Industria automobilistica europea: la transizione ecologica è un disastro pianificato?

E se provassimo a ripassare la Dottrina sociale cristiana? Forse ci sarebbe l'esperienza di una maggiore giustizia!
Autore:
Luca Costa
Fonte:
CulturaCattolica.it ©
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Il settore automobilistico europeo sta vivendo una crisi senza precedenti, un disastro economico che sembra più orchestrato che accidentale. Mentre migliaia di lavoratori vengono licenziati e la produzione industriale viene delocalizzata, l’Unione Europea prosegue con un’agenda “green” che sacrifica l’industria continentale. Questo scenario, lungi dall’essere un errore di valutazione, rivela un mix esplosivo di incompetenza e corruzione.

I numeri parlano chiaro: una crisi di occupazione senza precedenti

Volkswagen, Ford, Stellantis, Renault e molti altri grandi nomi dell’industria automobilistica stanno tagliando migliaia di posti di lavoro. Volkswagen ha annunciato un ridimensionamento che coinvolgerà 10.000 dipendenti, con tagli già avviati nello stabilimento di Zwickau, hub per la produzione di veicoli elettrici. Ford ha comunicato l’eliminazione di 3.800 posti di lavoro in Europa, mentre Stellantis prevede uscite annuali di 2.000 lavoratori in Francia e in Italia. Renault, infine, ha avviato un piano di ristrutturazione globale con 15.000 tagli di cui una porzione significativa in Europa. Questi licenziamenti non sono semplicemente il prodotto di inefficienze aziendali, ma il risultato diretto di deliranti politiche UE.

Energia cara e aziende in fuga: il costo della follia green

Il fattore cruciale non è più il costo della manodopera, no, oggi la question è il prezzo dell’energia. Oggi, le fabbriche europee pagano fino a 102 €/MWh, il doppio rispetto ai 50 €/MWh negli Stati Uniti e tre volte rispetto ai 35 €/MWh in Cina. Questo squilibrio, reso possibile dall’accelerata transizione energetica e dalla rinuncia a fonti più economiche come il nucleare e il gas russo, rende impossibile competere con le industrie americane e asiatiche. Risultato? Le aziende abbandonano l’Europa, lasciando interi settori economici alla mercé di potenze straniere.

Il doppio standard dell’Unione Europea

I dirigenti europei sanno benissimo che ciò che non viene fatto in Europa sarà prodotto altrove, in Cina o negli Stati Uniti, con livelli di emissioni addirittura superiori. Il risultato netto sul clima globale è negativo, poiché il pianeta è uno solo. Ma allora, perché l’Europa si ostina a distruggere il proprio tessuto industriale? La risposta risiede nell’enorme potere delle lobby che orbitano intorno agli incentivi pubblici alle rinnovabili. Promotori di pale eoliche e impianti fotovoltaici, speculatori nel mercato energetico: tutti questi attori sono ormai penetrati così profondamente nel sistema decisionale europeo da orientare le politiche in loro favore.

Incompetenza o corruzione?

Dietro questa apparente follia si nasconde un mix di incompetenza politica e corruzione, sottomissione agli interessi delle due superpotenze economiche mondiali: USA e Cina.
L’Unione Europea sta sacrificando intere filiere produttive per favorire speculatori e promotori di incentivi miliardari, mentre gli Stati Uniti approfittano della situazione con politiche protezionistiche come l’Inflation Reduction Act, che attira investimenti automobilistici e tecnologici verso il suolo americano. Nel frattempo, la Cina rafforza il suo dominio sulla filiera dell’eolico, del solare e delle batterie, cuore dell’industria automobilistica Electric.

Un’Europa al servizio delle lobby

L’industria automobilistica europea non sta morendo da sola, viene assassinata. La transizione verso l’elettrico, lungi dall’essere un trionfo ecologico, si sta trasformando in un trasferimento di ricchezza e produzione dall’Europa all’Asia e agli Stati Uniti. Dietro ogni licenziamento, dietro ogni stabilimento europeo che chiude, ci sono scelte politiche precise, volte a favorire interessi privati a scapito del bene collettivo. Se l’Unione Europea non cambierà rotta, non solo perderemo milioni di posti di lavoro, ma ci trasformeremo in semplici consumatori dipendenti dai prodotti delle economie che oggi stiamo agevolando.
Da produttori a semplici consumatori. Il destino più umiliante che Ursula Von der Leyen e i suoi scagnozzi potevano concepire per la nostra Europa.

Il ruolo dei cattolici in politica: il pensiero post-liberale
I cattolici europei impegnati in politica dovrebbero guardare con attenzione e impegno all’esempio dei loro omologhi americani, che stanno portando avanti un pensiero post-liberale con determinazione e lucidità. I pensatori cattolici negli Stati Uniti, come Patrick Deneen, Sohrab Ahmari, e JD Vance, hanno messo in evidenza la necessità di una visione politica che si opponga al liberalismo economico dominante, dando priorità al bene comune, al lavoro dignitoso e alla promozione di un’economia che metta al centro le persone, non il profitto.
In un contesto come quello europeo, dove la disuguaglianza economica è in crescita e le politiche neoliberiste sembrano sempre più prevalenti, è fondamentale che anche i cattolici europei si facciano portatori di questo messaggio. Un pensiero post-liberale dovrebbe non solo ribadire l’importanza della dignità umana e del lavoro come espressione di questa dignità, ma anche proporre una nuova visione dell’economia, in cui la centralità del denaro e degli interessi finanziari non possa prevalere su valori fondamentali come il lavoro stabile, la giustizia sociale e la solidarietà.
Non si può più permettere che l’ultra-potere del denaro continui a governare le scelte politiche, portando alla chiusura di fabbriche e all’impoverimento delle comunità, mentre i super-ricchi speculano impunemente sul prezzo dell’energia e sugli incentivi pubblici. Queste pratiche non sono compatibili con il bene comune. L’idea che chiudere intere linee produttive per massimizzare i profitti di pochi, a discapito della vita e della dignità dei lavoratori, possa essere giustificato come una “necessità economica”, è una perversione dei principi cattolici di giustizia sociale.
I cattolici europei, ispirandosi ai loro omologhi americani, dovrebbero unire le forze per promuovere politiche che ridiano slancio all’industria locale, che rafforzino i diritti dei lavoratori, e che pongano limiti seri a quei poteri forti e in parte occulti che, spesso in modo incontrollato, manipolano il mercato a proprio vantaggio. È tempo di una riflessione profonda sul fatto che il bene comune non si trova nel profitto infinito di pochi, ma nella prosperità condivisa, in cui ogni cittadino ha diritto a una vita dignitosa e a un futuro stabile.
Questa visione, che guarda oltre i dogmi neoliberisti, deve essere il cuore di una politica che finalmente faccia di nuovo dell’uomo e del bene comune la priorità assoluta.

Luca Costa