27 gennaio: giornata della Memoria

Il ricordo dell’uomo e la memoria dell’Onnipotente
Fonte:
CulturaCattolica.it
Vai a "Ultime news"
Samuel Bak, La luce della memoria

Nel nome nasconde la radice dello shemà: Samuel Bak, un ebreo, un polacco, uno dei tanti che ha avuto il torto d’esser nato negli anni trenta del Novecento. Samuel è del 1933, nella sua cittadina di Vilna ha ascoltato i canti yiddish, si è lasciato cullare dal dondolio dei rabbini, si è riempito il cuore e gli occhi del candore dei talledot, delle loro frange, della magia dei tefillin. Poi una data: 1940 e la sua città diventa ostile, il cristiano della porta accanto un possibile nemico, la stella di David un marchio infamante. E poi, ancora, la vita del ghetto, la perdita di tutto, ma non della memoria.
Quanto si è fatto doloroso lo shemà! Il ricordo del cuore s’imprime a fuoco nell’anima, in tal misura da restare muti.
Samuel non riuscirà più a parlare di quei giorni, di quel dramma. Resta muto ma non può dimenticare. Parlano per lui i suoi dipinti, le sue tavole. Il pennello pesca i suoi colori nella tavolozza della memoria e le tele si popolano di antichi inverni, di bambini di carta, di case solitarie e dolenti.

Un dipinto s’intitola proprio così: la luce della memoria.
Samuel ti introduce di colpo dentro alle case del ghetto di Vilna. Senti sotto i piedi il tondeggiare dell’acciottolato, respiri l’aria umida del mattino e sei invaso dal silenzio.
Percepisci subito qualcosa di strano, ma non riesci a realizzare. Ti guardi attorno e vedi case, e tetti, e finestre e ancora case. Ed ecco, ora comprendi. Non c’è l’uomo. Il villaggio è deserto e sono le dimore stesse ad essere umane.
Quelle case sono vive, hanno visto il dolore, vi hanno partecipato. Sono la memoria perenne dell’indicibile. Sono case senza abitanti, perché sterminati.
Ritta, in piedi, nel cuore del villaggio, una candela. Arde silente, viene da lei l’unico calore del dipinto. Arde e pare vegliare ostinata sopra una casupola abbattuta, la più piccola del villaggio. È l’ostinazione della speranza accanto a una casa, che potrebbe sembrare una bara, una bara implorante davanti alla porta di un altro edificio.
Ed è cosi che ci si accorge che il camino di questo grande edificio è in realtà il calco della candela che si erge solitaria nella piazzetta del villaggio. Qui, in questo edificio vive la memoria, arde la speranza e, forse, anche la preghiera.
Viene alla mente il racconto di un sopravvissuto che, internato ad Auschwitz, aveva presso di sé una candela, prezioso grasso di cui nutrirsi, succhiandolo adagio giorno dopo giorno senza farsi scorgere dagli altri compagni per non essere derubato. Poi, d’improvviso, uno, forse rabbino, che aveva tenuto il computo del tempo, che non si era lasciato inghiottire dal fango e dal fumo dell’anonimato, che aveva celebrato nel cuore le feste e la preghiere, quest’uno si accorge che è giunta la festa di Channukkà. Come celebrarla? È un lampo e la squallida baracca del campo si anima. Imprevedibilmente anche i più sopiti, i più tragicamente abbandonati alla morte si ridestano, raccolgono le forze per escogitare un modo degno di festeggiare Channukkà. Il nostro deportato tremante di dolore e di incertezza, fissa con gli occhi del cuore la memoria delle feste antiche celebrate nel calore della famiglia e dell’amicizia. Fissa gli occhi là e incurante di sé e della sua sopravvivenza estrae la preziosa candela e la porge ai compagni. Nessuno la ruba per sedare almeno un poco i terribili morsi della fame. No, un altro prigioniero trova un fiammifero ed ecco nel buio della baracca arde il fuoco della speranza. Quel fuoco ha riacceso la preghiera, nessuno più si abbandonerà alla morte. Tutti sopravvivranno.
Forse pensa a questo racconto, Samuel, quando dipinge la sua candela. O forse, pensa a sé e sua madre che sfuggirono la morte rifugiandosi in un Monastero, dove la luce delle candele e la preghiera li ha tenuti in vita, nonostante il ricordo amaro di quanti, a loro cari, venivano inghiottiti dal fumo.
Samuel Bak non può ricordare, la sua memoria vive nei quadri. Ma da essi si leva per noi una voce possente: non possiamo dimenticare quello che ha fatto l’uomo. Potrebbe riaccadere. Ma neppure possiamo ricordare solo ciò che ha fatto l’uomo: se morisse nel cuore la luce della fede e della preghiera, riaccadrà. Ricordiamo sì, l’antico dolore, ma per tenere desta in noi la memoria dell’Onnipotente. Fra gli edifici della morte ce ne sarà sempre uno in cui si custodisce fedele il fuoco della vita. E la speranza ci salverà.