«Samaritanus bonus», una lettera per la misericordia

La risposta della Chiesa al «bisogno di un chiarimento morale e di indirizzo pratico su come assistere queste persone, giacché è necessaria una unità di dottrina e di prassi rispetto ad un tema così delicato, che riguarda i malati più deboli negli stadi maggiormente delicati e decisivi della vita di una persona.»
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Esprimo gratitudine come medico per la lettera “Samaritanus bonus”, della Congregazione per la Dottrina della fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. (22.09.2020).

Chiaramente non sono mancate le reazioni della “compagnia della buona morte” sulle pagine de “Il Riformista” infatti Marco Cappato scrive che, tale documento “… fornisce, con l’approvazione del Papa (reo di pretendere di dettare legge su una questione che non riguarda né lui né la Chiesa) un contributo alla violazione delle leggi dello Stato italiano e alla negazione del diritto all’autodeterminazione dei malati”.
Sulle stesse pagine il giorno successivo un certo Tommaso d’Aquino Jr, affronta gli aspetti più teologici e sociologici citando male l’immancabile Concilio Vaticano II (Gaudium e Spes) e malissimo il Catechismo della Chiesa Cattolica (Cfr. par 1789) in un articolo dal titolo “Samaritanus bonus, quel documento Vaticano senza misericordia”, e Mina Welby aggiunge del suo, “da cattolica sono mossa da grande compassione e quindi… li aiuto a morire.”

E’ mancato per il momento la levata di scudi della stampa dominante, forse perché troppo presa dalla pandemia e dal commento del post-elezioni, che dura mesi nel nostro paese…

E’ in questo contesto che offro il mio contributo principalmente come medico.
Tale lettera risponde al «bisogno di un chiarimento morale e di indirizzo pratico su come assistere queste persone, giacché è necessaria una unità di dottrina e di prassi rispetto ad un tema così delicato, che riguarda i malati più deboli negli stadi maggiormente delicati e decisivi della vita di una persona.»
Fin dalle prime pagine viene affermata la missione affidata a ciascuna persona, ai famigliari, agli operatori sanitari e pastorali, la custodia della vita umana fino al suo compiersi naturale, attraverso il “prendersi cura” del bisogno globale, “salus”, salute e salvezza. La lettera ripercorre i passi del Vangelo ed il grande Magistero della Chiesa, tesoro antico: infatti basta pensare che già nel primo Medioevo le chiese e i monasteri si occupavano di assistenza ai poveri, agli ammalati, ai pellegrini e ai viaggiatori, sono nati così gli ospedali. Per la prima volta nella storia umana gli ammalati non furono donne e uomini da allontanare o da evitare ma da assistere. L’impossibilità di controllare le infezioni implicava un rischio mortale per chi si prendeva cura che venne accettato per la consapevolezza cristiana che la morte ed il limite fisico, così imponente nella malattia, non erano le ultime parole sulla vita. Utile da tener presente anche in questi tempi di pandemia.
Come tutte le cose vere, sono sempre vecchie e nuove, tesoro nuovo, questa lettera offre a tutti, credenti e non credenti, la possibilità di uno sguardo, “sguardo contemplativo”, uno sguardo alla persona umana “nella sua totalità unificata”, perché molte volte “chi guarda non vede” e non riconosce nella vita umana “il primo bene comune della società”.
La lettera ri-dà dignità anche alla nostra professione, quanto più necessaria in questo momento storico.
Una professione passata attraverso le innumerevoli sfide dall’onnipotenza dello sviluppo tecnologico, alla mercificazione della professione, alla riduzione del rapporto medico-paziente come rapporto contrattuale. Basti pensare al c.2 dell’art. 1 della legge sulle DAT - Disposizioni Anticipate di Trattamento - legge n. 219 del 22/12/2017- dove viene riconosciuto come atto fondante dell’attività medica il consenso informato. Se non è chiaro l’obiettivo, cioè la finalità di un atto medico, frutto di un’alleanza tra medico e paziente, necessariamente ci si troverà di fronte al conflitto di “due autonomie”.
Inoltre una professione “abbandonata” ai gravi attacchi dei mass-media e del mondo giudiziario che hanno per anni dato voce solo ai “casi di malasanità”, per passare poi a definirli “salvatori della patria” come tecnici sostituendo i “politici” in tempo di pandemia o definendoli come “eroi”.Né angeli, né diavoli, ma alleati ed accompagnatori di chi soffre.
Si assiste inoltre drammaticamente ad un nuovo “archetipo”: il dare la morte al paziente diventa il “prendersi cura” come un vero e proprio atto terapeutico e l’aiuto al suicidio diventa “assistito” (a conferma di ciò nella letteratura scientifica dedicata si parla di MAID Medical Assistance in Dying, in Canada e di VAD Volontary Assisted Dyingin Australia). Così con pochi inganni lessicali e antropologici viene annullata una cultura millenaria fatta di pietà, solidarietà, compassione, di vera cura per il malato, di principi morali e giuridici che fondano una civiltà, e così a “suum cuique tribuere, alterum non laedere, primum non nocere”, si sostituisce l’eliminazione delle persone più fragili.
Infatti la stessa “autodeterminazione”,criterio assoluto e indiscutibile, è diventata in realtà,in nome di un potere economico e ideologico, “eterodeterminazione”, un “accanimento tanatologico” chiamato “best-interest” (il miglior interesse “la morte”, per “bassa qualità di vita”, “vita futile”, “vita non attiva”) e contro il parere dei genitori, sono stati uccisi dei piccoli Charlie, Alfie e chissà quanti altri innocenti a noi sconosciuti, o giovani adulti come Vincent Lambert o anziani, forse soli.
La lettera ci indica quindi una sfida da accettare per tutti, credenti e non credenti, da cui deriva inevitabilmente il futuro della nostra società.


“La vita è un bene, la vita umana è un bene altissimo e la società è chiamata a riconoscerlo… La vita è sempre un bene. E’, questa, un’intuizione o addirittura un dato di esperienza, di cui l’uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda”.
La Chiesa afferma il senso positivo della vita umana come un valore già percepibile dalla retta ragione. Non si tratta di un criterio soggettivo o arbitrario; si tratta invece di un criterio fondato sulla dignità inviolabile naturale- in quanto la vita è il primo bene perché condizione della fruizione di ogni altro bene …Il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico”.


Alla ragione umana è data la possibilità di riconoscere il valore della vita umana, il valore di una persona non è un’aggiunta “spirituale” per chi ha fede. L’uomo: con la sua apertura alla verità, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, “Germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile alla sola materia” (Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 18: AAS 58 (1966) 1038; cf Ibid., 14: AAS 58 (1966) 1036.), può per intuizione e per esperienza, riconoscere che la vita è il primo bene perché condizione della fruizione di ogni altro bene, ed il valore della vita è una verità basilare della legge morale naturale.
Forse davvero questa è la crisi più importante dei nostri tempi fluidi, è una crisi della “ragione”, che Don Giussani sintetizzava in “capacità di rendersi conto del reale secondo la totalità dei suoi fattori” e quindi la “capacità di prendere coscienza della realtà”, mentre nei nostri tempi, tutto è “imbevuto come per osmosi di preconcetti, cioè di idee e immagini sui valori, sui significati delle cose” (Luigi Giussani, Il Senso Religioso), una sorta di pensiero dominante.

In realtà non possiamo allungare di un millimetro i capelli del nostro capo, eppure vogliamo dominare la vita, ma eliminandola, cioè scegliendo la morte. L’uomo vive una sorta di “Rancore contro tutto ciò che gli è donato compresa la propria esistenza, contro tutto ciò che gli è stato dato, perché non vuole riconoscere che non è lui, il Creatore” (Hannah Arendt La banalità del male. ). Una specie di invidia prometeica, dice Gunther Anders, “l’idea di essere padroni della propria vita e quindi in (realtà) solo della propria morte.”
Ma l’uomo ha bisogno di essere illuminato dalla rivelazione di Dio, sulle «verità religiose e morali che, di per sé, non sono inaccessibili alla ragione, affinché nella presente condizione del genere umano possano essere conosciute da tutti senza difficoltà, con ferma certezza e senza mescolanza d’errore». (Ibid.: DS 3876. Cf Concilio Vaticano I, Cost. dogm. Dei Filius, c. 2: DS 3005; Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Dei Verbum, 6: AAS 58 (1966) 819-820; San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 1, a. 1, c: Ed. Leon. 4, 6.) [per citare correttamente il Concilio Vaticano II … suggerimenti a Tommaso D’Acquino Jr]
Violetta Parra ha scritto “Grazie alla vita” un inno al valore della vita, ma dopo alcuni anni è morta suicida.

Nella lettera Samaritanus Bonus, la Chiesa, Mater et Magistra, ci indica la strada:

«L’amore del tutto speciale che il Creatore ha per ogni essere umano “gli conferisce una dignità infinita”». Pertanto, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale. Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte. Per questo, «l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario […] guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore». «Rileggere, allora, l’esperienza vivente del Cristo sofferente significa consegnare anche agli uomini d’oggi una speranza capace di dare senso al tempo della malattia e della morte. Questa speranza è l’amore che resiste alla tentazione della disperazione».


Qui sta il punto drammatico della questione: a tutti è data la possibilità di riconoscere il valore della vita e della dignità umana, ma questo l’uomo da solo non lo può sostenere e fondare, e allora soprattutto a noi cristiani, il compito a cui siamo assegnati di testimoniare, di “STARE” sotto la croce, di prendersi cura sempre dei nostri pazienti, non abbandonare mai l’uomo sofferente in qualsiasi stadio della malattia, sopratutto nelle fasi terminali,per poter essere quella carezza del Nazzareno che permette di poter intravedere che la morte non è l’ultima parola,ma la possibilità di partecipare alla Redenzione di Cristo.
E’ possibile essere compagni di viaggio dei nostri malati, riconoscendo “la Fonte” a cui attingere, il “Bene Ultimo” comune a tutti gli uomini. Senza questo riconoscimento ultimo diventa davvero difficile abbracciare chi soffre e vivere il sacrificio di accompagnarli; anzi, diventa possibile uccidere e scambiare questo gesto, a volte in buona fede, per amore.