Perché? “Una storia vera” – #violenza contro le #donne
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(Anna Agostiniani, Perché? “Una storia vera”)

Lei si chiama Anna Agostiniani. Il cognome è inventato: non racconta radici, non dice chi sono suo padre e sua madre, da che storia viene. Il cognome gliel’hanno dato poco dopo la nascita, all’ospedale di Senigallia.
Lei è qui a Portogruaro, nell’ambito delle iniziative per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, invitata a presentare il suo libro “Perché? Una storia vera”. Perché questo libro, perché questa vita, perché tutto quel male, perché tutto questo bene.
E’ seduta al tavolo dei relatori e ascolta, attenta. Poi tocca a lei e parla, lentamente, tra un suono d’arpa e la lettura, da parte di volontarie, di alcuni brani tratti dal libro.
In sala non vola una mosca.
Parla e si commuove. Parla e spesso deve interrompersi. Non so se ce la faccio, dice spesso. Parla e non sono i discorsi astratti che senti nei salotti buoni delle trasmissioni in tivù: qui è la vita che irrompe come un fiume in piena. E i detriti (suoi) si posano nell’animo (tuo). (Magari, mi dico, potessi alleviare un po’ questo suo dolore, queste sue ferite che bruciano ancora e ancora…).
Lei è Anna. Ha quasi settant’anni e ancora non ha smesso di cercare la sua mamma, che l’ha abbandonata alla nascita. E’ finita in brefotrofio e adottata (all’epoca, tocca dirlo, alle volte si adottava solo perché si riceveva un sussidio) e abusata da quando aveva otto anni fino a quasi quindici, fino a quando ha trovato il coraggio di confidare qualcosa a una insegnante delle medie.
Ma dov’erano le istituzioni, i servizi sociali, i vicini di casa, la gente del paese, gli insegnanti, i medici? Quando andava a scuola con i lividi o in ospedale a farsi medicare perché gli uomini che “quella donna” chiamava dentro casa la notte perché abusassero della bambina, la picchiavano la stupravano la ferivano?
C’è un processo. Ma nessuno va in carcere e Anna non viene nemmeno allontanata: deve stare in quella casa fino a 21 anni, fino alla maggiore età. «I segni di quello che ho subito durante la mia infanzia e adolescenza li porto ancora con me», scrive. «Quelli fisici sono visibili su tutto il mio corpo, ma quelli più devastanti sono nella mia anima. Sono quelle le ferite che mi fanno ancora male. Il tempo rimargina una ferita, non la guarisce. La cicatrice resta. E le mie sono lì, a ricordarmi ogni istante un trascorso tremendo e incancellabile».
Sono ferite alleviate solo dalle lettere che Anna scrive in segreto alla sua «mamma invisibile» che non sa se è viva o se è morta ma che continua, instancabilmente, a cercare, alla quale si confida quando sta tanto male e pensa di non potercela fare più.
Tante volte avrebbe voluto farla finita, racconta: gettarsi nel fiume e lavare per sempre lo schifo che ha dentro, la sporcizia che le ricompare negli incubi che ancora adesso l’affliggono, tanto che si sente nella carne il dolore della prima volta, delle altre, innumerevoli volte. E gli orchi sono padri di famiglia; l’orco, una notte, è un prete.
Scrive e scrive a sua madre. Arrabbiata, spesso (perché, mamma, come hai potuto abbandonare tua figlia?). Altre volte cerca protezione (se tu fossi qui, mamma…). Le scrive quando si innamora, finalmente, e sarà l’amore più grande di tutta la vita.
Lui si chiama Antonio, e ha 36 anni più di lei. Per cinque anni nemmeno si sfiorano: lei non è capace, proprio non ce la fa a lasciarsi andare. Lui la rispetta, pazienta, ha capito il dolore che la lacera dentro. «Avevo conosciuto un uomo che non mi chiedeva cose schifose, ma che si interessava a me semplicemente per quella che ero», scrive. Si sposano. Lui le insegna ad aprirsi agli altri, a fidarsi, a voler bene. Non sono tutti mostri, gli uomini. Non sono tutte streghe, le madri.
Anna e Antonio non hanno avuto figli per scelta: non volevano lasciare un figlio precocemente orfano del proprio padre. Non volevano fargli rivivere il vuoto. Eppure Anna, ora, ha tanti figli, tantissimi. Ha conosciuto, nel tempo, un missionario del Paraguay. E’ entrata in contatto con quella realtà, ha visto con i suoi occhi come vivono laggiù, ha incontrato bambini abusati. Soffrono come ha sofferto lei e non sopporta di voltare la faccia come altri hanno fatto quand’era bambina, fingendo di non sapere, di non vedere. Da allora sono iniziati i viaggi in Paraguay, sono iniziate le adozioni a distanza, le campagne di raccolta fondi, l’amicizia con padre Attilio, con suor Fabiola. «Che meraviglioso mistero, Signore: cercavo la mamma e tu mi hai fatto mamma, cercavo un senso alla vita e Tu sei stato il mio senso pieno».
La vita non le ha risparmiato nulla: degenze in ospedale, chemioterapia, trapianto del midollo. E di nuovo il dramma di chi non sa chi è sua madre, non sa se ha malattie genetiche, non può ricorrere a un donatore di famiglia, non ha nessuno del proprio sangue che gli stia accanto e gli tenga la mano.
Quando incontra la psicologa “giusta” (con gli altri che negli anni avevano cercato di aiutarla non era mai stata capace di aprirsi davvero, di raccontare l’atrocità di quelle notti in quella casa), la psicologa le dice che se non riesce a parlare può provare a scrivere. Il libro è l’esito di quella sfida, e dei tanti incontri belli che hanno aiutato Anna a rinascere e a ritrovare la fede. «Ti lodo, Signore, e benedico, perché hai guardato la povertà della tua serva: ero stata adottata dagli uomini che mi avevano reso schiava e sono stata adottata da Te che mi hai resa libera. Ero stata sepolta nella terra dello scarto e del rifiuto e Tu mi hai fatto rinascere dall’alto. Ero morta e ora sono viva. Il vento dell’esistenza aveva ghiacciato il mio cuore, Tu lo hai riscaldato».
La testimonianza è cruda e densissima. Racconta quando, poco più che bambina, l’hanno costretta ad abortire. Racconta le battaglie insieme ai “figli di nessuno” perché, una volta cresciuti, possano scoprire chi li ha messi al mondo. Racconta di quando è andata in tivù a fare appelli per trovare la sua mamma (se l’ha trovata o no non lo dico, leggete il libro).
Anna parla alle mamme in dubbio se tenere oppure no il figlio che hanno in grembo, parla a noi, perché impariamo a cogliere i segni della violenza sugli ultimi e la sentiamo nostra.
La guardi e vedi in lei, oggi forte e tenace, la bambina che è stata, che è ancora.
P.S. Mi sono avvicinata ad Anna per salutarla, per farmi autografare il libro, e le ho chiesto cosa pensa della GPA, della gravidanza per altri. Mi ha parlato da donna e da figlia.
Non serve trascriva la sua risposta, l’avrete certamente intuita.