Associazione Cultura Cattolica

Testori: un corpo a corpo con Cristo

Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it
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Conversazione con la morte: è il monologo che il nostro più gran­de drammaturgo del secondo ‘900, Giovanni Te­stori, lesse lui stesso, la sera del 7 novembre 1978, al tea­tro Pierlombardo di Milano. Poi le re­pliche, spesso nelle chiese delle principali città italiane. Tanta intellighentsia rimase scon­certata: lo scrittore maledetto e blasfe­mo, non a caso spesso accostato dalla critica a Pasolini, cantava la sofferta letizia della fede cattolica.
Di lui si erano occupa­te le cronache quando, nel 1961, una sua opera L’ Arialda messa in scena da Luchino Visconti, era stata censurata per oscenità. Ma già la bestemmia degli anni ‘60 e ‘70 nascondeva in realtà l’impossibile tentativo di esorcizzare la presenza di Dio. Confessa Testori proprio nel ‘78: “Credo di poter dire che non riuscissi mai a fare a meno di Dio, a fare a meno di Cristo. Anzi, tanto più cercavo di al­lontanarlo, tanto più me lo sentivo rica­dere addosso”. Poi, nel luglio ‘77, la morte della madre, splendidamente ac­colta da lei nella fede. Per il figlio è il Kairòs, l’attimo di Grazia: “tutto quello che prima era una specie di irruenza, di ribellione, si è sciolto in una accettazio­ne, in una affermazione, in una testimo­nianza convinta e personale del signifi­cato, del destino religioso dell’uomo”. Conversazione con la morte è la forma poetico-liturgica di tale testimonianza.
L’epoca della ribellione era culminata, tra il ‘72 e il ‘77, in una fortunata trilogia teatrale: Ambleto, Macbetto, Edipus, evidenti rivisitazioni di testi classici. Lo stile, che ha l’uguale solo in Gadda, è connotato da elevatissimo scarto ri­spetto alla norma grammaticale: l’auto­re plasma un suo linguaggio fondendo­vi dialetti padani e lingue straniere o antiche. Tale scrittura stravolta che, co­me insegna il Contini, è il test di un rap­porto critico tra l’io e il mondo, esprime l’insopportabilità di una vita senza sen­so. Costante tematica è la maledizione della propria nascita, dunque della ma­dre e del padre, da parte di un figlio che si vede “intrappolato” nella vita. Egli si sente diviso, intimamente scisso, come si evince dall’esplosione del nome di Ambleto: “El mio papà m’ha dato l’Am e s’è desmentegato de giuntarci el bleto”. Solo un organo è tutto intero: “el cuore... che se litega, se morde, se sanguena e marzisce”: il cuore, biblicamen­te il punto più profondo dell’uomo, la domanda di Assoluto che “morde” en­tro la precarietà della propria esistenza materiale. Il “bleto” è il “signifigato” della vita, “el perché vero, el perché unico et eterno”: quella viva risposta, adeguata allo spessore dell’umana do­manda, che a Testori non è ancora dato sperimentare: “Te sei l’Am et el bleto, chissà indov’è? Cammina in chissà che àltera parte del mondo! E per giuntarli cos’arò mai da fare?”. La vita umana è per sua natura divisa, “dia-bolica”, ma tutta protesa verso la riunificazione: il “sim-bolico”. Come l’uomo greco, par­tendo per la guerra o per paesi lontani, spezzava un coccio (dia-ballein, in gre­co) e ne lasciava metà a casa (il testoria­no Am) mentre metà lo portava con sé, talché al ritorno, dopo tanti anni, fa­cendoli combaciare (sin-ballein: “giun­tarli”) potesse accadere il riconosci­mento con la moglie e i figli, così è per ogni uomo: la lacerazione sanguinante del proprio limite (nascita, dolore, mor­te) porta le stigmate di un’inesorabile attesa del Significato ultimo che cam­mina altrove.
Prolungamento de L’Ambleto è un li­bro di poesie, Nel Tuo sangue: “una specie di lotta, un corpo a corpo con Cristo” lo definisce l’autore. Stile espressionistico e lessico blasfemo vei­colano la scandalosa intollerabilità del Dio incarnato: Testori non sopporta che l’Assoluto “si sporchi” con l’uomo assumendone la natura. E giunge a pro­clamare la morte di Dio: “la disperata certezza / della Tua nullità”. Ma di se­gno opposto è l’ultima parola del libro: “Quando potrà liberarmi / di Te?”. Il corpo a corpo continua. Ed è lotta simi­le a quella di Giacobbe con l’Angelo: avviene nella notte, ma è foriera di un’alba nuova.
Certo, tale luce di fede pare allonta­narsi poi col Macbetto e l’Edipus: sono gli anni della china nichilista, dello stordimento nei gorghi della trasgressione, dei comportamenti anarcoidi. E’ l’approdo, in tutti i sensi, estremo della testoriana discesa agl’inferi.
Pochi mesi dopo, come s’è detto, ini­zia improvvisa la risalita. Fin dai primi suoi interventi quale moralista del “Corriere della Sera”, Testori svela di avere incontrato nel Cristianesimo un punto di vista nuovo su tutta la realtà, ed entra così in rotta di collisione con le ideologie allora dominanti.
Ciò è ancor più chiaro in Conversazione con la mor­te. Le ultime parole della madre procla­mano la speranza cristiana: “la morte è ancor più vita della vita”; la donna che fu porta della nascita è ora porta della rinascita, Pasqua.
Gli spettatori, ormai sempre più at­tori, sono invitati a lasciarsi cambiare da tale Evento, a pronunciare assieme all’autore le parole vere, a riappropriar­sene: nella “madre” è ritrovato “Dio”, il Padre. La parola del negativo è invece “cosa”: “forse, adesso, sei cosa, / cosa ed oggetto come ti decide / l’illuminata demenza della Ragione”. Tre secoli di illuminata cultura, l’Illuminismo ap­punto, hanno elevato (o ridotto?) la “ragione” a “Ragione”, a idolo, esal­tandone l’aspetto “strumentale” e cen­surandone la peculiare connotazione “noetica”, che da sempre e primariamente ne fa un varco spalancato sul Mistero, sul Trascendente, e solo se­condariamente strumento di trasforma­zione meccanica dell’immanente realtà fisica. Questa prima censura ne implica una seconda: quella sulla “morte”, ob­nubilata attraverso l’edonistica distra­zione o l’attivismo ideologico. Unica alternativa pare essere il disperato ni­chilismo, come s’è visto.
Testori, che fino al ’77 ha verificato sulla sua carne questo alibi, ora rico­mincia a vivere e a scrivere proprio abolendo questa cortina di silenzio sul­la morte: ci invita a dire “la parola della sconfitta apparente / che è insieme la parola della vittoria certa / e della pace, e cioè morte”. E’ l’approdo, diremmo, tutto francescano: la Conversazione con quella che in natura è l’ultima “sorel­la”. L’altra metà, il Significato ultimo (“bleto”) si è epifanizzato, a ridare inte­rezza alla vita.
Ha scritto Luca Doni­nelli: “Testori ci ha insegnato cosa sia l’assassinio della parola, il suo ingab­biamento in modo che non dica più nulla e non possa dire mai più nulla. Lui più di chiunque altro ci ricorda quale sia il compito della parola, la sua vocazione: dar voce e coscienza alla muta, e sempre più luridamente taciuta, domanda che la nostra carne e le nostre viscere racchiudono: che la vita sia giu­dicata: che il Signore venga, che il Ver­bo si faccia carne”.
Nei giorni terribili del rapimento-Moro, Testori aveva scritto per il “Corriere della Sera” alcuni articoli sorprendenti, in cui veniva assunta evidentemente la fede cristiana come il pun­to di vista attraverso cui giudicare la realtà. Alcuni giovani di Co­munione e Liberazione (Doninelli, Amicone, Frangi) erano andati a trovarlo: ne era nata un’amicizia che non si sarebbe rotta più. Nelle Conversazioni con Testori (Guanda, 1993), questi confessa d’avere così conosciuto la Chiesa di Dio: “Innanzitutto attraverso la mia famiglia; e poi - questo non posso davvero fare a meno di dirlo - attraver­so i ragazzi di Comunione e Liberazio­ne”. Gli si fa chiaro, grazie a quella compagnia, che Cristo non è “una mito­logia o una metafora”, ma un Fatto storico che oggi permane, vivo e presen­te, nella sua Chiesa: “Gesù Cristo ha la consistenza di un uomo reale, di un preciso avvenimento nell’arco della sto­ria umana”. E l’arte, volendone essere testimonianza umile ed energica, torna a farsi sacra rappresentazione e varcare la soglia della Chiesa: dopo Conversazione con la morte, nel 1981 - nei giorni roventi del referendum sull’a­borto - sono ancora le chiese ad ospitare Factum est, un oratorio che ci ha fatto ascoltare la voce “straniata” di un feto condannato a morte. E’ invece la stazio­ne centrale di Milano che ospita In Exitu (1988), monologo terribile che porta in scena la via crucis d’un drogato.
Negli ultimi giorni, dopo aver lottato a lungo con un male incurabile, Testori annota: “Il povero padre Turoldo, anche lui malato di tumore, diceva che la sofferenza non può venire da Dio, per­ché Dio è buono e non può volere il male. Per me è l’opposto; io non posso pensare a me stesso, non posso concepi­re la mia stessa esistenza senza questa malattia, con le cure, la chemioterapia, la cobalto, i controlli periodici e tutto il resto: perché la Grazia di Dio è dentro queste cose, oppure non esiste”. E anco­ra: “Più sono annientato più vivo per Cristo. Anche tu che leggi è Lui che aspetti, è per lui che vivi, anche se non lo sai”. Muore nel marzo 1993.
Mons. Luigi Giussani, nell’omelia per i funerali dell’amico scrittore, il 18 marzo, ha rievocato il primo sofferto albeggiare dell’esperienza del perdono nell’infanzia di Testori: “Quando tu eri piccolo - l’hai raccon­tato tu - e il Bambino Gesù ti aveva portato molti doni, tu li mostrasti con sussiego al figlio del portinaio e dicevi: “Io sono il figlio del padrone!”. E quello se ne andò via piangendo. Vistolo pian­gere, tuo padre, per cui gli operai erano parte della sua carne e del suo corpo come la sua famiglia, domandò il per­ché. E quel bimbo disse il perché; così che il giorno dopo tu, messo in ginoc­chio da tuo padre di fronte a tutti gli operai, dovesti dire: “Perdono, perdo­no!”. Questa è la parola! La più grande parola che l’uomo possa ripetere è rima­sta ficcata dentro il tuo cuore e il tuo corpo, dentro la tua personalità”.