2025 10 15 MOZAMBICO - shock per la decapitazione di oltre 30 cristiani

MOZAMBICO - shock per la decapitazione di oltre 30 cristiani - incendiata una chiesa e rapiti undici bambini
INDIA -Cristiano assassinato nel Punjab: omicidi mirati e giustizia ritardata
TESTIMONIANZA: “Esistiamo, ma non possiamo dire di essere cristiani”: intervista a un cristiano afghano
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MOZAMBICO - shock per la decapitazione di oltre 30 cristiani
Lo rivela il settimanale «Newsweek» in un’inchiesta sulle violenze degli estremisti islamici nel nord del Paese africano. Circolerebbero anche delle foto degli orrori. Dal 2017 nelle province di Cabo Delgado e di Nampula è in corso un’insurrezione islamista che ha già provocato oltre 6.000 morti e più di 1,3 milioni di sfollati

Orrore e shock. È quanto emerge dall’ultima inchiesta del settimanale «Newsweek», secondo cui oltre 30 cristiani sono stati decapitati nel nord del Mozambico durante il mese di settembre. Le violenze, rivendicate perlopiù dal ramo del sedicente Stato islamico in Mozambico (Ismp), sono state localizzate nelle province di Cabo Delgado e Nampula, in territori già teatro dall’ottobre del 2017 di un’insurrezione islamista che si inserisce in una tendenza più ampia riscontrata nel resto dell’Africa australe: gli attacchi, mai fermatisi in otto anni, hanno provocato oltre 6.000 morti e più di 1,3 milioni di sfollati, secondo dati incrociati dell’Onu e dell’ong Acled, che monitora le zone di conflitto. Secondo «Newsweek», circolerebbero foto dei miliziani che giustiziano civili e danno fuoco a chiese e abitazioni.

Il contesto nazionale e regionale
Dal 2021, forze militari provenienti da diversi Paesi africani, tra cui il Rwanda, sono state dispiegate per aiutare Maputo a contenere l’insurrezione, in un contesto che oltre alle minacce jihadiste vede consumarsi pure rivendicazioni economiche e sociali delle popolazioni locali — tra le più povere del Mozambico — e interessi legati allo sfruttamento delle risorse naturali dell’area, come gas e rubini. Proprio in questo periodo è in programma la ripresa della costruzione del terminal di gas naturale liquefatto ad Afungi, precedentemente sospesa dopo un assalto jihadista a Palma, il principale centro abitato dell’area. Il presidente mozambicano, Daniel Chapo, ha dichiarato che la sicurezza nella regione è migliorata, ma ha ammesso che il terrorismo rappresenta ancora una minaccia significativa.

Open Doors: Paese tra i più pericolosi per i cristiani
Nella classifica stilata dall’organizzazione cristiana americana Open Doors, il Mozambico risulta come il 37° Paese più pericoloso al mondo per i cristiani, in una realtà di vulnerabilità alla violenza e agli sfollamenti: quest’estate erano stati almeno otto i distretti della sola provincia di Cabo Delgado presi di mira dalle incursioni degli estremisti islamici, che avevano attaccato diversi villaggi, disponendo peraltro posti di blocco lungo le strade della zona. Come riferito dall’agenzia Fides, gli autisti e i passeggeri dei veicoli fermati, se cristiani, erano stati costretti a pagare un “pedaggio” di 150-460 dollari per poter passare e non essere catturati. I distretti di Chiúre e Macomia erano stati quelli con il numero più elevato di attacchi, seguiti da Ancuabe e Muidumbe. La grave insicurezza aveva ritardato anche l’assistenza umanitaria a oltre 85.000 persone.
Tre anni fa, a settembre 2022, nella provincia di Nampula, al confine con Cabo Delgado, in un attacco terroristico alla missione comboniana di Chipene fu uccisa l’italiana suor Maria De Coppi.
(Giada Aquilino, Vatican News 10 ottobre 2025)

MOZAMBICO - incendiata una chiesa e rapiti undici bambini
Gli attacchi, compiuti nella notte tra giovedì e venerdì da miliziani affiliati al sedicente Stato islamico, hanno colpito i distretti di Nangade e Palma, nella provincia di Cabo Delgado. Qui da otto anni si combatte una guerra che finora ha provocato oltre 6.200 vittime e più di 1,3 milioni di sfollati

Una chiesa data alle fiamme, tre persone uccise e undici bambini rapiti: è il nuovo, tragico bilancio della violenza jihadista che continua a devastare il nord del Mozambico di fronte all’indifferenza del mondo intero. Gli attacchi, compiuti nella notte tra giovedì e venerdì da miliziani affiliati al sedicente Stato islamico, hanno colpito i distretti di Nangade e Palma, nella provincia di Cabo Delgado, dove da otto anni si combatte una guerra che finora ha provocato oltre 6.200 vittime e più di 1,3 milioni di sfollati.

L’ennesima strage
La chiesa data alle fiamme si trovava proprio a Nangade, dove gli assalitori hanno ucciso due civili e dato alle fiamme numerose abitazioni e botteghe. Poche ore dopo, un altro gruppo armato ha fatto irruzione a Palma, città strategica per la presenza di un importante progetto di gas naturale liquefatto del gruppo francese TotalEnergies. Qui, secondo fonti locali citate dall’agenzia di stampa Afp, una quindicina di uomini ha attaccato almeno quattro abitazioni, uccidendo una persona e rapendo undici minori — sette bambine e quattro adolescenti — prima di dileguarsi nella notte. Si tratta del primo assalto a Palma dal 2021, quando un attacco di grande portata aveva causato oltre ottocento morti e costretto la compagnia francese a sospendere i lavori del terminal di Afungi, oggi in fase di riavvio. Secondo alcuni analisti, la nuova offensiva sarebbe collegata proprio alla ripresa del progetto energetico, che i ribelli vorrebbero ostacolare per dimostrare che la regione non è ancora sicura.

La maledizione delle risorse naturali
La provincia di Cabo Delgado, a maggioranza musulmana e tra le più povere del Mozambico, si conferma così epicentro di un conflitto che unisce motivazioni jihadiste, tensioni sociali e interessi economici legati allo sfruttamento del gas e dei rubini. In questo Paese si trovano la più grande miniera di rubini al mondo, quella di Montepuez, il 7 per cento delle riserve mondiali di grafite, materiale sempre più importante per l’industria delle auto elettriche, e ben 85 mila miliardi di piedi cubi di gas naturale. Eppure, il Mozambico è uno dei Paesi più poveri al mondo. E, secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, oltre 110.000 persone sono già state costrette a fuggire dalle loro case nel 2025: di queste, lo scorso settembre, 22.000 sono state costrette a scappare in una sola settimana. (Guglielmo Gallone - Vatican News 11 ottobre 2025)

Il Mozambico schiacciato dallo sfruttamento delle risorse e da indicibili violenze
Il Paese africano sta vivendo una drammatica ondata di violenza perpetrata da miliziani islamici che l’intervento dell’esercito mozambicano affiancato da quello ruandese non riesce a fermare. In fuga migliaia di contadini. Padre Filippo Macchi: “Per paura del terrorismo, di questi assassini, di queste devastazioni, tanta gente scappa, poi torna per cercare di salvare il raccolto, per riprendere con una nuova semina. Ma ciò moltiplica il disagio, la povertà, la precarietà di queste persone

Le armi non tacciono nel Nord del Mozambico. L’insurrezione, scoppiata nel 2017, continua a mietere vittime. L’intervento dell’esercito ruandese a fianco di quello mozambicano ha contenuto l’offensiva dei miliziani islamisti e l’ha rallentata, ma non l’ha fermata del tutto. A farne le spese è la povera gente, perlopiù contadini. Agricoltori che vivono coltivando i loro campi vedono i loro villaggi invasi, devastati e i loro amici e parenti uccisi brutalmente, spesso decapitati. Secondo il ricercatore Peter Bofin, citato dall’agenzia di stampa Lusa, dal primo attacco avvenuto il 5 ottobre 2017 nel distretto di Mocímboa da Praia sono stati registrati 6.257 morti, di cui almeno 2.631 civili.

La strategia dei miliziani
Negli ultimi anni, i miliziani affiliati al sedicente Stato Islamico hanno modificato la loro strategia, operando in piccole cellule mobili difficili da intercettare. «Questo consente loro di muoversi su gran parte della provincia, mettendo sotto pressione le risorse delle forze di sicurezza», ha spiegato Bofin. Nonostante la riduzione dei combattenti – stimati in meno di 400 contro i circa 2.000 del 2021 – il gruppo rimane altamente attivo e capace di destabilizzare l’area. Tra agosto e settembre, gli attacchi si sono intensificati, costringendo quasi 22.000 persone alla fuga da tre distretti, secondo le agenzie delle Nazioni Unite. A vivere in questa situazione di instabilità continua è don Filippo Macchi, sacerdote fidei donum della diocesi di Como, che opera nella parrocchia di Mirrote, diocesi di Nacala, nel territorio al confine tra la provincia di Cabo Delgado – la più colpita dal fenomeno jihadista – e quella di Nampula.

Migliaia in fuga dalla violenza
«Periodicamente ci sono tentativi da parte dei miliziani di attraversare il fiume tra la provincia di Nampula e quella di Cabo Delgado – spiega Macchi -. Attualmente il contingente militare ruandese e i reparti dell’esercito mozambicano sono riusciti a contenere l’avanzata. Purtroppo, non ce la fanno a reprimere completamente il fenomeno, e i raid si susseguono continuamente. Nella nostra provincia, il più grave è stato, tre anni fa, l’uccisione di suor Maria De Coppi e la distruzione della sua missione. A Cabo Delgado, invece, gli attacchi sono continui. Nelle due province si vive comunque in uno stato di insicurezza permanente». Ciò causa migliaia di sfollati. Sono contadini che, spaventati dalle violenze, cercano rifugio nelle città. I raccolti vanno persi e la loro vita, nelle periferie, diventa precaria, senza prospettive future. Ancora don Filippo: «Per paura del terrorismo, di questi assassini, di queste devastazioni, lasciano la loro terra per concentrarsi nelle città in cerca di fortuna o, almeno, un’opportunità di sopravvivenza. C’è tanta gente che scappa, poi torna per cercare di salvare il raccolto, per riprendere con una nuova semina. Ma ciò moltiplica il disagio, la povertà, la precarietà di queste persone».

Le motivazioni della violenza
Gli insorti attivi a Cabo Delgado sono conosciuti localmente come al-Shabab (da non confondere con l’omonimo gruppo somalo) e dal 2019 hanno giurato fedeltà allo Stato islamico, che li riconosce come Provincia dello Stato islamico in Mozambico (Iscap). Secondo studi dell’Institute for Security Studies (Iss) e del progetto Cabo Ligado, si tratta di milizie nate dall’unione di predicatori radicali, giovani disoccupati e contrabbandieri locali. Le motivazioni dell’insurrezione affondano sia nell’estremismo religioso sia nel profondo malcontento verso lo Stato, accusato di corruzione e di escludere le comunità locali dai benefici dei ricchi giacimenti di gas, rubini e legname di Cabo Delgado.

Gli interessi legati alle risorse
«All’inizio - continua don Filippo -, era una presenza soprattutto di stranieri; negli ultimi anni, ormai, hanno reclutato parecchi giovani mozambicani che, in assenza di prospettive con la mancanza cronica di lavoro, rassegnati a un destino di povertà, facilmente si lasciano abbindolare da chi gli promette il paradiso a buon prezzo e gli propone gloria e soldi nell’immediato. Questo è anche contro la natura della nostra gente, perché qui la presenza islamica, soprattutto nel litorale, non ha mai avuto una connotazione integralista e ha sempre convissuto con la religione tradizionale e con i cristiani. La cosa che mi stupisce è che sono violenti con la povera gente: decapitano, uccidono, bruciano case. Attaccano soprattutto villaggi con azioni mordi e fuggi e poi si nascondono con la popolazione locale». La presenza dei militari del Ruanda ha dato un aiuto importante nel ridimensionare il fenomeno e la popolazione guarda con favore alla presenza dei militari di Kigali e di Maputo. «Nessuno però ha capito qual è l’interesse del Ruanda in quest’area - osserva il sacerdote. -. Qual è il tornaconto? Nella nostra area ci sono tanti interessi legati allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio, gas e delle risorse minerarie. Sfruttamento che interessa a tanti, compresi nordamericani ed europei. Il problema è che questa terra è abbandonata a se stessa. Nonostante le mille promesse da parte delle autorità, la gente si sente sola, senza speranze. Non si vede un cambiamento vero, le persone sono molto, molto stanche, esasperate». A ciò si aggiungono gli effetti, sempre più devastanti, dei cambiamenti climatici. «Un tempo - conclude il religioso -, si registrava un ciclone ogni tre o quattro anni. Adesso ogni anno ce n’è uno, se non di più. Lo scorso anno ne sono passati tre e hanno devastato tutto: case, campi, infrastrutture. Le comunità si sono ritrovate con nulla. Una tragedia che si aggiunge all’instabilità e spezza la forza di questo popolo pacifico». (Vatican News Enrico Casale 12 ottobre 2025)

INDIA -Cristiano assassinato nel Punjab: omicidi mirati e giustizia ritardata
La brutale morte di Asif Raza mette in luce l’incapacità del Pakistan di proteggere i suoi cittadini cristiani.

In una tranquilla serata a Munwar Town Bhatta, Daniwal, distretto di Vehari, Punjab, un’altra tragedia si è verificata con brutale chiarezza. Asif Raza, un cristiano di 32 anni, stava tornando a casa intorno alle 19:00 quando è stato assalito in un’imboscata nei pressi del cimitero di Daniwal da un gruppo di sette aggressori. Tra questi, tre aggressori – Azan, Wahab e Hanan – sono stati identificati. Il gruppo, presumibilmente affiliato a una fazione islamista radicale, ha aggredito Asif con dei mattoni, colpendolo ripetutamente alla testa. Nonostante il trasporto d’urgenza in ospedale, Asif è deceduto poco dopo per le ferite riportate.

L’attacco non è stato casuale. Secondo fonti locali e la Voice of Pakistan Minority (VOPM), Asif è stato preso di mira esplicitamente per la sua fede cristiana. Era celibe ma fidanzato, e si stava preparando per un nuovo capitolo della sua vita. La sua morte, invece, è diventata un’altra triste voce nel crescente registro delle violenze contro le minoranze religiose in Pakistan.

L’omicidio è emblematico di una crisi più ampia. La comunità cristiana del Pakistan, stimata in circa l’1,27% della popolazione, è da tempo vittima di discriminazione sistemica, esclusione sociale e persecuzione violenta. Le leggi sulla blasfemia, spesso usate come arma contro le minoranze, hanno creato un clima di paura. In molti casi, le accuse vengono mosse senza prove e la violenza della folla precede qualsiasi procedimento legale.

Mentre uno degli aggressori di Asif, Wahab, è stato arrestato, gli altri sospettati rimangono a piede libero. La lentezza della giustizia e la mancanza di urgenza nell’arresto dei colpevoli riflettono un quadro preoccupante: l’incapacità dello Stato di proteggere i suoi cittadini più vulnerabili.
Il governo pakistano si è ripetutamente impegnato a tutelare i diritti delle minoranze. Eppure, nella pratica, queste promesse spesso si dissolvono nel silenzio. Gli interventi della polizia locale alla violenza settaria sono spesso ritardati o inefficaci. Le indagini si bloccano, i procedimenti giudiziari vacillano e le famiglie delle vittime sono lasciate a un lutto senza una conclusione.

La comunità cristiana ha espresso profonda frustrazione per il caso di Asif. Il loro dolore è aggravato dalla consapevolezza che la giustizia potrebbe essere sfuggente. Il rapporto del VOPM sottolinea che questi non sono episodi isolati, ma parte di un fallimento sistemico nel contrastare l’estremismo religioso e garantire pari protezione di fronte alla legge.

L’uccisione di Asif Raza ha riacceso le richieste di riforme. Gli attivisti chiedono maggiori tutele legali, la responsabilità della polizia e la condanna pubblica della violenza di matrice religiosa. Senza queste misure, è probabile che il ciclo di persecuzione continui.

Nel frattempo, la famiglia di Asif è devastata. La sua morte li ha privati non solo di un figlio e di un fratello, ma anche di un futuro pieno di speranza. La sua fidanzata, il cui nome non è stato reso noto, è sotto shock. La comunità cristiana locale ha organizzato veglie e servizi di preghiera, chiedendo giustizia e protezione.
Ma le loro voci rischiano di non essere ascoltate.
(Bitter Winter 10/09/2025 di A. Sahara Alexander)

TESTIMONIANZA

“Esistiamo, ma non possiamo dire di essere cristiani”: intervista a un cristiano afghano

Tramite WhatsApp, un cristiano afghano racconta la sua esperienza di vita sotto il regime talebano. Abbiamo verificato la sua storia, anche se lo proteggiamo con uno pseudonimo.

Bitter Winter: Ahmad, grazie per aver parlato con noi tramite WhatsApp. Hai detto che la tua storia non è solo personale, ma riflette la realtà di molti altri. Puoi spiegarcelo?
Ahmad: Sì. La mia storia non è solo mia: è uno sguardo sulla vita di ogni afghano che vive sotto il regime talebano. Soprattutto per i cristiani afghani, la situazione è soffocante. Esistiamo, ma non possiamo dire di essere cristiani.

Bitter Winter: Quando sei diventato cristiano?
Ahmad: Ho iniziato a credere in Cristo nel 2023, mentre vivevo in Iran. È successo gradualmente, attraverso i miei studi. Mi sono convinto della verità di Cristo. In Iran, vivevo come un credente segreto. Non era sicuro essere aperti, ma rispetto all’Afghanistan, l’Iran era comunque un po’ più libero. Almeno lì potevo respirare.

Bitter Winter: Hai avuto contatti con qualche comunità cristiana mentre eri in Iran?
Ahmad: Sì. Ero in contatto con una chiesa fuori dall’Iran. Tramite loro, distribuivo segretamente Bibbie. Era rischioso, ma mi sentivo in dovere di condividere la Parola. Ho anche scritto a decine di organizzazioni per i diritti umani, spiegando la mia situazione. La maggior parte non ha mai risposto. Alcuni sì, ma hanno detto di non potermi aiutare.

Bitter Winter: Cosa ti ha spinto a tornare in Afghanistan?
Ahmad: L’Iran ha cambiato le sue politiche sull’immigrazione. Sono stato arrestato e rimpatriato in Afghanistan nel modo più disumano. Nessun processo, nessuna spiegazione, solo espulsione forzata. Questo è successo tre mesi fa. Da allora, vivo in una zona rurale nell’Afghanistan occidentale.

Bitter Winter: com’è la vita per un cristiano in quella parte del Paese?
Ahmad: Non c’è sicurezza. Nessuna. Se la mia fede venisse scoperta, potrei essere giustiziato sul posto. Nessun processo, nessuna difesa. Ho un tatuaggio di una croce sul braccio, che rende quasi impossibile uscire. Anche uscire per pochi minuti mi riempie di terrore. I posti di blocco dei talebani sono ovunque. Se vedono il tatuaggio, è finita.

Bitter Winter: Che tipo di controlli sono in atto?
Ahmad: Le regole sono irrazionali e brutali. Le persone, soprattutto i giovani, vengono picchiate in pubblico per cose come la mancata preghiera o il mancato rispetto del codice talebano. Proprio la scorsa settimana a Herat, un giovane è stato giustiziato senza motivo. Il suo corpo è stato trascinato per le strade per incutere timore. L’ho visto. Non posso dimenticarlo. Continuo a pensare: cosa mi farebbero se sapessero che sono cristiano?

Bitter Winter: Come ti tratta la comunità locale?
Ahmad: Sono estremamente fanatici. Mi chiedono continuamente perché non partecipo alle preghiere, perché non vado in moschea e perché mi comporto in modo diverso. Diverse volte hanno cercato di costringermi a pregare con loro. L’imam locale controlla quotidianamente chi frequenta la moschea. Segnala gli assenti al dipartimento di intelligence dei talebani, il Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. Ho già ricevuto minacce da altri fedeli. Il messaggio è chiaro: vai in moschea o verrai denunciato.

Bitter Winter: Sembra una tortura psicologica.
Ahmad: Lo è. Ogni giorno, ogni ora, vivo nella paura, nella repressione e nel soffocamento. Subisco una pressione costante da parte dei musulmani che mi circondano. Devo fingere, nascondermi, mentire su chi sono. E vivo con la consapevolezza che un giorno la mia fede potrebbe essere smascherata. Penso costantemente a quel momento. Cosa succederà? Sarò trascinato per le strade come quel giovane di Herat?

Bitter Winter: Hai anche condiviso alcune foto con noi. Puoi parlarci dei rischi che ciò comporta?
Ahmad: Scattare foto per strada è estremamente pericoloso. I talebani sono ovunque, spesso indossano abiti locali, il che rende molto facile per me essere identificato. Se sospettano qualcuno, lo picchiano pubblicamente al mercato, poi lo trasferiscono alla stazione di polizia. All’interno, le persone vengono torturate. Alcune semplicemente spariscono e non tornano mai più a casa. Ecco perché ho potuto scattare solo foto in questo modo limitato. Spero che quello che sono riuscito a fornire sia sufficiente.

Bitter Winter: Quale messaggio vorresti inviare alla comunità internazionale?
Ahmad: Sotto questa dittatura repressiva e terroristica, io e centinaia, forse migliaia, di cristiani afghani viviamo nascosti. Nel momento in cui la nostra fede viene scoperta, affrontiamo la morte in un tribunale militare. Non ci viene prestata alcuna attenzione. Nessuna nostra voce viene ascoltata. Siamo costretti ad andare in moschea, a comportarci da islamici, e non possiamo nemmeno dire di essere cristiani.
Esistiamo. Ma siamo invisibili. E siamo in pericolo.
(Bitter Winter 29/09/2025)