Testori: un corpo a corpo con Cristo
Il Per-Corso e i percorsi.Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
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Conversazione con la morte: è il monologo che il nostro più grande drammaturgo del secondo ‘900, Giovanni Testori, lesse lui stesso, la sera del 7 novembre 1978, al teatro Pierlombardo di Milano. Poi le repliche, spesso nelle chiese delle principali città italiane. Tanta intellighentsia rimase sconcertata: lo scrittore maledetto e blasfemo, non a caso spesso accostato dalla critica a Pasolini, cantava la sofferta letizia della fede cattolica.
Di lui si erano occupate le cronache quando, nel 1961, una sua opera L’ Arialda messa in scena da Luchino Visconti, era stata censurata per oscenità. Ma già la bestemmia degli anni ‘60 e ‘70 nascondeva in realtà l’impossibile tentativo di esorcizzare la presenza di Dio. Confessa Testori proprio nel ‘78: “Credo di poter dire che non riuscissi mai a fare a meno di Dio, a fare a meno di Cristo. Anzi, tanto più cercavo di allontanarlo, tanto più me lo sentivo ricadere addosso”. Poi, nel luglio ‘77, la morte della madre, splendidamente accolta da lei nella fede. Per il figlio è il Kairòs, l’attimo di Grazia: “tutto quello che prima era una specie di irruenza, di ribellione, si è sciolto in una accettazione, in una affermazione, in una testimonianza convinta e personale del significato, del destino religioso dell’uomo”. Conversazione con la morte è la forma poetico-liturgica di tale testimonianza.
L’epoca della ribellione era culminata, tra il ‘72 e il ‘77, in una fortunata trilogia teatrale: Ambleto, Macbetto, Edipus, evidenti rivisitazioni di testi classici. Lo stile, che ha l’uguale solo in Gadda, è connotato da elevatissimo scarto rispetto alla norma grammaticale: l’autore plasma un suo linguaggio fondendovi dialetti padani e lingue straniere o antiche. Tale scrittura stravolta che, come insegna il Contini, è il test di un rapporto critico tra l’io e il mondo, esprime l’insopportabilità di una vita senza senso. Costante tematica è la maledizione della propria nascita, dunque della madre e del padre, da parte di un figlio che si vede “intrappolato” nella vita. Egli si sente diviso, intimamente scisso, come si evince dall’esplosione del nome di Ambleto: “El mio papà m’ha dato l’Am e s’è desmentegato de giuntarci el bleto”. Solo un organo è tutto intero: “el cuore... che se litega, se morde, se sanguena e marzisce”: il cuore, biblicamente il punto più profondo dell’uomo, la domanda di Assoluto che “morde” entro la precarietà della propria esistenza materiale. Il “bleto” è il “signifigato” della vita, “el perché vero, el perché unico et eterno”: quella viva risposta, adeguata allo spessore dell’umana domanda, che a Testori non è ancora dato sperimentare: “Te sei l’Am et el bleto, chissà indov’è? Cammina in chissà che àltera parte del mondo! E per giuntarli cos’arò mai da fare?”. La vita umana è per sua natura divisa, “dia-bolica”, ma tutta protesa verso la riunificazione: il “sim-bolico”. Come l’uomo greco, partendo per la guerra o per paesi lontani, spezzava un coccio (dia-ballein, in greco) e ne lasciava metà a casa (il testoriano Am) mentre metà lo portava con sé, talché al ritorno, dopo tanti anni, facendoli combaciare (sin-ballein: “giuntarli”) potesse accadere il riconoscimento con la moglie e i figli, così è per ogni uomo: la lacerazione sanguinante del proprio limite (nascita, dolore, morte) porta le stigmate di un’inesorabile attesa del Significato ultimo che cammina altrove.
Prolungamento de L’Ambleto è un libro di poesie, Nel Tuo sangue: “una specie di lotta, un corpo a corpo con Cristo” lo definisce l’autore. Stile espressionistico e lessico blasfemo veicolano la scandalosa intollerabilità del Dio incarnato: Testori non sopporta che l’Assoluto “si sporchi” con l’uomo assumendone la natura. E giunge a proclamare la morte di Dio: “la disperata certezza / della Tua nullità”. Ma di segno opposto è l’ultima parola del libro: “Quando potrà liberarmi / di Te?”. Il corpo a corpo continua. Ed è lotta simile a quella di Giacobbe con l’Angelo: avviene nella notte, ma è foriera di un’alba nuova.
Certo, tale luce di fede pare allontanarsi poi col Macbetto e l’Edipus: sono gli anni della china nichilista, dello stordimento nei gorghi della trasgressione, dei comportamenti anarcoidi. E’ l’approdo, in tutti i sensi, estremo della testoriana discesa agl’inferi.
Pochi mesi dopo, come s’è detto, inizia improvvisa la risalita. Fin dai primi suoi interventi quale moralista del “Corriere della Sera”, Testori svela di avere incontrato nel Cristianesimo un punto di vista nuovo su tutta la realtà, ed entra così in rotta di collisione con le ideologie allora dominanti.
Ciò è ancor più chiaro in Conversazione con la morte. Le ultime parole della madre proclamano la speranza cristiana: “la morte è ancor più vita della vita”; la donna che fu porta della nascita è ora porta della rinascita, Pasqua.
Gli spettatori, ormai sempre più attori, sono invitati a lasciarsi cambiare da tale Evento, a pronunciare assieme all’autore le parole vere, a riappropriarsene: nella “madre” è ritrovato “Dio”, il Padre. La parola del negativo è invece “cosa”: “forse, adesso, sei cosa, / cosa ed oggetto come ti decide / l’illuminata demenza della Ragione”. Tre secoli di illuminata cultura, l’Illuminismo appunto, hanno elevato (o ridotto?) la “ragione” a “Ragione”, a idolo, esaltandone l’aspetto “strumentale” e censurandone la peculiare connotazione “noetica”, che da sempre e primariamente ne fa un varco spalancato sul Mistero, sul Trascendente, e solo secondariamente strumento di trasformazione meccanica dell’immanente realtà fisica. Questa prima censura ne implica una seconda: quella sulla “morte”, obnubilata attraverso l’edonistica distrazione o l’attivismo ideologico. Unica alternativa pare essere il disperato nichilismo, come s’è visto.
Testori, che fino al ’77 ha verificato sulla sua carne questo alibi, ora ricomincia a vivere e a scrivere proprio abolendo questa cortina di silenzio sulla morte: ci invita a dire “la parola della sconfitta apparente / che è insieme la parola della vittoria certa / e della pace, e cioè morte”. E’ l’approdo, diremmo, tutto francescano: la Conversazione con quella che in natura è l’ultima “sorella”. L’altra metà, il Significato ultimo (“bleto”) si è epifanizzato, a ridare interezza alla vita.
Ha scritto Luca Doninelli: “Testori ci ha insegnato cosa sia l’assassinio della parola, il suo ingabbiamento in modo che non dica più nulla e non possa dire mai più nulla. Lui più di chiunque altro ci ricorda quale sia il compito della parola, la sua vocazione: dar voce e coscienza alla muta, e sempre più luridamente taciuta, domanda che la nostra carne e le nostre viscere racchiudono: che la vita sia giudicata: che il Signore venga, che il Verbo si faccia carne”.
Nei giorni terribili del rapimento-Moro, Testori aveva scritto per il “Corriere della Sera” alcuni articoli sorprendenti, in cui veniva assunta evidentemente la fede cristiana come il punto di vista attraverso cui giudicare la realtà. Alcuni giovani di Comunione e Liberazione (Doninelli, Amicone, Frangi) erano andati a trovarlo: ne era nata un’amicizia che non si sarebbe rotta più. Nelle Conversazioni con Testori (Guanda, 1993), questi confessa d’avere così conosciuto la Chiesa di Dio: “Innanzitutto attraverso la mia famiglia; e poi - questo non posso davvero fare a meno di dirlo - attraverso i ragazzi di Comunione e Liberazione”. Gli si fa chiaro, grazie a quella compagnia, che Cristo non è “una mitologia o una metafora”, ma un Fatto storico che oggi permane, vivo e presente, nella sua Chiesa: “Gesù Cristo ha la consistenza di un uomo reale, di un preciso avvenimento nell’arco della storia umana”. E l’arte, volendone essere testimonianza umile ed energica, torna a farsi sacra rappresentazione e varcare la soglia della Chiesa: dopo Conversazione con la morte, nel 1981 - nei giorni roventi del referendum sull’aborto - sono ancora le chiese ad ospitare Factum est, un oratorio che ci ha fatto ascoltare la voce “straniata” di un feto condannato a morte. E’ invece la stazione centrale di Milano che ospita In Exitu (1988), monologo terribile che porta in scena la via crucis d’un drogato.
Negli ultimi giorni, dopo aver lottato a lungo con un male incurabile, Testori annota: “Il povero padre Turoldo, anche lui malato di tumore, diceva che la sofferenza non può venire da Dio, perché Dio è buono e non può volere il male. Per me è l’opposto; io non posso pensare a me stesso, non posso concepire la mia stessa esistenza senza questa malattia, con le cure, la chemioterapia, la cobalto, i controlli periodici e tutto il resto: perché la Grazia di Dio è dentro queste cose, oppure non esiste”. E ancora: “Più sono annientato più vivo per Cristo. Anche tu che leggi è Lui che aspetti, è per lui che vivi, anche se non lo sai”. Muore nel marzo 1993.
Mons. Luigi Giussani, nell’omelia per i funerali dell’amico scrittore, il 18 marzo, ha rievocato il primo sofferto albeggiare dell’esperienza del perdono nell’infanzia di Testori: “Quando tu eri piccolo - l’hai raccontato tu - e il Bambino Gesù ti aveva portato molti doni, tu li mostrasti con sussiego al figlio del portinaio e dicevi: “Io sono il figlio del padrone!”. E quello se ne andò via piangendo. Vistolo piangere, tuo padre, per cui gli operai erano parte della sua carne e del suo corpo come la sua famiglia, domandò il perché. E quel bimbo disse il perché; così che il giorno dopo tu, messo in ginocchio da tuo padre di fronte a tutti gli operai, dovesti dire: “Perdono, perdono!”. Questa è la parola! La più grande parola che l’uomo possa ripetere è rimasta ficcata dentro il tuo cuore e il tuo corpo, dentro la tua personalità”.