abbiamo costruito la nostra società.

Queste tesi purtroppo non sono nuove, ricordiamo la cosiddetta Carta di Firenze di qualche anno fa e quanto pubblicato anche dal Sunday Times del 5 novembre 2006, che riportava una discussione all’interno della "Royal College of Obstetricians and Gynecology" del Regno Unito che proponeva di prendere in considerazione "l'eutanasia attiva" per i bambini malati. E poneva un interessante dilemma: "Noi possiamo porre fine a gravi malformazioni fetali entro un determinato termine, ma non possiamo uccidere un neonato. Secondo la gente cosa avviene nel passaggio attraverso il parto, che rende legittimo uccidere il feto prima e reato farlo dopo?". D’altronde negli ultimi mesi si leggono articoli come quelli sulla Danimarca che vorrebbe diventare il primo paese down-free nel senso di non farne più nascere, e in Olanda la continuità culturale aborto-eutanasia è col protocollo di Groningen già realtà. E qui ci viene da ribadire che l’aborto ha preparato una cultura selettiva e che l’eutanasia è la conseguenza logica di questa selezione. Inoltre non riconoscere dignità all’uomo in quanto tale e invece determinare dei criteri di scelta su chi prima ne è titolare porta alla logica aberrante conseguenza che se si può uccidere un essere umano prima del parto, anche dopo si possono instaurare dei criteri perché la vera questione è che o si è essere umano sempre oppure purtroppo si troveranno ideologie che porteranno inevitabilmente a spostare questo limite.

La seconda notizia è apparsa il 29 gennaio 2012 il giornale Il Foglio dava notizia di quanto apparso sulla rivista Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, dove la bioeticista Anna Smajdor ha sostenuto che "gravidanza e parto, non sono altro che malattie protratte, qualcosa che assomiglia al morbillo ma che dura assai di più ed è più invalidante" e la necessità di superare la gravidanza e la riproduzione naturale cercando di realizzare la gravidanza artificiale, cioè come scrive “di dare priorità alla ricerca sull’ectogenesi come alternativa alla gravidanza”, secondo questa bioeticista bisognare realizzare una società che arrivi a realizzare l’utero artificiale. La gravidanza naturale appare come un impedimento, come una malattia, da cui liberarsi perchè in una società moderna non è più etica.

Ma non deve stupirci tutto questo perchè non è la prima volta che l'argomento viene proposto, il biologo e filosofo Henri Atlan, convinto che anche la clonazione umana diventerà un modo di procreazione come un altro, scriveva già qualche anno fa suggerendo la via dell’“Utérus artificiel”. Una questione che tra l'altro, viene suggerito, segnerà “la possibilità di una evoluzione verso una vera eguaglianza dei sessi”. Già insigni studiosi, in ogni parte del mondo, ci si stanno applicando. Nell’Università di Cornell, Stati Uniti, l’équipe di Helen Liu ha impiantato un embrione umano appositamente fabbricato in vitro in un abbozzo di utero artificiale, con apporto di sostanze nutrienti e ormonali. L’esperimento è durato sei giorni, ma non è che l’inizio. Anche in Italia voci autorevoli hanno introdotto negli scorsi anni una discussione di come superare la riproduzione naturale. Umberto Veronesi nel suo Libro "La libertà della vita" auspica un mondo in cui i giovani si riproducano per clonazione riproduttiva, che la clonazione è in realtà il metodo migliore di riproduzione della specie umana perché "il desiderio sessuale cesserebbe così di essere uno dei maggiori elementi di competizione" e nessuno "sarebbe più ossessionato dalla ricerca del partner".

Notizie che alla maggior parte di noi possono apparire come stravaganze intellettuali, impossibili e forse anche assurde ma che segnano un continuo crescendo nelle discussioni bioetiche spingendo il mondo intellettuale e scientifico a mettere in dubbio elementi che ancora oggi fanno parte del nostro patrimonio di umanesimo occidentale e cristiano e della nostra coscienza collettiva, una verità morale comunemente accettata che ci pone dei limiti etici all'uso della tecnica e mette al centro una visione della persona umana che non deve piegarsi ai nostri desideri e che deve essere rispettata.

Ma domani potrebbe non essere più cosi. Il caso dell'aborto ci insegna come alcune pratiche che in passato non sarebbero state tollerate dalla coscienza singola e collettiva oggi sono considerate normali e sono diventate a poco a poco socialmente rispettabili. Non riconoscere la vita fin dal concepimento ha fatto sì che culturalmente azioni che prima venivano considerate contro l’uomo oggi vengano addirittura teorizzate e giustificate.

Assistiamo nelle coscienze e nella società ad un progressivo attenuarsi della percezione dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni vita umana innocente. "Oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta: "Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre " (Is 5, 20). (Giovanni Paolo II EV n. 58)

Come scriveva Giovanni Paolo II nell'Evangelium Vitae n. 24 "Quando la coscienza, questo luminoso occhio dell'anima (cf. Mt 6, 22-23), chiama "bene il male e male il bene" (Is 5, 20), è ormai sulla strada della sua degenerazione più inquietante e della più tenebrosa cecità morale".

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