"Domani? Forse!" 7 - La liberazione del padre

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Quando si erano separati avevano sentito dentro ad ognuno la presenza di una nuova forza.
Le mie emozioni si stavano trasformando, stavano uscendo dalle paludi dell'inerzia e si slanciavano verso la vita… Vita nuova. Io mi sentivo più forte più deciso. Cominciavo a percepire che avevo dentro di me delle armi che mi sarebbero servite per combattere le avversità e le difficoltà della vita. Sentivo ancora, nel mio animo, delle urla, dei gemiti e degli stridori, ma forse furono proprio quei fantasmi che mi scossero e mi fecero reagire. Quel maledetto rumore, quell'odioso urlo del portone risuona e rimbomba continuamente nel mio cuore ed io so già che lo ricorderò per sempre. Quell'insopportabile portone divide e separa in modo disumano due mondi estranei e avversi, due mondi che solo per un breve momento si sono potuti incontrare in un vortice di tenere emozioni e di amore(pag.95)
Certo occorreva coraggio per affrontare il futuro ma la lontananza era stata battuta; ora bisognava solo aspettare con fiducia. Il tempo non li avrebbe traditi.
A metà settembre ci fu il secondo incontro "sempre molto emozionante, leggiamo, ma più facile". Anche quella volta fu offerto il pranzo alla famiglia riunita, poi ci fu il viaggio di ritorno a Trento: lungo, faticoso, ma "ora abbiamo una speranza -scrive l'autore - che come pietra preziosa brilla nel nostro cuore, ci dà forza e vigore e ci fa credere che tutto possa tornare come prima e forse meglio di prima".
Quella seconda visita in carcere aveva avuto un’importanza particolare e un sogno intenso e simbolico glielo aveva rivelato molti anni dopo: a Gaeta aveva ritrovato suo padre, ma aveva anche ritrovato e provato un sentimento più profondo: l’appartenenza filiale a Qualcuno al quale il rapporto col padre lo aveva rimandato:
Ho sognato che ero in una costruzione molto grande, forse una chiesa, forse una grande cattedrale. Sì forse era un luogo sacro o perlomeno io avevo la sensazione che fosse tale. All'interno era molto spoglia: non c'erano né quadri, né le lampade, ma nemmeno un crocifisso o statue. Inoltre c'era pochissima gente seduta nei banchi e non vedevi i loro volti. In questa "grande cattedrale" dominava il silenzio il senso di enormi spazi vuoti. La luce filtrava dalle alte finestre: alte e irraggiungibili. Io ero nella "Chiesa"... nelle cattedrali si va a pregare, a cercare il rapporto con Dio, con l'assoluto, con l'essenza della vita, con l'intimità di se stessi. Forse a Gaeta ho vissuto qualcosa del genere, ma lo sto capendo adesso, con il suo aiuto. Avevo perso mio padre, non sapevo più chi fosse, come fosse, non sapevo nemmeno esattamente dove fosse. Lì l'ho ritrovato. È stato come ritrovare la fede, come rivedere Dio, con tutti i limiti del paragone, ma credo che nell'inconscio possa essere stato proprio così. Quella penombra che avevo visto a Gaeta… I fasci di luce che penetravano dall'alto attraverso le sbarre... Nel sogno, all'interno della cattedrale c'era penombra e i raggi di luce provenivano dagli alti finestroni. Quindi: cattedrale, penombra, luce, soggezione, divinità, tutto mi pare diventi chiaro e logico. Tutto mi pare strettamente collegato, connesso: nel sogno rappresento me stesso, in modo simbolico, il forte aragonese sotto forma di cattedrale perché è lì che incontro mio padre, anzi mio Padre con la lettera maiuscola. Lui è lì, in un luogo quasi sacro. E' lì che noi incontriamo il "Padre Nostro". (Pagg. 114,116,117.)
L’ultimo anno
Per Mario Carrozzini l'ultimo anno di carcere fu particolarmente difficile e le parole scritte nel diario lo rivelano.
Sentiva che il momento della liberazione doveva essere vicino: Pansera lo incoraggiava a sperare e stava facendo di tutto per la sua assoluzione e liberazione.
Il 21 luglio 1954 finalmente giunge la lettera che da tempo sperava di ricevere. Questo il testo:
“Signor Mario Carrozzini reclusorio militare di Gaeta, il Segretario particolare del ministro.
In relazione all'istanza da Lei inviata al Signor Ministro le comunico che la sua questione è oggetto di particolare considerazione e che si spera in una soluzione favorevole. Cordialmente la saluto. Walter Paccagnini". (pag. 107)
Ma passano i mesi e solo il 9 ottobre arriva il telegramma col condono firmato dal Presidente della Repubblica ma ancora una volta la liberazione, per ritardi burocratici non è prevista.
Il 24 ottobre Mario scrive: “Questa domenica credevo di essere lontano da questa lingua di terra maledetta. Credevo di essere con te Livia mia adorata”. Poi per un mese più nulla. In preda alla disperazione e alla completa incertezza sul domani, non voleva rattristare la moglie e i figli.
Il 23 novembre due sole parole vengono inviate alla moglie: "Domani? Forse!"
E il giorno successivo finalmente, annuncia a Livia che il 24 novembre di sera tardi sarebbe arrivato a casa.
Papà arriverà nel buio nell'oscurità di una notte fredda e umida, avvolto da un fitto alone di buio morale e psicologico. Giunse senza far rumore quasi in punta di piedi, tra le lacrime e nodi in gola. Gli occhi tristi, scavati, profondi, le spalle ricurve per il peso di tutto ciò che aveva dovuto affrontare e che non è facile immaginare per nessuno. Disse solo poche parole. Non era più il bel papà tenero, vitale, positivo e sicuro di sé che avevo visto solo due mesi prima a Gaeta. Certamente laggiù voleva dimostrarci o farci credere qualcosa che non corrispondeva al vero e, per tenerci tranquilli, fingeva di star bene. Ora, giunto a casa, si era tolto la maschera, appariva esattamente come avevamo intuito che fosse a Gaeta. Flagellato. Però ora papà era lì, era a casa, era con noi senza più sbarre, cancelli, portoni, sentinelle, pistole e fucili. Le nostre più belle speranze si stavano realizzando: finalmente, sebbene ancora con fatica. Entrò in casa frastornato perché arrivava da un mondo per lui alieno e stava finalmente atterrando, rientrando sulla terra, nella realtà famigliare cittadina che aveva lasciato cinque anni prima… Occorrerà molto tempo perché possa riprendersi anche se, credo, non si riprese mai del tutto. Il condono però fu salutare e benefico. (pagg.109,110)
Due giorni prima della liberazione gli avevano detto che si era trattato di un errore giudiziario. Nessuno gli chiese mai scusa di quanto avvenuto.
Rientrato a casa, il padre di Renzo presto riprese a lavorare occupandosi di porfido e morì a 56 anni, anche per le conseguenze dei periodi di carcerazione subita, che avevano minato il suo fisico.